martedì 7 novembre 2023

La gran vedova e il suo scagnozzo

 


Il tema della nobiltà, vera o presunta, è al centro del racconto e determina la gerarchia dei personaggi. Non è nobile il narratore che si identifica con la massa dei clienti ordinari e tuttavia si pone al di sopra dei due protagonisti, la gran vedova e il vecchio con i guanti. Lui solo vede e giudica dall'alto stabilendo la sua supremazia. Lui solo capisce veramente quello che accade. Il vecchio con i guanti è impressionato dall'imponenza della gran vedova che è solo ricca, sguaiata e non nobile neppure lei. A sua volta la gran vedova disprezza il vecchio con i guanti. Tutto un piccolo modo a parte si anima e si perde nella sala della mensa popolare. La vita è altrove ma è vita anche questa, per quanto distorta dal pregiudizio. Il racconto esce sull'Unità piemontese l'8 gennaio 1947, mentre nella raccolta dei Meridiani Mondadori si vede attribuire la data dell'8 aprile 1947. 
Si veda poi https://www.corriere.it/sette/13_novembre_25/proust-l-alta-societa-fu-soltanto-cornice-7eb790de-55ed-11e3-8836-65e64822c7fd.shtml
 
 
Italo Calvino, Alla mensa, l'Unità edizione piemontese 8 gennaio 1947 

 
Subito compresi che sarebbe successo qualcosa. I due si guardavano attraverso il tavolo, con
occhi senza espressione, come pesci in un acquario. Ma si capiva che erano estranei,
incommensurabili l’uno all’altro, due animali sconosciuti tra loro che si studiano e diffidano.
Lei
era arrivata per prima: era una donna enorme nero-vestita, certo una vedova. Una vedova di campagna, venuta in città per commerci, così la definii subito. Nelle mense popolari da sessanta lire dove mangio io, viene anche questa specie di gente: borsaneristi grossi o piccoli con un gusto perl’economia rimasto in loro dai tempi di miseria, e con slanci di prodigalità ogni tanto, quando si ricordano di avere le tasche piene di carte da mille, slanci che li fanno ordinare tagliatelle e bistecche, mentre tutti noialtri, scapoli magri che mangiamo col buono, facciamo gli occhi lunghi e ingolliamo cucchiai di minestra. La donna doveva essere una borsanerista ricca; seduta occupava un lato del tavolo e andava tirando fuori dalla sua borsa pani bianchi, frutti, formaggi male involti in carta, e ne invadeva la tovaglia. Intanto, macchinalmente, con le dita orlate di nero, andava piluccando chicchi d’uva, pezzetti di pane, e li portava alla bocca dove sparivano in un mastichìo sommesso.
Fu allora che lui s’avvicinò, vide la sedia libera con davanti un angolo di tovaglia ancora
sgombro. Chiese: - Permesso? - La donna lo guardò di sfuggita, masticando. Chiese ancora: -
Scusi... Permesso? - La donna allargò le braccia ed emise un grugnito a bocca piena di pane
masticato. L’uomo salutò sollevando leggermente il cappello e sedette. Era un vecchietto, lindo e logoro, col colletto inamidato, col cappotto benché non fosse inverno, col filo dell’apparecchio acustico che gli pendeva dall’orecchio. Subito, a vederlo, si provava disagio per lui, per quella beneducazione che traspariva da ogni suo gesto. Era di certo un nobile decaduto, piovuto tutt’a un tratto da un mondo di complimenti e inchini in un mondo di spintoni e di pugni nei fianchi, senza aver capito nulla, continuando a fare inchini tra la folla della mensa popolare come in un ricevimento a corte.
Ora erano una di fronte all’altro, la nuova ricca e l’ex ricco, animali sconosciuti l’uno all’altro; la donna larga e bassa, con grandi mani poggiate sulla tovaglia come zampe di granchio, e un
movimento come il respirare di un granchio alla gola; il vecchietto seduto in cima alla sedia, coi gomiti stretti ai fianchi, le mani inguantate rattrappite dall’artrite e piccole vene turchine che gli sporgevano dalla faccia come su un sasso roso dai licheni.
- Scusi il cappello, - disse. La donna lo guardava col giallo degli occhi. Non capiva nulla di lui.
- Scusi, - ripeté l’uomo, - se tengo il cappello in testa. C’è un po’ d’aria.
La gran vedova allora ebbe un sorriso agli angoli della bocca, guernita d’una peluria da insetto, senza quasi muovere i muscoli del volto, un sorriso inghiottito, da ventriloquo. - Vino, - disse alla cameriera che passava.
Il vecchio inguantato a quella parola batté gli occhi: il vino doveva piacergli, le vene in cima al naso testimoniavano bevute lunghe e attente, da buongustaio. Ma da tempo doveva aver rinunciato al bere. Ora la gran vedova inzuppava pezzi di pane bianco in un bicchiere di vino e masticava, masticava.
Al vecchio coi guanti alle volte dovevano prendere degli attacchi di vergogna, come stesse
corteggiando una donna e temesse di farsi vedere avaro. - Vino anche a me! - disse.
Poi, subito, si pentì d’averlo detto, pensò che forse avrebbe dato fondo alla sua pensione prima
della fine del mese e avrebbe dovuto digiunare per giorni e giorni incappottato nel freddo della sua soffitta. Non versò il vino nel bicchiere. «Forse, pensò, - lo posso restituire senza toccarlo, dire che m’è passata la voglia, e non pagarlo».
E la voglia gli era passata davvero, anche la voglia di mangiare; scucchiaiava nella minestra
scipita masticando sotto i pochi denti, mentre la gran vedova ingurgitava forchettate di maccheroni grassi di burro.
«Speriamo che adesso stiano zitti, - pensavo, - che l’uno o l’altro finisca presto e se ne vada».
Non so di cosa avessi paura. Erano esseri mostruosi l’uno e l’altro, carichi, sotto quella pigra
apparenza di crostacei, d’un odio reciproco e terribile. Immaginavo una lotta tra di loro come un lento sbranarsi di mostri degli abissi marini.
Già il vecchio era quasi cinto d’assedio dalle cibarie della vedova nei cartocci sparsi per il tavolo: confinato in un angolo con la sua minestra scipita e i due panini smilzi della tessera. Fece per tirarli ancora indietro, i suoi panini, come per paura che si smarrissero nel campo nemico, ma per una mossa falsa della mano inguantata e rattrappita, urtò un pezzo di formaggio che cascò per terra.
La vedova era enorme davanti a lui: ghignava.
- Mi scusi... mi scusi... - disse l’inguantato. La vedova lo guardava come si guarda un nuovo
animale; non rispose.
«Ecco, - pensavo io, - adesso lui grida: Basta! e strappa la tovaglia!»
Si chinò, invece, fece dei goffi movimenti sotto il tavolo per cercare il formaggio. La gran
vedova stette un po’ a guardarlo, poi, quasi senza muoversi, calò una delle sue zampe enormi verso terra, tirò su il pezzo di formaggio, lo nettò, l’avvicinò alla sua bocca da insetto, l’inghiottì prima ancora che il vecchio coi guanti fosse riemerso.
Finalmente egli si rialzò, dolorante per lo sforzo, rosso di confusione, col cappello storto e il filo dell’apparato acustico di sghimbescio.
«Ecco, - pensavo io, - ora prende il coltello e la uccide!»
Invece sembrava che non trovasse il modo di consolarsi della brutta figura ch’era convinto d’aver fatto. E gli prese la voglia di parlare, di discorrere su qualsiasi cosa, pur di dissipare quell’atmosfera di disagio. Ma non riusciva a dire una frase che non nascesse da quel disagio, che non fosse di scusa.
- Quel formaggio... - disse. - Davvero un peccato... Mi dispiace...
Alla gran vedova non bastava più umiliarlo col suo silenzio, voleva schiacciarlo addirittura.
- Me ne importa assai, - disse. - A Castel Brandone ne ho delle forme così di quel formaggio, - e fece un gesto. Ma non fu l’ampiezza del gesto che impressionò il vecchio inguantato.
- Castel Brandone? - disse e i suoi occhi luccicavano. - Io fui a Castel Brandone da sottotenente!
Nel ‘95: per i tiri. Lei che è di là conoscerà certo i conti Brandone D’Asprez!
La vedova non ghignava più soltanto: rideva. Rideva e si voltava intorno per vedere se anche gli altri avventori avevano notato quant’era ridicolo quell’uomo.
- Lei non si ricorderà, - proseguì il vecchio, - lei non si ricorderà di certo... ma quell’anno a
Castel Brandone, per i tiri, venne il re! Ci fu un ricevimento al castello dei D’Asprez! E fu allora nche avvenne il fatto che sto per raccontarle...
La gran vedova guardò l’orologio, ordinò un piatto di fegato e riprese a mangiare in fretta, senza dargli ascolto. Il vecchio coi guanti capì che stava parlando solo per sé, ma non smise: avrebbe fatto una brutta figura a smettere, doveva terminare il racconto incominciato.
- Sua maestà entrò nel salone tutto illuminato, - continuò con le lacrime agli occhi. - E da una
parte c’erano le dame in abito da sera che facevano l’inchino, e dall’altra tutti noi ufficiali
sull’attenti. E il re baciò la mano alla contessa e salutò l’uno e l’altro. Poi s’avvicinò a me...
I due quarti di vino erano vicini sul tavolo: quello della vedova quasi finito, quello del vecchio
ancora pieno. La vedova distrattamente si versò il vino del quarto pieno e bevve. Il vecchio, pur nel calore del racconto, se ne accorse: ecco, ormai non c’era più speranza, doveva pagarlo. E forse la gran vedova se lo sarebbe bevuto tutto. Ma non sarebbe stato delicato farle notare lo sbaglio, forse lei ci sarebbe rimasta male. No, non sarebbe stato delicato!
- E sua maestà mi chiese: E lei, tenente? Proprio così, mi chiese. E io, sull’attenti: Sottotenente
Clermont De Fronges, maestà. E il re: Clermont! Ho conosciuto suo padre, disse, un bravo soldato! E mi strinse la mano... Proprio così disse: un bravo soldato!
La gran vedova aveva finito di
mangiare e s’era alzata. Ora stava frugando nella sua borsa posata sull’altra sedia. Stava chinata e al disopra del tavolo le si vedeva solo il sedere, un enorme sedere di donna grassa, coperto di stoffa nera. Il vecchio Clermont De Fronges aveva di fronte a sé questo grande sedere che si muoveva. Continuava a raccontare trasfigurato in volto: -...Tutta la sala con i lampadari accesi e le specchiere... E il re che mi strinse la mano. Bravo, Clermont De Fronges, mi disse... E tutte le signore intorno in abito da sera...

 

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