Wlodek Goldkorn
Desaparecidos
Noi vittime della storia siamo tutti una famiglia
la Repubblica, 9 gennaio 2016
Raquel Robles racconta in un romanzo la sua esperienza di figlia di desaparecidos argentini
Raquel
Robles aveva poco più di quattro anni, quando, un giorno d’aprile, in
casa si presentarono i militari. Gli uomini in armi portarono via il
padre e la madre. Raquel non li rivide più. Oggi Robles, figlia di due
desaparecidos argentini (due dei trentamila, giovani e meno, uccisi in
segreto e senza che i loro corpi potessero avere una sepoltura degna
degli umani) ha 45 anni, è scrittrice e donna impegnata in politica, ma
anche insegnante, specializzata nel lavoro con adolescenti in gravi
difficoltà. La sua vicenda l’ha voluta narrare in un romanzo: Piccoli
combattenti, ora pubblicato da Guanda (traduzione di Iaia Caputo, pagg.
160, euro 15).
La prosa di Robles è asciutta e precisa. Le parole
non sono mai troppe né usate per indurre il lettore a versare una
gratuita lacrima. Piccoli combattenti è un romanzo che a buon diritto
può entrare nel filone della grande letteratura, di quella narrativa che
scarta il superfluo per parlare dell’essenziale: amore, paura, morte,
identità, la labilità della memoria. E tra le pagine, oltre alla vicenda
di una bambina che cresce in casa degli zii, con due nonne e un
fratellino di 18 mesi più piccolo di lei, torna più volte il riferimento
al ghetto di Varsavia, agli insorti del quartiere ebraico, a Irena
Sendler, una donna che salvò 2.500 bambini ebrei e fu orrendamente
torturata dai nazisti (le spezzarono le gambe e le mani): quasi a
sottolineare quanto la vicenda dei desaparecidos assomigli (lo avevano
già intuito scrittori come Nathan Englander e Elsa Osorio) al meccanismo
che in Europa portò alla Shoah. L’abbiamo intervistata.
Quanta autobiografia c’è nel suo romanzo?
«Se
per autobiografia intende l’adesione precisa ai fatti, rimarrà deluso.
Ci sono molti ricordi, ma ho lasciato lavorare la mia immaginazione. Ho
voluto raccontare i sentimenti, le emozioni; non essere fedele ai
fatti».
Sta dicendo che la memoria è frutto della nostra
immaginazione e che il passato come lo vediamo è in gran parte
proiezione dei nostri desideri?
«Noi, e quando dico noi, intendo
la gente che ha sofferto, siamo chiamati a ricordare. E quando usiamo la
parola ricordare pensiamo istintivamente a una memoria solida che può
essere ritrovata e riprodotta. Ma è un’idea sbagliata. La memoria è
invece il ricordo degli stati d’animo».
Il suo è un libro
sull’assenza. Assenza dei genitori, assenza degli affetti. Cosa è la
memoria quando si ha a che fare con l’assenza?
«Quando vivi
nell’assenza diventi ossessionato dalla ricerca della verità perché hai
il costante sospetto che tutto quello che ricordi è inventato. Però, a
pensarci bene anche chi ha avuto i genitori fino a un’età avanzata, non
può ricordare tutto di loro. Io, mia madre e mio padre li ho persi
prestissimo e in una maniera brutale. Ma a un certo punto ho capito che
dovevo liberarmi da questa ossessione. E quando me ne sono affrancata,
ho capito e sentito di poter scrivere questo libro. E a proposito:
vorrei aggiungere una cosa su Primo Levi».
Vuol parlare del valore
della testimonianza? Primo Levi era un testimone così credibile perché
era prima di tutto un grande narratore.
«D’accordo. Però era
ossessionato dalla memoria, perché temeva di non essere creduto. E
invece la verità “oggettiva” è materia forense non di letteratura ».
Vuol dire che non le piace Primo Levi?
«Al
contrario. Lo adoro. Se questo è un uomo lo rileggo almeno una volta
l’anno. E ogni volta vorrei avere Levi davanti a me per potergli dire:
“Tu sei un grandissimo scrittore. Ti leggo non per trovare la verità su
Auschwitz, ma perché hai scritto libri bellissimi, perché sei un maestro
nel narrare le emozioni. E non importa se i dettagli corrispondono a
quello che gli avvocati e i giudici considerano la verità”».
Abbiamo parlato dell’assenza. Si possono amare genitori assenti, come lo erano i suoi?
«Sì. Intanto, non erano del tutto assenti, ho dei ricordi di loro. E so che mi hanno amata. Sa cosa è l ‘opposto dell’amore? ».
Lo dica lei.
«Non
è indifferenza. L’opposto dell’amore è una sensazione che si prova
quando si è sperimentato l’amore. Quando penso ai miei zii che mi hanno
cresciuto, so che mi volevano bene. Ma non era l’amore materno.
D’altronde io sapevo cosa fosse l’amore materno perché l’ho provato in
precedenza».
Non è arrabbiata con i suoi genitori?
L’hanno abbandonata per una causa politica.
«Da
bambina lo ero. Ma sapevo anche che il colpevole della loro morte e
quindi del mio abbandono era il Nemico (così la scrittrice chiama i
militari nel romanzo Piccoli combattenti, ndr). Sono sempre stata più
matura della mia età anagrafica. Non ho avuto un’infanzia vera, sentivo
il dovere di badare a mio fratello. Però sapevo che mio padre e mia
madre non si sono suicidati. Mia madre era una poetessa, mio padre un
agronomo, amavano la vita. È il Nemico che cercava la morte. Oggi, sono
grata ai miei genitori, erano persone perbene. Nel mio libro la nonna
dice: “La morte non è importante, importante è la dignità”».
Non le sembra invece che anche la morte eroica è assurda?
«Sono
d’accordo nel rigettare l’idea romantica della morte. Avrei preferito
che Che Guevara fosse vivo. Morendo non si guadagna niente, si diventa
il nulla e le nostre parole servono solo a riempire il vuoto. Ma,
ripeto, i miei genitori sono stati ammazzati, non hanno cercato la
morte».
Lei si identifica con gli insorti del ghetto di Varsavia. Perché?
«Mia
nonna materna era ebrea. Da bambina frequentavo un’associazione ebraica
culturale di sinistra (Ikuf) e partecipavo ai campi estivi. Ogni anno
celebravamo l’anniversario dell’insurrezione. I miei zii comunisti, poi,
mi hanno insegnato che la storia non è solo la storia del tuo paese, ma
di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà ovunque, in
qualsiasi posto. Gli insorti del ghetto sono parte della mia famiglia».
E oggi?
«Il
Nemico è sempre presente. Uccide e occulta i corpi degli assassinati.
Ovunque nel mondo. Guardi l’Europa. I profughi sono considerati non
umani. E, finché il capitalismo governerà il mondo, non cesserà questo
modo di pensare. La logica del capitalismo è egoismo, è ritenere che io
sto bene perché sono migliore di coloro che stanno male e quindi posso
essere indifferente. I peggiori non sono gli assassini, ma coloro che
giustificano i crimini».
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