venerdì 18 dicembre 2015

Il destino di Lorenzo Perrone



Carissima signorina Bianca, o visto ieri primo sta bene, lavora e forse le scriverà è un po’ dimagrito e attende di rivederla o almeno le tue notizie. Qui ce niente di nuvo molti ringraziamenti da parte sua e tanti saluti. Lo Pe ce sono il suo amico Perrone Lorenzo spero di ricevere un suo scritto addio
  Perrone Lorenzo (lettera del 26 giugno 1944 a Bianca Guidetti Serra)

Simone Lorenzati
Una storia poco conosciuta

 Esiste una storia che non si trova sui libri scolastici. O, quando la si trova, è circoscritta in parentesi più o meno lunghe. Tuttavia è spesso la storia di personaggi apparentemente minori a far sì che quella da manuale possa procedere. Ne è un esempio Lorenzo Perrone, un nome che ai più dirà davvero poco. Muratore fossanese, nato nel comune cuneese nel 1904 e deceduto nello stesso nel 1952. Potrebbe essere la storia di un qualunque anonimo lavoratore edile. Tuttavia la vita porta Perrone ad incrociare sul suo cammino Primo Levi, chimico ebreo e futuro scrittore, deportato ad Auschwitz all’inizio del 1944. Un giorno di quell'estate lo stesso Levi sta lavorando duramente per costruire un muro, quando sente parlare qualcuno in dialetto piemontese. Scopre che si tratta di lavoratori civili italiani mandati a Monowitz dalla ditta Boetti per realizzare lavori di muratura che allarghino l'orrore. Levi riesce ad avvicinare uno di loro, proprio Lorenzo Perrone, e a metterlo al corrente della terribile condizione dei deportati. Da quel momento, e per ben sei mesi, il muratore ruberà del cibo dalla cucina per sfamarlo, gli procurerà una maglia per riscaldarsi e terrà la corrispondenza con la sua famiglia. Tutto questo senza chiedere nulla in cambio, per puro altruismo, anzi rischiando di pagarne terribili conseguenze in prima persona. Tramite Perrone, addirittura, la madre Anna Maria e la sorella Ester, che vivono nascoste, riescono a recapitare a Primo Levi dall’Italia un pacco contenente cioccolato, biscotti, latte in polvere e abiti. 
Questo l'omaggio a Lorenzo Perrone ne I sommersi e i salvati
“Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura (…) per cui tuttavia metteva conto di conservarsi (…). La sua umanità era pura e incontaminata (…). Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”. 
Dopo la fine della guerra, tornato a Torino, Primo Levi prenderà contatto con Perrone andandolo a trovare a Fossano. In seguito provvederà al suo ricovero per curare la tubercolosi che gli sarà fatale e darà il nome Renzo e Lisa Lorenza ai propri figli in suo onore. Lorenzo Perrone il 7 giugno 1988 fu inserito tra i Giusti fra le nazioni (dossier 3712), presso il museo Yad Washem di Gerusalemme.

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Nicola Caracciolo
Gli ebrei e l'Italia durante la guerra 1940-1945
Bonacci Editore, Roma 1986 


N.C.
E lei è stato salvato da un italiano a Auschwitz: ce lo può raccontare?

P.L.
Se sono vivo è per molti motivi, ma il principale è questo, che lavoravo appunto in una fabbrica di prodotti chimici e ho lavorato quasi per un anno e dieci mesi come manovale. Ora per mia fortuna mi hanno mandato un certo giorno d'estate, era nel giugno del '44, a fare il manovale a una squadra di muratori, a tirare su un muro. Ora non era tanto facile fare il manovale, perché bisognava portare su il bugliolo con la calce che è molto pesante, bisognava portarlo su una spalla, e io ho fatto un disastro, cioè ho sparpagliato tutta la calce il primo viaggio che facevo, è il muro era già alto e dovevo portarlo su per la scala, e mi sono accorto con sorpresa e con felicità che i due in cima parlavano italiano fra loro, e si son detti una frase, anzi uno parlava con l'accento piemontese, ha detto a l'altro “Ah's capis, cun gent' parei” -eh, si capisce, con gente come questa cosa vuoi che facciano. E allora gli ho detto “ma tu sei italiano”... e lui m'ha detto “s'capis” “si capisce” era di Fossano.
Bene, quest'uomo che era un uomo molto strano e parlava pochissimo, sembrava muto addirittura, mi ha adottato. Non mi ha detto niente o quasi niente, ma da quel giorno fino a quando ha potuto mi ha portato ogni giorno una gavetta di zuppa, ed era una zuppa strana dentro la quale ho trovato un po', di tutto: una volta un'ala di passerotto con tutte le penne, un'altra volta ho trovato un ritaglio della Stampa cotto, e un'altra volta ancora dei noccioli di prugne.
Insomma evidentemente, l'ho saputo poi dopo, lui faceva una specie di colletta nel suo campo tra gli italiani e raccoglieva tutti gli avanzi e me li portava - si rendeva conto benissimo che era meglio che niente - e questo per me ha fatto da complemento per le calorie che mancavano, perché il vitto del campo era insufficiente non è che fosse nullo, erano circa 1500-1600 calorie che notoriamente non bastano.
Per un uomo che fa un lavoro pesante ce ne vogliono almeno 2400-2600. E lui mi ha portato questa gavetta con suo rischio perché lui sapeva benissimo che rischiava, che era proibito avere contatti extra-lavoro con noi. Ma lui se ne infischiava. Alzava le spalle e dice: “cosa me ne frega”. Io glielo dicevo: “guarda che è pericoloso, ti metto nei guai”. Avevamo combinato che invece di darmi in mano la gavetta la nascondeva in un certo posto e io l'andavo poi a prelevare: c'era una certa precauzione da parte sua.

N.C.
Lei l'ha rivisto poi dopo la guerra?

P.L.
Dopo la guerra l'ho rivisto: lui era arrivato in Italia molto prima di me. Io appena tornato l'ho cercato, l'ho trovato, ho cercato di aiutarlo, gli ho fatto avere quattrini, abiti, ho cercato di sdebitarmi, ma l'ho trovato ridotto malissimo, lui era stato talmente traumatizzato dalle cose che aveva visto là ad Auschwitz, che si era messo a bere. Era un uomo estremamente sensibile anche se non parlava quasi mai, e le cose che aveva visto ad Auschwitz, a Suiss come diceva lui, lo avevano colpito, l'avevano, come dire, ferito profondamente e non voleva più vivere, diceva “in un mondo come questo non val la pena di vivere”. E lui che era muratore, che era un bravo muratore, aveva smesso di fare il muratore, faceva il ferrivecchi, comprava e vendeva ferro, e tutti i quattrini che guadagnava se li beveva: e io che andavo a trovarlo ogni tanto a Fossano gli ho detto “ma perché vivi in questo modo?”, e lui molto freddamente mi diceva... “non val la pena di vivere, io bevo perché preferisco stare ubriaco che sobrio”. Tanto che dormiva, s'ubriacava e dormiva all'aperto - s'è preso una polmonite - io l'ho fatto ricoverare a Savigliano all'ospedale, ma non gli davano il vino, e lui è scappato, e l'han poi trovato moribondo in un canale, dove dormiva ubriaco. Insomma lui che non era un reduce da Auschwitz è morto della malattia dei reduci.

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