Claudio Vercelli
Un dispositivo di totem e tabù
il manifesto, 27 gennaio 2016
È come se una sorta di consenso di massima, veicolato attraverso
una rigida procedura istituzionale, quella che aveva portato una
quindicina d’anni fa all’istituzione del Giorno della Memoria con
un’apposita legge, si fosse progressivamente indebolito, fino
a ripiegare su se stesso. Ad alcuni, allora, poteva sembrare il punto
d’arrivo di un lungo percorso di sensibilizzazione storica e civile;
oggi a non pochi pare che ci si trovi dinanzi ad una cristallizzazione.
Le iniziative in corso d’opera sono e rimangono molte, soprattutto sul piano didattico, ma la stanchezza e, a tratti, i timori non solo di un approccio retorico bensì anche potenzialmente demotivante, comunque in sé confuso e ambiguo, sono non meno diffusi. In alcuni casi sopravanza un malcelato fastidio, spesso motivato dal fatto che ricordare un genocidio, secondo certuni, potrebbe servire a relativizzarne altri. C’è quindi chi ne denuncia l’inflazione, ossia la sua saturazione discorsiva che, ancora lievitando, pare slegare sempre di più i contenuti delle comunicazioni pubbliche rispetto alle originarie intenzioni. Dalla sensibilizzazione e dalla condivisione si passerebbe quindi all’ossessione. Non un diritto alla comprensione ma un dovere basato su una sorta di colpa quasi metafisica, creando un totem e un tabù contro i quali, prima o poi, qualcuno potrebbe scagliarsi, in un atto falsamente liberatorio.
Omissioni ad arte
C’è invece chi più puntualmente invita a riflettere sul concreto rischio del travisamento, attraverso il combinato disposto tra banalizzazione (tutto è Auschwitz), sacralizzazione (Auschwitz è tutto) e negazione (Auschwitz è niente). Tre possibili esiti inscritti dentro un campo ai cui estremi si pongono un tempo senza storia (quello del dolore perenne, non risarcibile, schiacciato quindi su un presente eterno) e della commemorazione intesa come rituale autosufficiente, basato sulla ripetizione degli stessi cliché.
Così facendo, l’impressione che se ne ricava è quella non tanto di una consapevolezza in divenire bensì di una sottile strategia di omissione, dove il ritornare a ciò che è stato potrebbe servire per evitare di affrontare quello che sta avvenendo. Non di meno, ed è altra questione tanto imperativa quanto non elaborabile con i tradizionali strumenti della mediazione culturale, la pervasività mediatica del tema, e la sua fortuna nell’immaginario collettivo europeo e americano, hanno decretato che, a fianco della ricerca storica e della riflessione storiografica, si accompagnassero, per poi spesso sostituirsi all’una e all’altra, fenomeni di uso spettacolare e drammatizzante.
Lo stesso può dirsi del determinarsi di un universo di significati del tutto decontestualizzati. Sussiste infatti un vero e proprio circuito di raffigurazioni che sembra oramai alimentarsi a prescindere dai fatti storici, assumendo una sorta di esistenza sua propria, all’interno dei prodotti di una subcultura pop che mischia deliberatamente le cose, deformandone i significati e facendo volutamente a meno di codici di comprensione che non siano quelli dettati da interessi di circostanza.
In campo politico, ad esempio, le cose paiono spesso funzionare così. Si ha allora a che fare con la presenza di un paradigma globalizzante, una sorta di «cosmopolitan memory», dove l’intreccio, spesso caotico, tra istanze affettive, morali e civili rischia non solo di non rendere conto dei trascorsi ma di affaticare ancora di più la comprensione e la condivisione della nostra contemporaneità. Se ci poniamo in tale ottica, il fuoco della riflessione, quindi, non è più una peculiare vicenda storica bensì l’attuale uso pubblico del suo ricordo.
Le molteplici ricadute di quella memoria nel corso del tempo sono state differenziate, semmai stratificandosi in un complesso di parole, idee, immagini ma anche suggestioni che sempre più spesso si sono incontrate, per poi avvilupparsi, con il nodo dell’identità individuale e collettiva nell’età corrente. Non quindi di quanti vissero concretamente tempi così tragici, sopravvivendo ad essi silenziosamente, bensì di coloro che oggi ne rielaborano i significati, conferendo a se stessi una ragione d’essere civile e politica soprattutto in rapporto alla rilevanza che attribuiscono a quel passato. Il quale sembra inglobare e metabolizzare tanti altri passati. In realtà, come bene sanno gli studiosi, ci troviamo dinanzi al prodotto di una stagione culturale che prende le sue mosse con la fine degli anni Settanta, quando la testimonianza diretta di chi aveva vissuto quelle vicende iniziò ad assumere uno statuto e una rilevanza che precedentemente non gli erano state accordate.
Una tragedia fondativa
Esiste peraltro un sistema di binari a doppio scorrimento, con un tracciato per più aspetti parallelo, che mette in relazione la crisi del «paradigma antifascista» con l’emergere della centralità della Shoah. Mentre le fortune del primo si fanno decrescenti, non rendendo più conto del suo valore di elemento primario nella coesione sociale e politica, la seconda ne ricava per più aspetti un ruolo di supplenza, finendo con il divenire parte imprescindibile del bagaglio della cittadinanza democratica. Alla rilevanza dei vincitori, coloro che avevano annientato il nazismo e i fascismi, ricostruendo l’Europa e dando forma ad una nuova società pluralista, si sostituisce infatti quella delle vittime.
La Shoah, per alcuni aspetti, si emancipa dal suo stesso essere una tragedia ebraica (intrecciata con le politiche oppressive e persecutorie di altri gruppi bersaglio, praticate sistematicamente dal regime hitleriano e dai fascismi europei) per essere rivestita di una valenza assoluta, quella di elemento fondativo del modo in cui costituiamo e condividiamo uno sguardo morale sul mondo. Quanto meno nel campo occidentale poiché ben diverse sono le sensibilità in altri contesti. Non si tratta di un transito di poco conto poiché si accorda alle trasformazioni che attraversano l’ambito culturale e politico dei nostri paesi, laddove al declino dell’azione collettiva sembra sostituirsi una sorta di memoria proiettiva, fondata sull’identificazione sentimentale con i «vinti dalla storia». Un fatto, quest’ultimo, che conferisce all’inazione e all’impotenza un significato simbolico molto pronunciato. L’arco di tempo strategico è, d’altro canto, quello in cui viene deperendo il modello riformista di stampo socialdemocratico, praticato nell’Europa atlantica, come anche la residua speranza di una trasformazione radicale affidata ai processi di rivoluzionamento delle società.
Latitanza della politica
Il dispositivo della legge istitutiva del Giorno della Memoria recepisce e registra a distanza di tempo, per più aspetti del tutto inconsapevolmente, il formarsi e poi il diffondersi di questo fenomeno di scambio. Il rischio reale è che la memoria esemplare e paradigmatica di cui si fa carico sancisca definitivamente l’improduttività di quella letterale, basata non solo sul riscontro oggettivo dei fatti ma anche sulla capacità di coglierne la reale dimensione all’interno di una dinamica che sappia comparare, senza parificarle, le tragedie del passato per intervenire sugli orientamenti del presente. Alle spalle di tutto ciò c’è senz’altro anche l’ombra velenosa del conflitto israelo-palestinese. Ancora di più vale, tuttavia, quella rincorsa alla quale da molto tempo stiamo assistendo un po’ ovunque per assumere la veste di vittime per eccellenza, a suggello di un’identità collettiva che surroga, in tale modo, l’assenza della politica come azione per la trasformazione.
La vittima, infatti, non chiede diritti, domandando semmai risarcimenti. Il paradosso è che una memoria di tale genere, tanto più se istituzionalizzata, non solo rischi di trasformarsi in una retorica pubblica incapace di andare oltre la sua stessa autocelebrazione ma, in una eterogenesi dei fini, incentivi quei processi di disinvestimento dalla partecipazione alla sfera pubblica che, invece, vorrebbe contribuire ad arrestare.
http://www.ricerchedistoriapolitica.it/tra-passato-e-presente/la-giornata-della-memoria-e-ormai-storia/
Le iniziative in corso d’opera sono e rimangono molte, soprattutto sul piano didattico, ma la stanchezza e, a tratti, i timori non solo di un approccio retorico bensì anche potenzialmente demotivante, comunque in sé confuso e ambiguo, sono non meno diffusi. In alcuni casi sopravanza un malcelato fastidio, spesso motivato dal fatto che ricordare un genocidio, secondo certuni, potrebbe servire a relativizzarne altri. C’è quindi chi ne denuncia l’inflazione, ossia la sua saturazione discorsiva che, ancora lievitando, pare slegare sempre di più i contenuti delle comunicazioni pubbliche rispetto alle originarie intenzioni. Dalla sensibilizzazione e dalla condivisione si passerebbe quindi all’ossessione. Non un diritto alla comprensione ma un dovere basato su una sorta di colpa quasi metafisica, creando un totem e un tabù contro i quali, prima o poi, qualcuno potrebbe scagliarsi, in un atto falsamente liberatorio.
Omissioni ad arte
C’è invece chi più puntualmente invita a riflettere sul concreto rischio del travisamento, attraverso il combinato disposto tra banalizzazione (tutto è Auschwitz), sacralizzazione (Auschwitz è tutto) e negazione (Auschwitz è niente). Tre possibili esiti inscritti dentro un campo ai cui estremi si pongono un tempo senza storia (quello del dolore perenne, non risarcibile, schiacciato quindi su un presente eterno) e della commemorazione intesa come rituale autosufficiente, basato sulla ripetizione degli stessi cliché.
Così facendo, l’impressione che se ne ricava è quella non tanto di una consapevolezza in divenire bensì di una sottile strategia di omissione, dove il ritornare a ciò che è stato potrebbe servire per evitare di affrontare quello che sta avvenendo. Non di meno, ed è altra questione tanto imperativa quanto non elaborabile con i tradizionali strumenti della mediazione culturale, la pervasività mediatica del tema, e la sua fortuna nell’immaginario collettivo europeo e americano, hanno decretato che, a fianco della ricerca storica e della riflessione storiografica, si accompagnassero, per poi spesso sostituirsi all’una e all’altra, fenomeni di uso spettacolare e drammatizzante.
Lo stesso può dirsi del determinarsi di un universo di significati del tutto decontestualizzati. Sussiste infatti un vero e proprio circuito di raffigurazioni che sembra oramai alimentarsi a prescindere dai fatti storici, assumendo una sorta di esistenza sua propria, all’interno dei prodotti di una subcultura pop che mischia deliberatamente le cose, deformandone i significati e facendo volutamente a meno di codici di comprensione che non siano quelli dettati da interessi di circostanza.
In campo politico, ad esempio, le cose paiono spesso funzionare così. Si ha allora a che fare con la presenza di un paradigma globalizzante, una sorta di «cosmopolitan memory», dove l’intreccio, spesso caotico, tra istanze affettive, morali e civili rischia non solo di non rendere conto dei trascorsi ma di affaticare ancora di più la comprensione e la condivisione della nostra contemporaneità. Se ci poniamo in tale ottica, il fuoco della riflessione, quindi, non è più una peculiare vicenda storica bensì l’attuale uso pubblico del suo ricordo.
Le molteplici ricadute di quella memoria nel corso del tempo sono state differenziate, semmai stratificandosi in un complesso di parole, idee, immagini ma anche suggestioni che sempre più spesso si sono incontrate, per poi avvilupparsi, con il nodo dell’identità individuale e collettiva nell’età corrente. Non quindi di quanti vissero concretamente tempi così tragici, sopravvivendo ad essi silenziosamente, bensì di coloro che oggi ne rielaborano i significati, conferendo a se stessi una ragione d’essere civile e politica soprattutto in rapporto alla rilevanza che attribuiscono a quel passato. Il quale sembra inglobare e metabolizzare tanti altri passati. In realtà, come bene sanno gli studiosi, ci troviamo dinanzi al prodotto di una stagione culturale che prende le sue mosse con la fine degli anni Settanta, quando la testimonianza diretta di chi aveva vissuto quelle vicende iniziò ad assumere uno statuto e una rilevanza che precedentemente non gli erano state accordate.
Una tragedia fondativa
Esiste peraltro un sistema di binari a doppio scorrimento, con un tracciato per più aspetti parallelo, che mette in relazione la crisi del «paradigma antifascista» con l’emergere della centralità della Shoah. Mentre le fortune del primo si fanno decrescenti, non rendendo più conto del suo valore di elemento primario nella coesione sociale e politica, la seconda ne ricava per più aspetti un ruolo di supplenza, finendo con il divenire parte imprescindibile del bagaglio della cittadinanza democratica. Alla rilevanza dei vincitori, coloro che avevano annientato il nazismo e i fascismi, ricostruendo l’Europa e dando forma ad una nuova società pluralista, si sostituisce infatti quella delle vittime.
La Shoah, per alcuni aspetti, si emancipa dal suo stesso essere una tragedia ebraica (intrecciata con le politiche oppressive e persecutorie di altri gruppi bersaglio, praticate sistematicamente dal regime hitleriano e dai fascismi europei) per essere rivestita di una valenza assoluta, quella di elemento fondativo del modo in cui costituiamo e condividiamo uno sguardo morale sul mondo. Quanto meno nel campo occidentale poiché ben diverse sono le sensibilità in altri contesti. Non si tratta di un transito di poco conto poiché si accorda alle trasformazioni che attraversano l’ambito culturale e politico dei nostri paesi, laddove al declino dell’azione collettiva sembra sostituirsi una sorta di memoria proiettiva, fondata sull’identificazione sentimentale con i «vinti dalla storia». Un fatto, quest’ultimo, che conferisce all’inazione e all’impotenza un significato simbolico molto pronunciato. L’arco di tempo strategico è, d’altro canto, quello in cui viene deperendo il modello riformista di stampo socialdemocratico, praticato nell’Europa atlantica, come anche la residua speranza di una trasformazione radicale affidata ai processi di rivoluzionamento delle società.
Latitanza della politica
Il dispositivo della legge istitutiva del Giorno della Memoria recepisce e registra a distanza di tempo, per più aspetti del tutto inconsapevolmente, il formarsi e poi il diffondersi di questo fenomeno di scambio. Il rischio reale è che la memoria esemplare e paradigmatica di cui si fa carico sancisca definitivamente l’improduttività di quella letterale, basata non solo sul riscontro oggettivo dei fatti ma anche sulla capacità di coglierne la reale dimensione all’interno di una dinamica che sappia comparare, senza parificarle, le tragedie del passato per intervenire sugli orientamenti del presente. Alle spalle di tutto ciò c’è senz’altro anche l’ombra velenosa del conflitto israelo-palestinese. Ancora di più vale, tuttavia, quella rincorsa alla quale da molto tempo stiamo assistendo un po’ ovunque per assumere la veste di vittime per eccellenza, a suggello di un’identità collettiva che surroga, in tale modo, l’assenza della politica come azione per la trasformazione.
La vittima, infatti, non chiede diritti, domandando semmai risarcimenti. Il paradosso è che una memoria di tale genere, tanto più se istituzionalizzata, non solo rischi di trasformarsi in una retorica pubblica incapace di andare oltre la sua stessa autocelebrazione ma, in una eterogenesi dei fini, incentivi quei processi di disinvestimento dalla partecipazione alla sfera pubblica che, invece, vorrebbe contribuire ad arrestare.
http://www.ricerchedistoriapolitica.it/tra-passato-e-presente/la-giornata-della-memoria-e-ormai-storia/
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