giovedì 30 dicembre 2021

La donna della domenica



 
Luigi Firpo, La donna della domenica. Giallo a Torino, La Stampa, 25 aprile 1972  

Non mi resta nella giornata molto tempo per leggere romanzi. E quelli che mi capita di leggere non suscitano in me troppi rimpianti per gli altri che sfrecciano sotto gli occhi, copertine multicolori, nudi titoli […] Le parole ci sono, magistrali talvolta: mancano le cose da dire.

Ben venga dunque questo grosso racconto di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, La donna della domenica, scritto a due mani senza un’incrinatura né un percepibile salto di stile, che si degusta pagina per pagina con complicità maliziosa e si vorrebbe poter leggere tutto d’un fiato, tanto si impossessa di noi con i suoi ironici sortilegi. Non vorrei che qualcuno lo guardasse con sufficienza o se ne sbrigasse alla brava, trattandolo da sottoprodotto di letteratura poliziesca. Certo è la storia di due misteriosi delitti e il più simpatico dei tanti protagonisti è un commissario di polizia siciliano. In ogni caso non si tratta di “giallo” alla britannica, gremito di enigmatici sospetti e di angosce notturne, né di un “giallo” made in Usa, carico di esplosiva violenza e tutto risolto nell’azione: semmai si potrebbe richiamare Simenon e il suo lentissimo scavo psicologico tra velleità contuse e reticenze risentite, sullo sfondo di grigie città di provincia.

L’intreccio non ha nulla di artificioso o di gratuito: la macchina complessa muove i suoi rotismi con una naturalezza quasi fisiologica, l’ingegnosità è tanto sottile da mimetizzarsi totalmente. Ne deriva un intrigo tanto capillare da apparire casuale, da identificarsi con il caso stesso nella sua gratuità pura. Personaggi si incrociano, sfiorano, urtano, estranei in gran parte l’un l’altro, eppure connessi da sotterranei fili; tutti si implicano e compromettono vicendevolmente, ignorandosi, come appunto accade nella vita. I conati più diversi si intersecano, guidati ciascuno da una sua interna razionalità, ma volti a scopi illusori, settorialmente angusti: l’esito non è perciò l’ordine, ma il caos, un brulichio d’insetti multicolori.

La difficoltà dell’indagine risolutrice sta appunto in questa sfuggente logica dell’insieme, nella regìa di una rappresentazione in cui troppi personaggi recitano a soggetto. Il segreto filo conduttore non è tanto l’intreccio, quanto il giocare con la sostanziale ambiguità di ogni comportamento e parola: l’artificio scontato della suspense tradizionale, cioè la moltiplicazione dei possibili indiziati attraverso illusori sospetti (fino a celare il vero colpevole sotto le spoglie più candide e insignificanti) qui si rende superfluo. Sono le cose in sé che offrono significati molteplici, non in quanto soggettivamente elusive, ma perché oggettivamente polimorfe. […]

A questo gioco scontato fa da sfondo una Torino che sembra di toccare tanto è vera – muri, atmosfere, strade, botteghe, gente per via – messa a nudo con realismo impietoso. Ogni lettore che ci abiti non potrà fare a meno di ravvisarvi il ritratto di un vicino di casa,di un compagno di lavoro. Questa città individualista e reticente, rimasta a mezza via tra passato e futuro, sterminata periferia industriale che sommerge il centro storico risorgimentale e i quartieri perbene dei burocrati umbertini senza trovare idee e slancio da metropoli del Duemila, è uno scenario ideale per rappresentare alienazioni e compromessi, snobismi e luoghi comuni, l’affollamento disorganico e l’incomunicabilità. E’ una Torino vera fino alla sfumatura dialettale dei diversi ceti o al dettaglio topografico; ogni particolare vi è perfettamente riconoscibile e collima. […] qui uno dei protagonisti, la prima vittima, abita in una delle ultime trincee del perbenismo piccolo borghese, in via Peyron, e ha un pied-à-terre in via Mazzini, in uno di quei cortili declassati e promiscui in cui si ravvisano a stento i relitti di un funereo decoro ottocentesco. E’ una Torino vista con occhi impietosi, anonima e involgarita, frustrata e sterilmente ironica, fra l’esibizionismo di incolti dirigenti industriali che investono rotonde gratifiche in dipinti falsi e l’ostinazione di vecchi rentiers che difendono con espedienti e finzioni le parvenze di un’agiatezza perduta. 

Quasi sintetizzando la loro insofferenza per questi provincialismi e grettezze, gli autori sembrano denunciare con animosità eccessiva “difetti e virtù di una Torino sepolta di fresco o comunque in rapida decomposizione: la parsimonia, ma incancrenita nei modi del morto di fame; il riserbo, ma degradato a losca elusività; il conformismo, ma fermentato in progressive purulenze; la cortesia, ma liquefatta in adulazione; il vecchio stile, ma mangiato dai vermi di abbiette civetterie, di atroci vezzi*”. Sono parole molto dure, ma tutto il racconto poi le discioglie in impercettibili compiacimenti e tenerezze, si abbandona a vibrazioni di luce, suoni indistinti, lembi di cielo, prospettive consuete, fino a tradire in modo quasi commovente, sotto la censura dell’intelligenza, il moto segreto del cuore e un amore inconfessato, trepidante di pudore e di gelosia. Perciò, anche dove Fruttero e Lucentini graffiano e pungono con capricciose perfidie e allusioni impietose, il tono generale resta quello stimolante dell’arguzia, senza le verghe sanguinose della  satira.

Tante altre cose ci sarebbero da dire di questo libro così vivo d’intelligenza e così intriso d’ironia, che si vorrebbe poter leggere d’un fiato e che si depone col rammarico della fine, come di chi guarda il cielo nero dopo che l’ultimo fuoco d’artificio s’è spento: segno che è un romanzo vero e non solo un “giallo” di cui si legga frettolosamente l’ultima pagina tanto per sapere chi è l’assassino. L’ultima pagina poi, anzi, per l’esattezza, l’ultima riga, rappresenta la più pudica e allusiva narrazione di un adulterio nelle letterature di tutti i tempi, il che, in epoca di erotismi ostinati e triviali, non è cosa da poco. 

Quanto a me, sono grato agli autori per avermi liberato da un complesso inibitorio: grazie a loro dopo tanti gratuiti arzigogoli e noie mortali, posso dire di aver letto finalmente un libro divertente. E, alla buon’ora, non me ne vergogno.


http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,3/articleid,0142_01_1972_0097_0003_4983896/

* F&L stanno parlando dell’architetto Garrone e attribuiscono in realtà a lui le caratteristiche elencate.

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Attorno ai personaggi principali ruotano numerose altre figure, delle più diverse estrazioni sociali: le anziane sorelle Tabusso, rintanate con la domestica nella loro villa in collina, assediata da un florido traffico di prostitute e clienti; il gallerista Vollero che, pur temendo di essere scoperto dai suoi clienti, si rifornisce di cornici al Balon; l’americanista Bonetto, un intellettuale immaturo, perso dietro improbabili, inutili (e probabilmente immaginarie) schermaglie culturali con odiati colleghi. Per tale ricchezza di personaggi e per la profondità dell’analisi psicologica il romanzo costituisce un vivido ritratto della società torinese di quegli anni. [Wikipedia]

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Giovanni Damele, Facebook, 20 settembre 2024

Quando ero all’università, andavo dallo stesso tabacchino di Lucentini. Cioè, ero andato per caso, una volta, da quel tabacchino all’angolo di piazza Vittorio e ci avevo trovato Lucentini, che viveva lì accanto. E da allora ci andavo sempre sperando di ritrovarcelo ancora (accadde, al massimo, ancora un paio di volte in 4 anni). Lui comprava Gitanes senza filtro, che avevano un pacchetto caratteristico (una specie di grande scatola di fiammiferi con la gitana nera che danzava su uno sfondo blu, avvolta in spire di fumo bianco), io il tabacco e le cartine Gauloises, che mi sembravano degne di uno studente di filosofia a Torino (per uno che aveva fatto il liceo a Savona, era un po’ come passare da Marsiglia a Parigi, si parva licet). F&L li scoprii negli anni dell’università. Per me, liceale di provincia e ancor di più del Ponente ligure, Torino era il Calvino degli anni dell’Einaudi o, al massimo, Pavese. Da quando lessi La donna della domenica, per me Torino è rimasta, e sarà sempre, F&L. Sembrava anche un po’ impossibile, ai miei occhi, che due torinesi avessero uno sguardo così meravigliosamente scettico e ironico su Torino e la sua società. Era un punto di vista un po’ minoritario, un po’ laterale, ma che avrei trovato anche in un mio grande maestro: Carlo Augusto Viano. Ma c’era, ovviamente, un’altra cosa che, all’inizio, non sapevo. E cioè che Lucentini non era torinese, e che quella meravigliosa combinazione tra un torinese tutto sommato abbastanza tipico e un romano alquanto atipico era stata indispensabile per dar vita a quel libro perfetto e, più in generale, a quell’ingranaggio infallibile che era la loro prosa. Lucentini mi stava istintivamente più simpatico. Un giorno lessi che da giovane liceale aveva lanciato a scuola dei volantini con degli slogan antifascisti, ma per non indulgere in una retorica uguale e contraria, su alcuni aveva scritto “viva la fica”. Divenne un mio eroe. Negli anni dell’impegno furono accusati di qualunquismo, ma negli anni dell’impegno chi era più qualunquista: loro o chi li accusava? Per me, la risposta divenne abbastanza semplice. Soprattutto osservando i miei compagni di università che frequentavano i famosi “centri sociali” torinesi. Ho letto tanto di F&L, ma nulla è entrato a far parte del mio canone personale come La donna della domenica e A che punto è la notte, i loro due romanzi più torinesi. E anche se la mia Torino è stata quella degli anni 90, e non quella dei romanzi, alla fine un pezzetto di quella città l’ho condiviso con loro e sento che senza F&L non sarebbe diventata una delle “mie” città. Oggi sarebbe il compleanno di Fruttero.


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