Claudio Magris
Il rischio della
citazione
Corriere della Sera, 17 dicembre 2015
I Balcani, ha detto Churchill, producono più storia di quanta ne possano digerire. Un bell’inizio per un articolo. Poche cose come una citazione aiutano a cominciare uno scritto o comunque a rafforzarlo. La citazione è una specie di chiave musicale, dà un’intonazione al discorso e conferisce autorità a quanto si scrive e alle tesi che si sostengono. Inoltre è una sintesi che semplifica ed esprime con chiarezza le idee che vengono espresse. È anche rischiosa, perché spesso viene tirata in ballo senza controllarla, risuona nella mente e nella memoria con una sicurezza che esime dallo scrupolo di verificarne l’esattezza; nessuno va a rileggersi Giulio Cesare per accertarsi che egli abbia detto esattamente «veni, vidi, vici». I giornali e ancor più i dibattiti pubblici, con la fretta che impongono all’espressione delle opinioni, accentuano il ricorso alla citazione incisiva. Quando si discute, non si può consultare l’enciclopedia. Sotto questo profilo, la citazione è l’opposto del plagio: si cita senza talora copiare alla lettera, mentre nel plagio si copia senza citare l’autore del testo rubato e anzi attribuendosi la paternità di quest’ultimo.
Ma la citazione si presta all’inconsapevole falsificazione.
La paternità di molte delle più famose fra esse è data per scontata, ma
spesso è falsa. Voltaire non ha mai detto «non condivido quello che
dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo». Questa frase
è certo fedele al pensiero di Voltaire, ma a dirla o meglio a scriverla
è stata Evelyn Beatrice Hall, scrittrice britannica e autrice di una
biografia del filosofo del 1906 intitolata Gli Amici di Voltaire.
Non è stato Goebbels a dire «quando sento la parola cultura tolgo la
sicura alla mia Browning», bensì, in un suo testo teatrale, Hanns Johst,
drammaturgo tedesco nazista. Maria Antonietta non ha mai detto «se non
hanno pane mangino brioche». La frase è sicuramente precedente perché
già nota ai tempi di Jean Jacques Rousseau, epoca in cui l’arciduchessa
austriaca non era ancora nata. L’aneddoto da cui è tratta la frase è
contenuto nel libro VI delle sue Confessioni,
pubblicate peraltro postume. Machiavelli non ha mai detto
esplicitamente «Il fine giustifica i mezzi», parole che certo riflettono
il suo pensiero ma da lui mai proferite.
Gli esempi potrebbero continuare.
A elencarmeli, non senza qualche rimprovero per alcuni miei cedimenti
in questo campo, è Adriano Ausilio, accanito cacciatore di bufale d’ogni
genere e implacabile soprattutto con le attribuzioni inesatte di frasi
celebri. Di formazione giuridica, Ausilio è un appassionato lettore e
studioso di filosofia, in particolare del pensiero di Augusto Del Noce,
il geniale filosofo cattolico di cui ho avuto la fortuna di essere
amico, grande critico dell’ateismo e della società opulenta, avversario
inesorabile e affascinato del marxismo. Perché, gli chiedo, tale
ostinata caccia proprio a questo tipo di errore? «Perché — risponde —
con l’avvento di Internet e dei media sociali si è diffusa una nuova
tendenza. L’uso incontrollato della citazione. Si prendono per buoni
passi o frasi famose solo perché li si è letti da qualche parte o per
sentito dire, senza preoccuparsi di controllare se provengano
effettivamente da una fonte veritiera. La Rete è piena di siti che
contengono sillogi di citazioni storiche e letterarie. Ed è lì che si
annida l’errore, perché le citazioni non provengono più da una
conoscenza diretta dei testi, bensì da raccolte compilatorie non molto
affidabili. Del resto già Hegel diceva che “il noto in genere, proprio
perché noto, non è conosciuto”. A Lei è mai capitato di incorrere in
errori del genere?». Non ricordo, gli dico, crederei di no; ho fatto
altri, per fortuna piccoli ma errori veri e propri e dunque più gravi,
come quando ho citato un verso di Shelley attribuendolo a Tennyson o
quando ho confuso, penso anche causa la grafia del nome, una cittadina
russa con un’altra, dov’erano accaduti rilevanti fatti storici.
Intelligente, generoso e amabile,
Ausilio rischia di contagiare, grazie alla simpatia e al suo modo di
essere e di parlare, il suo interlocutore e di lanciarlo come un
cane da caccia sulle piste degli errori e delle imprecisioni. Non si
rischia tuttavia, gli chiedo, di cadere in una mania della precisione,
in un gusto di cogliere tutti in fallo, sia pure minimale? Anche la
verità può diventare un fanatismo, scadere in un formalismo che perde di
vista la sostanza, dato che quelle citazioni sbagliate non falsificano
il pensiero dell’autore citato bensì ne ribadiscono l’essenziale?
(Voltaire era un campione della tolleranza, la pistola di Johst messa in
mano a Goebbels corrisponde all’atteggiamento nazista verso la
cultura). Inoltre c’è il peso, l’autorità della storia che ha fatto
entrare magari da secoli nella testa delle persone l’identificazione di
una frase famosa con un autore sia pure sbagliato. Naturalmente se si
trattasse di uno sbaglio che adultera un’opera o un autore, ad esempio
una falsa citazione dei Vangeli che attribuisse a Cristo un’espressione
malvagia, sarebbe doveroso smascherarla anche dopo millenni, cosa non
necessaria se la bufala non altera la sostanza. Il peso della storia è
così forte, che si continua ad attribuire una frase a chi non l’ha detta
anche quando il presunto autore lo ha dichiarato lui stesso: la famosa,
grande espressione «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della
volontà», non è di Gramsci, come tutti ripetiamo, bensì di Romain
Rolland ed è stato Gramsci stesso a precisarlo. Ma ormai è entrata nel
mondo come frase di Gramsci e tutti lo ripetono, anche chi sa — grazie a
Gramsci — che è di Rolland...
«Concordo con Lei — replica Ausilio — che
ogni eccesso debba essere evitato. Se, per esempio, dopo una partita a
carte, qualcuno dicesse “l’importante non è vincere ma partecipare” per
consolare i perdenti, mi sembrerebbe inopportuno chiedergli chi ne sia
l’autore per poi correggerlo. Ma, al contrario, riterrei doveroso
intervenire nel caso di un uso strumentale della citazione. Chi non
ricorda la celebre frase “eppur si muove”, attribuita a Galileo Galilei
che volle così rispondere, ci viene detto, alla condanna dei giudici
dell’Inquisizione per le sue scoperte scientifiche? Quella frase mai
pronunciata da Galileo fu inventata, come ormai è risaputo, dallo
scrittore italiano Giuseppe Baretti nel 1757, con lo scopo di creare il
mito di una Chiesa oscurantista e incapace di aprirsi alle nuove
scoperte scientifiche».
Nessun commento:
Posta un commento