lunedì 13 novembre 2023

Si dorme come cani

 


Continua l'esplorazione dei marginali. Questa è la volta dei barboni, colti in uno dei momenti più duri  della loro esistenza: la ricerca del sonno. La felicità è un letto caldo con le lenzuola di bucato e il materasso di piume.

 

Italo Calvino, Si dorme come cani, l'Unità edizione piemontese 11 giugno 1948
 

Ogni volta che apriva gli occhi si sentiva addosso tutta quella luce gialla e acida dalle grandi
lampade della biglietteria. E s’involgeva gli occhi nel bavero tirato della giacca, in cerca di buio e di
caldo. Coricandosi non s’era accorto di come gelide e dure erano le lastre di pietra del pavimento:
ora lame di freddo salivano a infiltrarglisi di sotto al vestito e per i buchi delle scarpe, e la poca
carne dei fianchi gli doleva, pigiata tra le ossa e la pietra.
Il posto però se l’era scelto bene, in quell’angolo a ridosso alla scalinata, riparato e non di passaggio: tant’è vero che dopo un po’ ch’era lì, arrivarono quattro gambe di donna alte sopra la sua testa e dissero: - Ehi, quello ci ha preso il posto.
L’uomo sentiva ma non era sveglio: sbavava da un angolo della bocca sul cartone scorticato della
piccola valigia, il suo cuscino, e i capelli s’erano messi a dormire per conto loro, seguitando la linea
orizzontale del corpo.
- Ben, - disse quella voce di prima, da sopra i ginocchi terrosi e la campana spiovente della
gonna. - Si tolga. Almeno prepariamo il letto.
E uno di quei piedi, piede di donna in scarponi, lo assaggiò ai fianchi, come un muso che annusi.
L’uomo si rizzò sui gomiti, annaspando nella luce gialla con palpebre smarrite e irritate, e i capelli
che non s’eran accorti di niente tutti dritti. Poi ripiombò giù come volesse dare una testata dentro la
valigia.
Le donne avevano tolto i sacchi di testa. L’uomo che veniva dietro posò le coperte arrotolate e
cominciarono a disporsi. - Ehi, - disse la più vecchia al coricato, - alzati, almeno mettiamo anche te
sotto -.
Macché: dormiva.
- Deve avercene una carica, - disse la più giovane, una tutt’ossi con parti grasse quasi appoggiate
alla sua magrezza: seni, natiche, che le giravano su e giù sotto la vestina, mentre lei si piegava a
stendere le coperte, e a rincalzarle sotto i sacchi di farina.
Erano tre della borsanera e venivano giù coi sacchi pieni e le latte vuote. Gente che s’era fatta le
ossa a dormire sul duro, per le stazioni e viaggiando sui «bestiame», però aveva imparato a
organizzarsi e viaggiava con le coperte.
Intanto l’uomo ch’era con loro, un magro con le cerniere-lampo, s’era già ficcato tra una coperta
e l’altra e tirato il purillo sugli occhi.
Si misero sotto anche le donne, e la più giovane e il marito si strofinarono un po’ fianco a fianco facendo un rumore di brividi, mentre la più vecchia rincalzava quel meschino d’addormentato. Forse la più vecchia non era tanto vecchia, ma era come scalcagnata dalla vita che faceva, sempre con carichi di farina e
d’olio sulla testa, su e giù per quei treni: e portava un vestito che sembrava un sacco e i capelli che
andavano in tutti i versi.
All’uomo addormentato scivolava la testa dalla valigia, ch’era troppo alta e gli faceva tenere il
collo per storto; lei provò a sistemarlo meglio, ma a quello per poco non cadeva la testa in terra:
così lei gli fece posare la testa su una sua spalla.
Erano lì che facevano per dormire, quando arrivarono un abbruzzese con i baffi neri e due figlie brune e grassottee grassotte, tutt’e tre piccoli di statura, con delle ceste di vimini e gli occhi schiacciati dal sonno in mezzo a tutta quella luce. Sembrava che le figlie volessero andare da una parte e lui dall’altra e così litigavano, senza guardarsi in faccia e quasi senza parlare, a furia di brevi frasi addentate, e un fermarsi e avanzare a strattoni. Scoprirono il posto già occupato da quei quattro e rimasero lì sempre più smarriti, finché non li raggiunsero due giovanotti in mollettiere e con le mantelline a tracolla.
Subito i due misero in mezzo gli abbruzzesi, per convincerli a mettere tutte le coperte assieme e
sistemarsi tutt’uno con quei quattro coricati. I giovanotti erano due veneti che emigravano in
Francia, e fecero alzare i borsanera e ridisporre tutte le coperte in modo da starci quanti erano.
Già qualcuno russava, ma l'abbruzzese non riusciva a dormire, pur con tutto il sonno che gli
pesava addosso. Il giallo acido di quella luce lo perseguitava fin sotto le palpebre, fin sotto la mano
che gli tappava gli occhi; e il grido disumano degli altoparlanti:... accelerato... binario... partenza...
lo teneva in continua inquietudine. Poi aveva bisogno di fare i suoi bisogni, ma non sapeva dove andare e
aveva paura di perdersi in quella stazione. Finì per decidersi a svegliare uno e prese a scuoterlo: era
quel disgraziato che dormiva lì fin da prima.
- La latrina, compare, la latrina, - diceva, e lo tirava per un gomito.
L’addormentato finì per alzarsi a sedere di scatto e spalancò i rossi occhi nebbiosi e la bocca
gommosa su quella faccia chinata su di lui, quella piccola faccia da gatto, grinzosa e coi baffi neri.
- La latrina, compare... - diceva l'abbruzzese.
L’altro restava attonito, si guardava intorno con spavento. Rimasero tutt’e due a guardarsi a
boccaperta, lui e l'abbruzzese. Quello sempre addormentato non capiva niente: scoprì la faccia di
quella donna, per terra sotto di lui, e la fissava pieno di terrore. Forse era lì lì per dare un urlo. Poi
tutt’a un tratto riaffondò la testa nel seno della donna e ripiombò nel sonno.
L'abbruzzese s’alzò calpestando due o tre corpi, e prese a muovere passi incerti per quel grande atrio luminoso e freddo. Di là delle vetrate si vedeva il buio limpido della notte e paesaggi di ferro, geometrici. Vide un brunetto più piccolo di lui con la guappa e l’abito gualcito che s’avvicinava con aria distratta.
- La latrina, compare, - chiese l'abbruzzese, supplichevole.
- Americane, svizzere, - fece l’altro che non aveva capito, facendo spuntare un pacchetto.
Era Belmoretto che sbarcava il lunario intorno le stazioni e non aveva una casa né un letto sulla
faccia della terra e ogni tanto pigliava un treno e cambiava città, dove lo portavano i suoi incerti
commerci di tabacco e gomma da masticare.
Belmoretto era un  lui pure, e fu molto gentile col vecchietto dai baffi neri; lo portò alla
latrina e aspettò che avesse finito di orinare per riaccompagnarlo. Gli diede da fumare e insieme
fumavano e guardavano con gli occhi sabbiosi di sonno partire i treni e giù nell’atrio il mucchio di
quelli che dormivano per terra.
- Si dorme come cani, - disse l'abbruzzese. - Sei giorni e sei notti che non vedo un letto.
- Un letto, - disse Belmoretto, - delle volte me lo sogno, un letto. Un bel letto bianco tutto per me.
L'abbruzzese se ne tornò a dormire.
Dopo un po' si sentì un corpo estraneo che s'intrufolava in mezzo a loro, come un cane che
scavasse sotto le coperte. Qualche donna gridò. Subito ci fu un affannarsi a tirar via le coperte per
capire cos’era. E in mezzo a loro scopersero Belmoretto che già russava aggomitolato come un feto
e senza scarpe, con la testa sotto una sottana e i piedi infilati in un’altra. Svegliato a pugni nella
schiena. - Scusate, - disse, - non volevo disturbare.
Ma ormai tutti erano svegli e sacramentavano, tranne quel primo, che sbavava.
Allora Belmoretto trovò modo di vendere delle Nazionali a tutti e si misero a fumare e a raccontare di
quante notti era che non dormivano.
- Un letto, - disse Belmoretto, - con le lenzuola di bucato e il materasso di piume da affondarci.
Un letto stretto e caldo, da starci solo io.
- Che dire di noi che facciamo sempre questa vita? - disse il borsanera. - Arrivati a casa si passa
una notte in letto e poi via di nuovo sui treni.
- Averci un letto di bucato, caldo, - disse Belmoretto. - Nudo, c’entrerei dentro, nudo.
- Sei notti che non ci spogliamo, - dissero le bassitalia, - che non cambiamo biancheria. Sei notti
che si dorme come cani.
- Io entrerei in una casa come un ladro, - disse un veneto, - ma non per rubare. Per ficcarmi in un
letto e dormirci fino al mattino.
A Belmoretto veniva un’idea. - Aspettate, - disse, e se ne andò.
Girò un po’ sotto i portici finché non incontrò Maria la Matta. Maria la Matta se passava la notte
senza trovare un cliente saltava il pasto l’indomani, perciò non s’arrendeva nemmeno alle ore
piccole e continuava su e giù per quei marciapiedi fino all’alba, coi capelli rossi stopposi e i
polpacci a fiasco. Belmoretto era molto amico suo.
Nell’accampamento della stazione continuavano a discutere di sonno e di letti e del dormire da
cani che facevano, e aspettavano che si schiarisse il buio alle vetrate. Non eran passati dieci minuti
e rieccoti Belmoretto, che arriva con un materasso arrotolato sulle spalle.
- Sotto, - disse, stendendolo per terra, - turni di mezz’ora, cinquanta lire, ci possono stare due per
volta. Sotto, cosa sono venticinque lire a testa?
Aveva noleggiato un materasso da Maria la Matta che ne aveva due nel letto e adesso lo
subaffittava a mezz’ore. Altri viaggiatori assonnati che aspettavano le coincidenze si avvicinarono,
interessati.
- Sotto, - diceva Belmoretto. - Penso io alla sveglia. Ci mettiamo una coperta sopra e vualà che
nessuno vi vede e potete farci anche i figli. Sotto.
Un veneto provò per primo, insieme a una delle ragazze abbruzzesi. La più vecchia dei borsanera
prenotò il secondo turno per lei e quel povero addormentato che aveva addosso. Belmoretto già
aveva tirato fuori un taccuino e segnava le ordinazioni.
All’alba avrebbe riportato il materasso a Maria la Matta e sarebbero stati a far capriole sul letto fino a giorno fatto. Poi, finalmente, si sarebbero addormentati. 

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