A questa novella si sono ispirati gli sceneggiatori del film "I soliti ignoti". Calvino prosegue nella sua esplorazione dei marginali. Stavolta si sofferma sui balordi e sfrutta a fondo il registro del comico.
Italo Calvino, Furto in una pasticceria, l'Unità edizione piemontese 17 giugno 1947
Il Dritto arrivò al posto convenuto e gli altri lo stavano aspettando già da un po’. C’erano tutt’e
due: Gesubambino e Uora-uora. C’era tanto silenzio che dalla via si sentivano suonare gli orologi nelle case: due colpi, bisognava sbrigarsi se non si voleva farsi cogliere dall’alba.
- Andiamo, - disse il Dritto.
- Dov’è? - chiesero.
Il Dritto è uno che non spiega mai il colpo che ha intenzione di fare.
Camminavano in silenzio per le vie vuote come fiumi in secca, con la luna che li seguiva lungo i fili dei tram, il Dritto avanti con quei suoi occhi gialli mai fermi, e quel suo movimento alle narici che sembra che fiuti.
Gesubambino lo chiamano così perché ha la testa grossa da neonato e il corpo tozzo; forse anche perché ha i capelli tagliati corti e un bel faccino coi baffetti neri. É tutto muscoli e si muove soffice che sembra un gatto; per arrampicarsi e raggomitolarsi non c’è nessuno come lui e quando il Dritto lo porta con sé c’è sempre una ragione.
Intanto, per dei giri che sapeva solo lui, li aveva fatti scantonare in un cortile. I due capirono
che c’era da lavorare in un retrobottega e Uora-uora si fece avanti perché non voleva fare il palo. Il destino di Uora-uora è fare il palo; il suo sogno sarebbe di entrare nelle case, frugare, riempirsi le tasche come gli altri, ma gli tocca sempre di fare il palo nelle strade fredde, nel pericolo delle pattuglie, battendo i denti perché non gelino e fumando per darsi un contegno.
- A fare il palo, Uora-uora, - disse il Dritto, muovendo le narici. Uora-uora s’allontanò mogio:
sapeva che il Dritto può continuare a muovere le narici sempre più svelto, ma a un certo punto
smette e tira fuori la rivoltella.
- Lì, - disse il Dritto a Gesubambino. C’era una finestrella alta da terra, con un cartone al posto
del vetro sinistrato.
- Tu monti, entri e mi apri, - disse. - Bada a non accendere le luci che di fuori si vede.
Gesubambino si tirò su come una scimmia per il muro liscio, sfondò il cartone senza rumore e mise la testa dentro. Fin allora non s’era accorto dell’odore: respirò e gli salì alle narici una nuvola di quel profumo caratteristico dei dolci. Più che un senso d’ingordigia provò una trepida commozione, un senso di remota tenerezza.
- Ci devono essere dei dolci, qua dentro, - pensò.
Allungò una mano, cercando d’ambientarsi nel buio per raggiungere la porticina e aprire al
Dritto. Subito ritirò la mano, con schifo: ci doveva essere una bestia davanti a lui, una bestia
marina, forse, molle e vischiosa. Rimase con la mano in aria, una mano diventata appiccicaticcia, umida, come coperta di lebbra. Tra le dita sentì che gli era spuntato un corpo tondo, un’escrescenza, forse un bubbone. Sbarrava gli occhi nel buio ma non vedeva nulla, nemmeno a mettere la mano sotto il naso. Non vedeva nulla ma odorava: allora rise. Capì che aveva toccato una torta e sulla mano aveva crema e una ciliegia candita.
Cominciò a leccarsi la mano, subito, e con l’altra continuava a brancolare intorno. Toccò un
qualcosa di solido ma soffice, con un velo granuloso in superficie: un crafen! Sempre brancolando, se lo ficcò in bocca intero.
Si sentì bussare a una porta, poco distante, con impazienza: era il Dritto che aspettava gli si
aprisse. Gesubambino si diresse verso il rumore e le sue mani urtarono prima in meringhe, poi in croccanti. Aprì. La lampadina tascabile del Dritto gli illuminò la faccia coi baffetti già bianchi di crema.
- C’è pieno di dolci, qui! - disse Gesubambino come se l’altro non lo sapesse.
- Non è tempo di dolci, - fece il Dritto, scansandolo, - non c’è tempo da perdere -. E andò avanti rimestando nel buio col bastone di luce della lampadina. E in ogni punto che illuminava scopriva file di scaffali e sopra gli scaffali file di vassoi e sopra i vassoi file di paste allineate di tutte le forme e di tutti i colori e torte cariche di creme che stillavano come cera da candele accese.
Allora uno sgomento terribile s’impadronì di Gesubambino: lo sgomento di non avere il tempo di saziarsi, di dover scappare prima d’aver assaggiato tutte le qualità di dolci, d’avere sottomano tutta quella cuccagna solo per pochi minuti in vita sua.
Si buttò sugli scaffali ingozzandosi di paste, cacciandone in bocca due, tre per volta, senza
nemmeno sentirne il sapore.
Il Dritto lo tirava per un braccio.
- La cassa, - disse, - dobbiamo prendere la cassa.
Ora bisognava forzare la cassa.
- Tieni qua, - disse il Dritto a Gesubambino dandogli la pila da reggere verso il basso perché non si vedesse da fuori. Ma Gesubambino con una mano teneva la pila e con l’altra annaspava intorno. Afferrò un plum-cake intero e mentre il Dritto s’affannava coi suoi ferri alla serratura, cominciò a morsicarlo come fosse pane. Se ne stufò presto e lo lasciò sul marmo mezzo mangiato.
- Leva di lì! Guarda che troiaio fai! - gli gridò a denti stretti il Dritto, che malgrado il suo
mestiere aveva uno strano amore per il lavoro ordinato.
Ma Gesubambino, per avere le mani libere, aveva costruito una specie di paralume con pezzi di torrone e tovagliette da vassoio. Aveva visto certe torte con la scritta “buon onomastico”. Ci si aggirò intorno, studiando il piano d’attacco: prima le passò in rassegna con il dito e leccò un po’ di crema al cioccolato, poi ci affondò la faccia dentro cominciando a morderle dal centro una per una.
- Dritto! - fece. - Se ce ne stiamo qui nascosti fino all’alba, chi ci vede?
- Non fare lo scemo, - disse il Dritto che era riuscito a forzare il cassetto e stava frugando tra i
biglietti. - Qui bisogna portare via i piedi prima che arrivi la Celere.
Proprio in quel momento si sentì picchiare alla vetrina. Nella mezzaluna si vide Uora-uora che
bussava attraverso la griglia della saracinesca e faceva gesti. I due nella bottega ebbero un balzo ma Uora-uora faceva segno di star calmi, e a Gesubambino di venire al suo posto, che lui sarebbe venuto lì.
Alla fine il Dritto era riuscito a forzare il cassetto buono e stava intascando banconote,
imprecando perché gli si appiccicavano alle dita sporche di marmellata.
- Dài, Gesubambino, è ora d’andare, - disse.
Ma per Gesubambino tutto non poteva finire così: quella doveva essere una mangiata da
raccontare per anni ai compagni e a Mary la Toscana. Mary la Toscana era l’amante di
Gesubambino: aveva delle gambe lunghe e lisce e un corpo e un viso quasi equini. Gesubambino le piaceva perché si raggomitolava e s’arrampicava sul suo corpo come un grosso gatto.
L'entrata di Uora-uora interruppe il corso di questi pensieri. Il Dritto tirò fuori la rivoltella, subito, ma Uora-uora disse:
- La Celere! - e scappò di corsa, svolazzando con le falde dell’impermeabile in mano. Il Dritto, raccolti gli ultimi biglietti, fu in due salti alla porta; e Gesubambino dietro.
Gesubambino stava pensando a Mary: solo allora s’era ricordato che poteva portarle delle paste, che non le faceva mai regali, che forse lei ci avrebbe fatto su una scena. Tornò indietro, arraffò dei cannoli, se lì ficcò sotto la camicia, poi rapidamente pensò che aveva scelto le paste più fragili, ne cercò delle più solide e se ne infarcì il seno. In quella vide le ombre dei poliziotti sulla vetrina che s’agitavano e indicavano qualcuno in fondo alla via; e uno puntò un’arma in quella direzione e sparò.
Gesubambino si acquattò dietro a un banco. Non dovevano aver colpito il bersaglio: ora facevano gesti di dispetto e guardavano dentro. Poco dopo sentì che avevano scoperto la porticina aperta, e che entravano. La bottega fu piena di poliziotti armati. Gesubambino stava aggomitolato, ma intanto, scoperta della frutta candita a portata delle sue braccia, per tenersi calmo s’ingozzava di cedri e bergamotti.
Quelli della Celere constatavano il furto e le tracce della mangiata sugli scaffali. E così,
distrattamente, cominciarono a portarsi alla bocca qualche pasticcino rimasto sbandato, badando bene a non confondere le tracce. Dopo qualche minuto, se ne andarono. Da Mary la Toscana quando Gesubambino aprì la camicia si trovò col petto ricoperto da uno strano impasto. E rimasero fino al mattino, lui e lei, sdraiati sul letto a leccarsi e piluccarsi fino all’ultima briciola e all'ultimo rimasuglui di crema.
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