martedì 28 marzo 2017

Giovanni Pascoli, Romagna


Giovanni Pascoli
Romagna
a Severino
 
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra vision di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l'altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l'anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l'urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell'aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e '1 bue rumina nelle opache stalle
la sua laborïosa lupinella.

Da' borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d'occhi di bambini.

Già m'accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d'estate
co' suoi pennacchi di color di rosa;
 
e s'abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.

Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor allor falciati
da' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura
tra que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,

Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta. 

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Stefano Labbia, I giardini incantati, Cosenza, Talos 2017

E' questa è la seconda silloge poetica del giovane autore romano Stefano Labbia: il giardino incantato è il luogo ideale dove i versi trascinano il lettore. Un luogo fatto di sfumature vivaci e tinte forti. L'autore non si cura tanto della lezione ermetica e avanguardista del Novecento, preferendo rifarsi forse ai crepuscolari (Corazzini, Gozzano, Govoni, ecc.). C'è un recupero dell’intimismo e della semplicità a fronte del modernismo a tutti i costi. Le esperienze trasfuse nei “Giardini incantati” si snodano fra sentimenti e risentimenti, amarezze e dolcezze, comuni a tutti noi esseri umani, figli dei tempi antichi e moderni. La poesia che ne risulta è, come la vita, “severa e ilare al tempo stesso”.

lunedì 27 marzo 2017

Jackie, l'ipocrisia e la tragedia





Simone Lorenzati
Tatiana Micaela Truffa

"Ah... E io non fumo." JK - gli occhi verdi velati da un mix di tristezza e rabbia - autorevole più che autoritaria, aspira un'altra nota di sigaretta, e si rivolge così al giornalista che la sta intervistando. Non ha mai smesso di essere la "Prima Dama" d'America, l'angelo del focolare di tutti gli statunitensi, nemmeno dopo il terribile assassinio del marito, in seguito al quale ha dovuto abbandonare la Casa Bianca. JK (magistralmente interpretata da Nathalie Portman) donna di Stato, e JK donna, semplice e  straordinaria. La vediamo mentre si racconta, rispettivamente, al giornalista che la intervista ed al sacerdote che prova ad attutirne il dramma. Ma, forse, gira gira si racconta a se stessa. Ha davvero bisogno di guardarsi dentro, Jackie, andare oltre la maestosa icona di stile che è, suo malgrado, diventata. Attraverso le sue parole, conosciamo meglio – su questo, almeno, pare indirizzarci il film - il Kennedy uomo, ed il Kennedy presidente, soprattutto il Presidente che avrebbe potuto e voluto essere da quel momento in avanti. Le inquadrature, la recitazione ed i dialoghi, mantengono alta l'attenzione dello spettatore, coinvolgendolo intimamente nella vita travagliata di una donna che, comunque la si veda, ha influenzato profondamente la moda ed il modo di pensare di buona parte del mondo occidentale, con riverberi che possiamo osservare ancora oggi. Tutto si mischia nella pellicola. La vita e la morte unite nello show pubblico, intrappolati da una tv che detta la sola verità. Ma se tutto è pubblico, dov’è il privato? E chi è veramente Jackie? Seppure Larraín provi a sottolinearne il dramma nei giorni immediatamente successivi all’attentato di Dallas, sebbene provi a immaginarne il cuore spezzato, la verità dei suoi reali sentimenti ed emozioni risulta sfuggente. Jackie diventa un personaggio pirandelliano, volendo. Non esiste in sé ma unicamente nella misura in cui si offre agli sguardi e nei modi in cui può essere raccontata da terzi. “Sono diventata first lady, altre donne hanno rinunciato a tutto per molto meno” afferma. Ed ancora “Arriva un punto in cui le persone di cui leggiamo sono più reali di quelle che sono al nostro fianco”. Il film, in definitiva, poggia appunto sulla grandezza di Natalie Portman, di John Hurt (il giornalista Theodore White) e di  Peter Sarsgaard (Bob Kennedy). E la tragedia di Jackie principalmente è rappresentata dall'ipocrisia in cui è costretta ed intrappolata. Di cui possiede, insieme, consapevolezza e noncuranza. Le bugie travestite da favole che si raccontano ai bambini sono lo strato superficiale, evidente, di quelle che raccontiamo anche a noi stessi, per renderci più sopportabile la vita. Jackie sembra saperlo bene, ed in questa consapevolezza risiede il suo profondo dramma. Il mito che Jackie si sforza di edificare sin dalle prime ore del lutto è quello della Casa Bianca come Camelot, l'epica reggia di Re Artù, titolo di un musical di Broadway che i Kennedy amavano ascoltare spesso. Jackie si aggira sola per i viali della città. Getta l'occhio su alcuni manichini che stanno per essere sistemati in una boutique. L'acconciatura di quei manichini è la sua, gli abiti che portano sono i capi di alta moda che lei ha reso popolari. Jackie si vede già diventata un manichino. Un quadro su di un muro, come ha detto del marito. E' questa la reale e autentica tragedia.

sabato 25 marzo 2017

Tre tipi di memoria


 


















Barbara Spinelli, La sinistra antiquaria, La Stampa, 11 giugno 2000, ripreso in Id., Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001

 Nietzsche distingue tra vari tipi di memoria: più o meno fecondi, più o meno immobilizzanti. C’è una memoria "monumentale", una "antiquaria", e una "critica". Le prime due sono le più pericolose, perché riveriscono il mondo di ieri e vi cercano riparo per non agire sul presente. Gli spiriti monumentali abbelliscono il passato, e la storia è per loro «un abito mascherato, in cui il loro odio per i potenti e i grandi del loro tempo si spaccia per sazia ammirazione dei potenti e dei grandi dei tempi passati». Il loro motto è: «Lasciate che i morti seppelliscano i vivi» (Friedrich Nietzsche, "Sull’utilità e il danno della storia per la vita", Adelphi ’73, pag. 23). Non meno rischiosa è la storia antiquaria, che con pietà o furia collezionista custodisce un nido familiare chiuso all’esterno. Nido esoterico, dove si coltiva il pronome personale «noi» e la coscienza di essere eredi di una grande nazione, o un partito-guida. Il culto del collettivo, assai conservatore, fu sempre preminente nei partiti comunisti. La storia critica è la più utile per la vita presente e futura. Essa non esita a trarre il passato davanti al tribunale, e a condannarlo. E’ una memoria azzardata anch’essa, perché la tendenza è forte di «darsi un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva. E le seconde nature sono sempre infinitamente più deboli delle prime». Ci vuole tempo, tenacia, oculatezza, perché la seconda natura maturi e diventi una prima natura.
 
http://www.elencoblog.net

domenica 19 marzo 2017

Gli scritti di Lenin su Tolstoj


Anna Zafesova 
Ma un secolo dopo, il romanziere si prende la rivincita sul rivoluzionario 
La Stampa, 24 febbraio 2017
 
Si vendeva nelle edicole dei giornali, tra le decine di opuscoletti con la copertina morbida sempre esposti in vetrina. Si dava come esame a scuola, «Lev Tolstoj come specchio della rivoluzione russa», e non si poteva leggere Guerra e pace senza doversi sorbire anche il commento al vetriolo di Lenin. Che con Tolstoj aveva un conto in sospeso, tanto da esserci tornato più volte, senza risparmiargli nulla: «utopista», «reazionario», «nocivo», «ingenuo», «debole», «contraddittorio», «immaturo». Sei saggi, una sorta di carteggio senza risposta, violento e appassionato, che oggi l’editore Medusa ripropone in italiano, tradotto dalla versione pubblicata a Parigi negli Anni Trenta da Romain Rolland. 
La polemica di Lenin con Tolstoj non è solo un documento interessante di un’epoca, ma anche l’autoritratto del leader della rivoluzione che quest’anno compie un secolo, e spiega molti tratti di quello che è stato il bolscevismo. Lenin riconosce la grandezza letteraria di Tolstoj - «Che colosso! Che figura gigantesca!», disse a Gorkij, in un episodio diventato anch’esso agiografico - ma sembra non averlo mai letto. Tutto quello che ha affascinato generazioni di lettori - l’introspezione, i dialoghi, i ritratti psicologici, l’anatomia delle relazioni - sfugge al suo sguardo. Il «conte-contadino» è per lui un grande critico del sistema, del capitalismo e dello sfruttamento, che ha descritto magistralmente ciò che il popolo deve odiare, senza però indicare gli strumenti che questo odio deve adoperare. 
Quello che fa più infuriare Lenin è la «non comprensione» della rivoluzione proletaria, «la predica di una delle cose più ignobili che sono al mondo, ovvero la religione» e soprattutto la «non resistenza al male». La non-violenza tolstojana è, secondo Lenin, la causa della sconfitta della prima rivoluzione russa del 1905, e ai contadini disperati per il collasso del patriarcale mondo rurale della servitù propone come rimedio la lotta di classe, perché «la letteratura non può non essere di partito», come scrisse in un altro saggio imparato a memoria da generazioni di scrittori e critici sovietici. Un secolo dopo, il romanziere batte il rivoluzionario: nessuno legge Lenin, mentre Tolstoj resta il grande scrittore nazionale, e Vladimir Putin si guarda avidamente la fiction della Bbc tratta da Guerra e pace: «Hanno compreso l’anima russa», dice soddisfatto.

 http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-02-22/lenin-e-scritti-tolstoj-180510.shtml?uuid=AEvoTQb

domenica 12 marzo 2017

Il Lingotto visto da vicino



 Massimo Rostagno

...  io al Lingotto ci sono stato. Da lì, l'impressione di una pluralità di voci si è avvertita abbastanza forte . Lo schema non è stato : un leader e un esercito di peones, portatori d'acqua. Vedremo se questa impressione interna trapasserà all'esterno traducendosi in prassi politica riconosciuta. A proposito della dimensione mediatica su cui ti concentri: c'è da dire che se esiste una categoria incapace di cogliere la novità è proprio quella dei giornalisti italiani. I più vivacchiano tra pigrizia intellettuale e malafede. Quando adottano un cliché - in questo caso il leader arrogante ed egocentrico - non lo abbandonano neppure con una pistola alla tempia. Troppa fatica.
Mi ha fatto piacere, ieri notte, sentire invece il professor Castelvecchi - docente di comunicazione politica - cogliere questo cambio di paradigma nel Pd renziano: da uno a molti.
Comunque, vedremo.


Paolo Odasso 

Inviterei a sentire tra i tanti gli interventi di
Biagio De Giovanni
Giuseppe Vacca
Teresa Bellanova
Vincenzo Linarello di Goel
Martina, Chiamparino ma anche
Emma Bonino


 

L'intervento di Sergio Chiamparino

“Cambiare casacca è da vigliacchi” – Molto più duro, invece, il passaggio che Sergio Chiamparino – altro ex Ds – ha dedicato ai “compagni” usciti dal partito. “”Io su questa barca ci sono salito sin dall’inizio. Non mi sentirei a posto con me sesso se in questo momento in cui il vento non è più lo stesso vento che soffiava in poppa nel 2014, io dovessi cambiare casacca e passare da un’altra parte. Mi sentirei un vigliacco“, ha detto il governatore della Regione Piemonte che è un sostenitore di Renzi ma che non ha risparmiato qualche critica alla corrente dell’ex presidente del consiglio. “L’area del Pd renziana, o il PdR, è quella che rileva per il Pd tutto ai fini dell’opinione pubblica. Quando parlano del Pd parlano di Renzi. E questa è una grande forza ma può anche essere una grande debolezza. È una grande forza perché si è creata una identità riformatrice, ma la debolezza è che se non viene investita può diventare anche autoreferenzialità“.

“La vocazione maggioritaria del Pd – ha continuato Chiamparino – fu un esperimento contraddittorio ma è un modo per dire la stessa cosa del creare egemonia. Perché la vocazione maggioritaria non è vocazione alla solitudine ma far tornare a votare gran parte del partito che non vota più e intercettare il voto di protesta che corre dietro a impostazioni sbagliate, retrive ed arretrate. Sarebbe importante se da questo incontro del Lingotto, nel mese e mezzo prima delle primarie emergesse questa proposta politica forte, di un Partito democratico che sia un soggetto che si propone cocciutamente di tornare ad aggregare un’area democratica e di sinistra che dia stabilità al governo e al Paese. Questo dovrebbe avvenire sia se si riuscirà a correggere in modo maggioritario la legge elettorale sia se questo non sarà possibile. Serve la capacità di creare egemonie e alleanze: questo consente di dare stabilità al Paese”. (Il Fatto quotidiano)


 

 https://palomarblog.wordpress.com/2017/03/11/che-tristezza-il-lingotto/

giovedì 9 marzo 2017

Doxa, opinione e verità

Salvatore Natoli


Un tempo si parlava della doxa

Aldo Natoli, Il rischio di fidarsi, Il Mulino, Bologna 2016
"Credo che..." nel suo impiego corrente, significa possedere buoni argomenti per sostenere che cose di cui non si può affermare che siano in assoluto vere possono, tuttavia, essere ritenute tali. Avere un'opinione vuol dire, dunque, farsi un'idea di come stanno le cose secondo il costrutto latino mihi videtur - "mi sembra che...". Come dire: non ci giurerei, ma se non sono nel vero ci sono vicino. Che poi è il significato del verbo greco dokeo: infatti vuol dire insieme "sembrare" e "credere". Di qui doxa - opinione - che si colloca in una zona intermedia tra l'apparire e l'essere. Ora, chi si fa o ha un'opinione, se non è presuntuoso, tiene in conto un certo margine d'errore. D'altra parte, di verità ne possediamo poche; anzi per lo più viviamo di opinioni, certo non arbitrarie, ma apprese nelle pratiche di vita, nel ripetersi delle circostanze. Tenute quindi per vere almeno fino a quando l'esperienza non le smentisce.

°°°
Marco Biffi
Redazione Consulenza Linguistica, Accademia della Crusca
Viviamo nell'epoca della postverità? 25 novembre 2016 
 
... Si discute molto sul fatto che in fondo non si tratti di un fenomeno nuovo: da sempre nelle campagne politiche lo screditamento dell’avversario con false notizie è uno strumento largamente impiegato, e la propaganda di regime da un certo punto di vista è una post-verità; dall’antichità a oggi molteplici sono poi gli esempi, anche al di fuori della politica, in cui l’emotività e le convinzioni personali hanno finito per prendere il sopravvento sui dati oggettivi. In fondo più che di lingua stiamo parlando di mancanza di correttezza e di morale; e questo è un problema endemico purtroppo non strettamente legato al nostro tempo. Le caratteristiche e le dimensioni assunte dal fenomeno ai nostri giorni sono però diverse e ci sono alcuni fattori che in particolare devono essere sottolineati, tutti legati alla rete: la globalità, la capillarità, la velocità virale della diffusione delle varie post-verità; e poi la generalità e genericità degli attori che possono alimentarle, spesso con una propaganda nascosta e inaspettata che può provenire da pseudo-istituti di ricerca, da esperti improvvisati. E se tutto questo riguarda la produzione della post-verità, non meno preoccupante è l’analisi della sua ricezione: perché c’è una complicità molto forte da parte di chi “subisce” il dato emotivamente accattivante o di parte, visto che il dato è quasi sempre facilmente verificabile con mezzi endogeni, facilmente accessibili attraverso la stessa rete (mentre all’interno di un regime, ad esempio, non è certo facile contrastare la non veridicità dell’informazione della propaganda).
Del resto la lingua sarà uno degli strumenti che col tempo ci aiuterà a capire se davvero siamo di fronte a un fenomeno nuovo: se al di là della moda del momento la parola attecchirà nella lingua (la nostra, ma anche le altre lingue del mondo visto che il fenomeno è globale) evidentemente avrà riempito una casella semantica vuota riservata a descrivere un concetto caratterizzante, se non un’era, almeno una specifica congiuntura storica.
La rete ha senza dubbio delineato i connotati fondamentali di questa dimensione “oltre la verità”. ‘Oltre’ è il significato che qui sembra assumere il prefisso post- (invece del consueto ‘dopo’): si tratta cioè di un ‘dopo la verità’ che non ha niente a che fare con la cronologia, ma che sottolinea il superamento della verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza. E, analizzando le modalità in cui il superamento si concretizza di volta in volta, colpisce la vocazione profetica che la parola nasconde tra le sue lettere: la post-verità, infatti, spesso finisce per scivolare nella “verità dei post” (come è successo spesso sulla rete proprio in relazione alle campagne politiche legate alla Brexit o alle elezioni americane).

http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/viviamo-nellepoca-post-verit

lunedì 6 marzo 2017

Weimar, un appello al Quirinale



Stefano Folli, Il rischio Weimar e il ruolo del Quirinale, la Repubblica, 6 marzo 2017

ASCOLTARE il presidente della Repubblica che denuncia “l’inconcludenza rissosa dei partiti”, come è avvenuto pochi giorni fa al Quirinale, aiuta a comprendere a quale livello sia arrivata la crisi italiana. Sono parole pronunciate da una figura istituzionale che ha fatto della prudenza la sua cifra comunicativa, nella perenne preoccupazione di non apparire invasivo. Ma il rischio è che non siano parole sufficienti a correggere la rotta e ad evitare prospettive oscure. Il limaccioso intreccio politico-giudiziario che ruota intorno all’ex premier Renzi tra fughe di notizie e colpi bassi, senza che siano chiari i torti, le ragioni e le responsabilità, costituisce un brutale cambio di paradigma del confronto pubblico. Si dimostra che una stagione si sta esaurendo e ancora una volta ciò avviene in forme drammatiche, aprendo ferite che poi sarà molto difficile rimarginare.

Per cui l’inconcludenza politica di oggi potrebbe trasformarsi domani nel collasso del sistema. È probabile che a questo pensasse Sergio Mattarella: a un domani coincidente con l’avvento della nuova legislatura, dopo elezioni che si terranno alla scadenza naturale, ossia all’inizio del 2018.

Nell'attuale legislatura una maggioranza bene o male esiste intorno al governo Gentiloni, ma la prossima potrebbe nascere nel segno della totale ingovernabilità. Le due leggi elettorali di Camera e Senato, ritagliate entrambe dalle sentenze della Consulta, non sembrano infatti in grado di assicurare un minimo di stabilità ai governi a venire. Si presume anzi che nessuna formula al momento prevedibile abbia i voti necessari in Parlamento, nemmeno la grande coalizione centrosinistra/centrodestra sul modello tedesco.

Si capisce perché: in Germania vige un’ottima legge elettorale, come pure in Francia, sia pure di natura del tutto diversa. Né a Berlino né a Parigi c’è pericolo di restare senza un governo: esistono i problemi politici, ma anche gli strumenti per affrontarli. In Italia invece si sono persi due anni a inseguire il cosiddetto “Italicum”, uno schema farraginoso e ingiusto alla fine dichiarato incostituzionale. E adesso le Camere sembrano non avere l’energia e forse nemmeno la volontà per affrontare la questione in tempo utile. È in corso un grande conto alla rovescia al termine del quale potremmo ritrovarci al buio e pochi dimostrano di averne consapevolezza. Lo scenario che prende forma si chiama Weimar, la Repubblica tedesca che si dissolse nell’inconcludenza rissosa — è il caso di dirlo — fra gli anni Venti e i primi Trenta. L’esito è noto. Rispetto ad allora non siamo devastati da una super-inflazione, ma in compenso abbiamo una serie di conti finanziari in sospeso con l’Europa. Weimar è notoriamente il simbolo stesso del suicidio di una democrazia. Non è quindi azzardato il paragone con il declino italiano di oggi, se questo fosse portato alle estreme conseguenze da un Parlamento paralizzato e incapace di offrire un governo efficiente al paese.

Sappiamo peraltro che nei momenti di crisi politica il Quirinale torna al centro della scena, rappresentando il punto di equilibrio istituzionale e anche morale a cui gli italiani guardano. Siamo ormai entrati in uno di quei momenti, certo uno dei più inquietanti della storia repubblicana, senza sapere quanto potrà durare e quali saranno le incognite che si presenteranno. Gli indizi sono tutt’altro che incoraggianti e non è invidiabile la responsabilità che si va caricando sulle spalle del presidente Mattarella. Per fortuna ci sono ancora alcuni mesi prima della fine della legislatura, mesi che sarebbe da irresponsabili spendere in una sorta di campagna elettorale anticipata di tutti contro tutti. Senza dubbio il presidente del Consiglio, Gentiloni, sa quello che deve fare per convincere gli italiani che a Palazzo Chigi non ci si limita all’ordinaria amministrazione nel pieno della tempesta.

Tuttavia la chiave per evitare Weimar rimane la legge elettorale. Ci si deve augurare che il Pd, o quel che ne rimane, ritrovi al più presto un assetto interno. Che sia Renzi a prevalere o il suo competitore Orlando, la nevrosi degli ultimi tempi dovrà lasciare il campo a una politica di riconciliazione con il mondo del centrosinistra allargato. Altrimenti sarà arduo immaginare una legge elettorale che sia altro da un puro meccanismo proporzionale, senza alcun incentivo alle coalizioni o alla lista, con l’elettorato diviso in modo equanime e nessuna maggioranza possibile sul piano politico e forse persino numerico.

È lecito quindi auspicare che il presidente Mattarella consideri l’opportunità di un suo intervento più incisivo, nelle forme che egli deciderà, per spingere le forze politiche a trovare un accordo. Il sistema senza baricentro, traballante per la crisi del renzismo e del Pd post-scissione, ha bisogno del capo dello Stato. Gli offre anzi l’opportunità
di far pesare il suo prestigio e la sua influenza sul Parlamento e nell’opinione pubblica come mai dall’inizio del mandato. In fondo gli italiani si aspettano questo dal loro primo cittadino: che rimedi nei modi possibili agli errori delle forze politiche prima del dissesto finale.

sabato 4 marzo 2017

Consip: il sospetto e la giustizia




Claudio Cerasa
La vittoria della cultura del sospetto
Il Foglio, 4 marzo 2017

... Nell'inchiesta parallela a quella di Romeo,  l'impianto politico-accusatorio punta a dimostrare che durante il governo Renzi sarebbe nata una "cricca" capitanata da Luca Lotti (indagato) e da babbo Renzi (indagato) che avrebbe agito in nome e per conto dell'ex presidente del Consiglio per portare soldi nelle tasche del Giglio magico. La tesi non presenta riscontri fattuali se non le parole dell'ad di Consip (Luigi Marroni)...
Non sappiamo come finirà l'inchiesta Consip e quale sarà il destino del Giglio magico. Sappiamo però che le inchieste mescolate alla politica finiscono spesso negli archivi delle procure, ma i metodi in stile sguattere del Guatemala restano per sempre. E come dice Paul Giamatti in una magnifica scena di "Billions", se vieni accusato di scoparti una capra, anche se la capra smentisse,per gran parte della tua vita verrai ricordato solo per quello". E' il circo mediatico, bellezza, e senza il contrappeso della politica tu non puoi farci niente.

David Allegranti
Boschi e Renzi: quando i babbi rischiano di rottamare i figli
Il Foglio, 4 marzo 2017

Non c'è peggior contrappasso, per chi ha teorizzato e praticato il parricidio politico, che rischiare di farsi travolgere dai padri biologici. Alla fine Tiziano Renzi potrebbe riuscire laddove ha fallito Massimo D'Alema: non sarebbe, peraltro, neanche un'impresa troppo originale, visto che babbo Pier Luigi c'è già riuscito con la figlia Maria Elena Boschi, passata - via Banca Etruria - da essere la ministra più potente del precedente esecutivo a megafono del silenzio. Non sono i padri a essere ingombranti di per sé, ma lo diventano, perché ingombranti per davvero lo sono i loro figli: ministri della Repubblica, segretari di partito, presidenti del Consiglio. Invece che adottare un basso profilo,
pensano che l'Italia sia un'immensa Rignano sull'Arno (o una gigantesca Laterina) nella quale non c'è distinzione tra lo strapotere e lo strapaese.

...
audiatur et altera pars: https://infosannio.wordpress.com/

venerdì 3 marzo 2017

Il giglio magico


Michele Bocci 
Massimo Vanni
Firenze, inchiesta Consip: la rete degli "amici" di Renzi nella scalata al potere politico.

Da Luca Lotti a Carlo Russo a Tullio Del Sette. L'uomo che con le sue parole ha fatto partire tutto è Luigi Marroni
La Repubblica Firenze, 3 marzo 2017

Tutto nell'arco di qualche chilometro quadrato. A scriverla solo pochi anni fa, la sceneggiatura dell'inchiesta che sta facendo tremare il Pd renziano avrebbe avuto bisogno di essere illustrata soltanto con una mappa Google di Firenze, anche abbastanza zoommata. Palazzo Medici Riccardi e Palazzo Vecchio, Santa Maria Nuova, Borgo Ognissanti, via dell'Anconella. Poi giusto qualche puntata fuori dal Comune, a Scandicci e Rignano, paese natale di Matteo dove Renzi senior vive tuttora. Tutto è partito qui, nella città dove il potere di Matteo Renzi è nato e ha iniziato a consolidarsi, prima di spiccare il volo verso Roma, nel febbraio 2014, portandosi dietro tecnici e politici fino ad allora protagonisti della ribalta fiorentina, d'un colpo promossi sulla scena politica italiana. C'è chi si è trovato al posto giusto nel momento giusto. Molti però sono quelli che hanno intravisto subito nel giovane ex Margherita un cavallo vincente e hanno scommesso su di lui. Tra questi, i volti finiti adesso sui giornali per l'inchiesta sulla Consip aperta dalla procura di Roma.

L'accusatore principale, l'uomo che con le sue parole ha fatto partire tutto, forse perché non poteva fare altrimenti di fronte alle informazioni già raccolte dalla procura di Napoli a suo tempo, è Luigi Marroni. Uomo inizialmente legato a Enrico Rossi, che lo ha portato in Toscana dopo averlo pescato in un'azienda Fiat, quando i manager sanitari venivano cercati anche in altri ambiti. Finì alla Asl di Firenze, dove rimase 8 anni prima di diventare assessore alla Sanità nel giro di un paio d'ore, dopo l'addio improvviso di Daniela Scaramuccia, nel maggio del 2012. Quando ha finito il mandato, nel 2015 è stato nominato alla Consip, la società pubblica che bandisce le gare per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni. Il passaggio lo ha fatto entrare nel gruppo dei manager di Stato renziani.

Eppure è lui ad aver raccontato agli inquirenti delle pressioni esercitate dal padre di Renzi, Tiziano, e da Carlo Russo perché favorisse nelle gare, da capo della Consip, l'imprenditore napoletano Alfredo Romeo, finito in carcere l'altro ieri. Il padre dell'ex premier lo conosceva da tempo, lo ha detto ieri anche in un'intervista a Repubblica. E probabilmente aveva incrociato varie volte anche Carlo Russo da Scandicci. Giovane imprenditore di belle speranze e tante conoscenze, titolare di un centro estetico all'interno della Klub di Marignolle, finché non è stato messo fuori per morosità dal proprietario Giorgio Moretti (attuale presidente Quadrifoglio voluto da Renzi), Russo era diventato amministratore reponsabile per la Toscana di Farexpress. Un servizio di consegna a domicilio dei farmaci di assai poco successo. Nel senso che a suo tempo Russo lo propose alle farmacie private senza ottenere molto ("Era troppo costoso", dice oggi un titolare). Andò anche a parlare in Regione, snocciolando le sue conoscenze ma ottenendo nulla.

Un contratto lo ottenne dalle farmacie comunali di Firenze e lo presentò in Palazzo Vecchio con l'allora vicesindaco Stefania Saccardi. Era il 14 giugno 2013 e in una conferenza stampa si annunciò un servizio di consegna farmaci ai non vedenti fatto in collaborazione con l'Istituto dei ciechi. Un contratto da poche migliaia di euro. Russo adesso è accusato di aver ricevuto somme di denaro da Romeo proprio per aver fatto da tramite con Marroni. Ma è anche il protagonista di una intercettazione nella quale sollecita Romeo a saldare una fattura da 70 mila euro a una ditta di catering fiorentina "che ci ha aiutato per le regionali, ci ha aiutato quindi ha delle cose in sospeso". Quale ditta? Le indagini non lo avrebbero ancora chiarito.

Ma l'inchiesta Consip ha finito per coinvolgere anche due carabinieri, addirittura il comandante generale dell'Arma Tullio Del Sette, che dalla Toscana è passato ormai più di dieci anni fa come comandante regionale. Del Sette è accusato di aver svelato a Marroni che c'era un'inchiesta sulla Consip. E la stessa accusa pende su Emanuele Saltalamacchia, oggi comandante della Legione carabinieri toscana, dal 2008 al 2012, con Renzi già sull'onda montante, comandante provinciale, e sul ministro dello sport Luca Lotti. L'uomo più fidato di Matteo Renzi, il più vicino, il più devoto, fin dai tempi di Palazzo Vecchio e, anche prima, dalla Provincia. Cresciuto a Montespertoli, come Renzi a Rignano, Lotti è da sempre l'uomo della diplomazia informale renziana. Prima dalle seconde file e anche oggi che fa il ministro. Comunque sempre in stretto contatto con Tiziano. La stessa accusa pende però anche sul presidente di Publiacqua Filippo Vannoni. Scout come l'ex premier, ma ancora in attività e marito dell'ex assessora di Renzi sindaco Lucia De Siervo, oggi dirigente del Comune.