giovedì 2 dicembre 2021

E' stata la mano di Dio

Simone Lorenzati E’ stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (Italia, 2021) - A tien' 'na cosa 'a raccuntà? - Sì! - E dimmell'! - La realtà non mi piace più. La realtà è scadente. In questo dialogo tra l’alter ego del giovane Paolo Sorrentino ed un maestro di teatro e di cinema – ma potrebbe anche leggersi come uno stesso Sorrentino che riguardi al proprio passato – vi è l’essenza di E’ stata la mano di Dio. Il regista partenopeo si mette a nudo mostrandoci una riflessione sulla propria carriera, sul suo cinema, in primis sulle scelte di stile che lo ha portato a quella che, di fatto, è ormai la sua “immagine di marca”. Un intreccio stretto, insomma, tra biografia ed estetica a fare la forza del film, un mondo che spazia dall’esuberanza sessuale della zia Patrizia (una Luisa Ranieri di una bravura pari solamente alla bellezza) alla passione di zio Alfredo per Maradona (da qui la mano di Dio del titolo), dalle spacconerie di un amico contrabbandiere all’altezzosità di una decaduta baronessa. Eccola, ancora, la strettissima connessione tra follia ed umanità, per uno spaccato di vita quanto mai sincero. E poi il contesto. Napoli, solamente a Napoli. Quando la mamma di Fabietto prepara la spremuta d’arance pare di sentirne il profumo, esattamente come quando, in un connubio tra tradizione e famiglia, preparano tutti insieme la conserva. Vi sono le miriadi di sfumature del sentimento confuso della vita nel film autobiografico di Paolo Sorrentino che si veste da Fabietto, miniatura del futuro regista, già osservatore minuzioso e silenzioso della commedia umana, un artista sublime in grado di trasformare la realtà tutta, compresa quella scadente, in grande cinema. Teresa Saponangelo e Toni Servillo interpretano perfettamente i genitori di Fabietto e, grazie anche a loro, ecco che iniziano a mischiarsi sacro e profano, cinema e calcio, citazioni di Dante e scherzi telefonici. Si viene immersi in tutta la verità, insieme al folclore familiare, degli Schisa. Parentesi. Cosa rende grande un film? Al di là della storia e degli attori, si intende. Per chi scrive, il pubblico, meglio le reazioni dello stesso. Ecco, Sorrentino ci fa ridere fino alle lacrime. Mi guardavo intorno, ed erano davvero risate sincere, forse anche liberatorie visto il momento che tutti quanti stiamo attraversando. Poi, improvvisamente, sulla sala torinese, a metà film, cala il silenzio. Insieme alle lacrime, che bagnano le mascherine. Fabietto ed il fratello - quello che vorrebbe fare l’attore ma a cui Fellini ha detto che ha la faccia di un cameriere di Anacapri – si trovano sulle spalle un mondo che è crollato. Ché la vita, a volte, è davvero così, dalla commedia si passa alla tragedia. Ed è toccante, perché si mischiano, nuovamente, le nostre vicende personali a quelle del film, per di più film autobiografico. Un racconto familiare sincero quello di Paolo Sorrentino, colore e affetto ma anche crepe - il papà affettuoso ha anche un’altra donna e persino un altro figlio, eccolo lì il matrimonio all’italiana - ed è proprio la scoperta di quelle crepe che costringe Fabietto a crescere, anticipando quello scontro con il dolore profondissimo che porterà sempre con sé. A metà film, dunque, Fabietto – così simile nelle movenze e nell’andatura a quello che fu un altro grandissimo napoletano, ovvero Massimo Troisi - è divenuto Fabio. E l’arrivo a Capri con il contrabbandiere - nella piazzetta di una Capri desolata quanto spettrale – gli dipingono in volto quella voglia di curiosità, quella curiosità che ti fa prendere appunti mentali per il futuro. Il cinema che diventa sogno ed evasione, con un Paolo Sorrentino che tenta di rifugiarsi nel cinema per scappare dalla realtà ed a ispirarlo, nella pellicola così come nella realtà, ci sono gli insegnamenti di Federico Fellini, con quel suo tentativo di arrivare alla verità attraverso la fantasia. Ed il passato del regista napoletano emerge attraverso il racconto della sua città natale, rivista e riecheggiata attraverso l’occhio sapiente della macchina da presa, esattamente come accadeva per lo stesso Fellini in Amarcord. Il mare del golfo di Napoli, sin dalle prime inquadrature di È stata la mano di Dio, è un elemento che ritorna spesso, una sorta di rappresentazione in grado di mescolare libertà e speranza. Il mare è il vero filo conduttore delle vicende e delle storie che accadono a Napoli, quel mare azzurro come le divise del Napoli. Una Napoli di una bellezza incantevole in cui riescono a convivere, come in pochissime altre città, alto e basso, cultura e scaramanzia, presente e passato, onestà e contrabbando, vendetta e amore. O munaciell, San Gennaro, una miriade di personaggi pittoreschi. Paolo Sorrentino ce la mostra in tutta la sua essenza, senza dimenticare, mai, il popolo, l’uomo comune che può, spesso, nascondere - dentro e fuori di sé - tutto un universo mondo, quell’universo mondo che unisce il barocchismo al quotidiano. E lo si sente sì quel velo felliniano, in un film – due ore e dieci minuti che letteralmente volano - dalle tantissime sfaccettature emozionali, da quelle più divertenti a quelle più amare e ciniche. Il tutto lasciandoci cullare e trasportare dalle onde del mare verso un futuro fatto di sogni e speranze: dal voler assistere a una partita di calcio giocata dal proprio idolo – il cui arrivo fa trattenere, letteralmente, il fiato all’intera città - al sogno di far parte del magico e onirico mondo del cinema. Paolo Sorrentino ce l’ha fatta. Ci ha saputo raccontare qualcosa. La teniss 'na cosa 'a raccuntà.
Paolo Di Paolo E mi ha fatto capire che bisogna imparare a piangere. E che non basta avere un dolore per diventare artisti. Ci vuole qualcosa di più esatto; e vedere il “munaciello” per strada, e sapere che la vita immaginata è migliore di quella reale, che è scadente, anche se poi in fondo amiamo quella, ci manca quella, e a dire il vero ci manca chiunque - della folla di comparse che ci fanno ridere e disperare e tremare. È un film molto bello, “È stata la mano di Dio”. Mi piace l’idea che per raccontare una storia così - così semplice e così dolorosa -, per fare questo film, che poteva essere il primo, Paolo Sorrentino abbia atteso, dal primo, vent’anni.

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