lunedì 20 novembre 2023

Pranzo con un pastore

 


Ancora un marginale. Un giovane che, invitato a pranzo in una casa borghese, non si ritrova, attirando la solidarietà dei suoi coetanei. 

Italo Calvino, Pranzo con un pastore, l'Unità edizione piemontese 15 settembre 1948 

Fu uno sbaglio di nostro padre, dei suoi soliti. Aveva fatto venire quel ragazzo da un paesetto di
montagna, perché ci guardasse le capre. E il giorno che arrivò lo volle invitare a tavola con noi.
Nostro padre non capisce le differenze che ci sono tra la gente, la differenza tra una sala da
pranzo come la nostra, coi mobili incisi, i tappeti dai cupi disegni, le maioliche, e quelle loro case di
pietra affumicate, con per pavimento terra battuta e i festoni di giornale neri di mosche alla cappa
dei camini. Nostro padre si muove dappertutto con quella sua festosità senza cerimonie, di non
voler che gli cambino il piatto alla pietanza, e quando gira a caccia tutti lo invitano, e alla sera
vengono da lui a dirimere le liti.
Quello entra; io leggo in un giornale. E mio padre a fargli dei gran discorsi, che bisogno c’era?, si
sarebbe confuso sempre più. No, invece. Alzai gli occhi ed era in mezzo alla sala con le mani
pesanti, a mento contro il petto, ma con lo sguardo davanti a sé, ostinato. Era un pastore della mia
età, all’incirca, coi capelli compatti e legnosi, e i lineamenti arcuati: fronte, orbite, mandibole.
Aveva una scura camicia da soldato abbottonata a forza sul pomo del collo e un abituccio sbilenco
da cui sembrava traboccassero le grandi nodose mani e gli scarponi goffi e lenti sul pavimento
lucido.
"Questo è mio figlio Quinto, - disse mio padre -, fa il liceo".
Io m’alzai e azzardai un’espressione sorridente e la mia mano tesa s’incontrò con la sua e subito
le scostammo senza guardarci in viso. Mio padre aveva già preso a raccontare di me, cose che non
importavano a nessuno, di quanto mi mancava a finire gli studi, di un ghiro da me ucciso una volta
cacciando nei paesi di quel giovane; e io alzavo le spalle con degli: " Io? Ma no" ogni volta che mi
sembrava non dicesse giusto. Il pastore restava muto e fermo e non si capiva se sentisse: ogni tanto
gettava un’occhiata rapida verso una parete, una tenda; come una bestia che cerca uno spiraglio
nella gabbia.
Già mio padre aveva cambiato discorso e ora girava per la stanza e diceva di certe varietà
d’ortaggi che coltivano in quelle vallate e faceva delle domande al ragazzo e lui a mento sul petto e
bocca semichiusa continuava a rispondere che non sapeva. Nascosto dietro il giornale, io aspettavo
servissero in tavola. Ma mio padre aveva fatto già sedere l’invitato e portato d’in cucina un cetriolo
e glielo andava tagliando nel piatto da minestra in fette sottili, perché lo mangiasse, diceva lui, per
antipasto.
Entrò mia madre, alta e vestita di nero, coi bordi di pizzo e la scriminatura impassibile tra i
capelli bianchi e lisci. "Ah, ecco qui il nostro pastorello, disse. - Hai fatto buon viaggio?" Il
ragazzo non s’alzò e non rispose, alzò lo sguardo su mia madre, uno sguardo pieno di diffidenza e
d’incomprensione. Io stavo dalla sua con tutta l’anima: disapprovavo quel tono di superiorità
affettuosa di mia madre, quel «tu» padronale che gli dava; avesse parlato in dialetto come nostro
padre, ancora! ma parlava italiano, un italiano freddo come un muro di marmo di fronte al povero
pastore. Già stavano per servire la minestra quando apparve mia nonna sulla poltrona a ruote spinta dalla
mia povera sorella Cristina. Dovettero gridare forte negli orecchi della nonna di cosa si trattava.
Anzi mia madre fece proprio le presentazioni: "Questo è Giovannino che ci guarderà le capre. Mia
madre. Mia figlia Cristina".
Io arrossivo di vergogna per lui a sentirlo chiamare Giovannino; chissà come quel nome suonava
diverso nel chiuso e rozzo dialetto della montagna: certo era la prima volta ch’egli si sentiva
chiamato in quel modo.
Mia nonna assentì con la sua patriarcale pacatezza: - Bravo Giovannino, speriamo che non te ne
lascerai scappare, di capre, neh! - Mia sorella Cristina, che vede in tutte le rare visite persone
d’estremo riguardo, da mezzo nascosta che era dietro lo schienale della poltrona a ruote s’affacciò
tutta spaurita mormorando "Lietissima" e diede la mano al giovane che la sfiorò con pesantezza.
Mio fratello arrivò in ritardo come al solito, quando s’avevano per mano già i cucchiai. Entra e a
un’occhiata s’è già reso conto di tutto, e prima che mio padre gli abbia spiegato la storia e l’abbia
presentato: "Mio figlio Marco che studia da notaio", già è seduto che mangia, senza batter ciglio,
senza guardar nessuno, coi freddi occhiali che sembran neri tanto sono impenetrabili, e la lugubre
barbetta liscia e rigida. Si direbbe che abbia salutato tutti e si sia scusato del ritardo, e forse anche
abbia fatto una specie di sorriso all’ospite, invece non ha schiuso le labbra né increspato d’una ruga
la spietata fronte. Ora so che il pastore ha un alleato potentissimo al suo fianco, che lo proteggerà
col suo mutismo di pietra, che gli aprirà una via di scampo in quell’atmosfera greve di disagio che
solo lui, Marco, sa creare.
Il pastore mangiava curvo sul piatto della minestra, con sciacquio e rumore. In questo tutti e tre
noi uomini eravamo dalla sua e lasciavamo alle donne l’ostentata etichetta: nostro padre per la sua
naturale rumorosità espansiva, mio fratello per determinazione imperiosa, io per malagrazia. Ero
contento di questa nuova alleanza, di questa ribellione di noi quattro contro le donne: perché faceva
sì che il pastore non fosse più solo. Certo in quel momento le donne ci disapprovavano, e non lo
dicevano per non umiliarci a vicenda, quelli di casa di fronte all’ospite, e viceversa. Ma se ne
rendeva conto il pastore? No di certo.
Mia madre passò all’attacco, dolcissima: "E quanti anni hai, Giovannino?"
Il ragazzo disse la cifra, che risuonò come un grido. La ripeté piano. - "Come?" disse la nonna e la
ripeté sbagliata. "No: è questa", - e tutti a gridargliela nelle orecchie. Solo mio fratello, zitto. "Un
anno più di Quinto", scoperse mia madre e si dovette rispiegarlo alla nonna. Soffrivo di questo paragonare me e lui, lui che doveva guardare le capre altrui per vivere, e puzzare di ariete, ed era forte da abbattere le querce, e io che vivevo sulle sedie a sdraio, accanto alla radio leggendo libretti d’opera, che presto sarei andato all’università, e non volevo mettermi la flanella sulla pelle perché mi faceva prudere la schiena. Le cose ch’erano mancate a me per esser lui, e quelle che eran mancate a lui per esser me, io le sentivo allora come un’ingiustizia, che faceva me e lui due esseri incompleti che si nascondevano, diffidenti e vergognosi, dietro quella zuppiera di minestra.
Così continuammo per tutta la durata del pranzo in questa guerra, di noi tre ragazzi contro un
mondo crudele e servizievole, senza poterci riconoscere alleati, pieni di reciproche diffidenze anche tra
noi. Mio fratello terminò con un gran gesto, dopo la frutta: uscì un pacchetto e offrì una sigaretta
all’ospite. Se le accesero, senza chiedere permesso a nessuno, e questo fu il momento di solidarietà
più piena che si creò in quel pranzo. Io ne ero escluso, perché i miei non mi permettevano di fumare
finché ero al liceo. Mio fratello ormai era soddisfatto: s’alzò, tirò due boccate guardandoci dall’alto
e zitto com’era venuto si girò e andò via.
Mio padre accese la pipa e la radio per le notizie. Il pastore se ne stava guardando l’apparecchio
con le mani aperte sui ginocchi e gli occhi spalancati che s’arrossavano di lacrime. Certo a quegli
occhi appariva ancora il paese alto sui campi, il giro delle montagne e il folto dei boschi di castagni.
Mio padre non lasciava sentire, parlava male della Società delle Nazioni, ed io ne approfittai per
uscire dalla sala da pranzo.
Il pensiero del ragazzo pastore ci seguì tutta la sera. Cenammo in silenzio alle luci attutite del
lampadario e non potevamo liberarci dal pensare a lui adesso solo nel casolare della nostra
campagna. Ora certo aveva finito la minestra nella gavetta messa a riscaldare, ed era steso sulla
paglia quasi al buio, mentre giù si sentivano le capre muoversi e urtarsi e macinare erba coi denti. Il
pastore usciva e c’era un po’ di nebbia verso il mare e l’aria umida. Una fontanella ronfava discreta
nel silenzio. Il pastore s’avvicinava lungo le vie coperte d’edera selvatica e beveva senza sete. Delle
lucciole si vedevano apparire e sparire e sembravano un grande sciame compatto. Ma lui muoveva il braccio in aria senza toccarle. 

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