Phèdre I, 3 (1677)
Sarah Bernhardt nel ruolo di Fedra (1874) |
Mon mal vient de
plus loin. À peine au fils d'Égée,
Sous les lois de
l'Hymen je m'étais engagée,
Mon repos, mon
bonheur semblait être affermi,
Athènes me montra
mon superbe Ennemi.
Je le vis, je
rougis, je pâlis à sa vue.
Un trouble
s'éleva dans mon âme éperdue.
Mes yeux ne
voyaient plus, je ne pouvais parler,
Je sentis tout
mon corps, et transir et brûler.
Je reconnus Vénus
et ses feux redoutables,
D'un sang qu'elle
poursuit tourments inévitables.
Par des vœux
assidus je crus les détourner,
Je lui bâtis un
Temple, et pris soin de l'orner.
De victimes
moi-même à toute heure entourée,
Je cherchais dans
leurs flancs ma raison égarée.
D'un incurable
amour remèdes impuissants !
En vain sur les
Autels ma main brûlait l'encens,
Quand ma bouche
implorait le nom de la Déesse,
J'adorais
Hippolyte, et le voyant sans cesse,
Même au pied des
Autels que je faisais fumer,
J'offrais tout à
ce Dieu, que je n'osais nommer.
Je l'évitais
partout. Ô comble de misère !
Mes yeux le
retrouvaient dans les traits de son Père.
Contre moi-même
enfin j'osai me révolter.
J'excitai mon
courage à le persécuter.
Pour bannir
l'Ennemi dont j'étais idolâtre,
J'affectai les
chagrins d'une injuste marâtre.
Je pressai son
exil, et mes cris éternels
L'arrachèrent du
sein, et des bras paternels.
Je respirais,
Œnone. Et depuis son absence
Mes jours moins
agités coulaient dans l'innocence.
Soumise à mon
Époux, et cachant mes ennuis,
De son fatal
hymen je cultivais les fruits.
Vaines
précautions ! Cruelle destinée !
Par mon époux
lui-même à Trézène amenée
J'ai revu
l'Ennemi que j'avais éloigné.
Ma blessure trop
vive aussitôt a saigné.
Ce n'est plus une
ardeur dans mes veines cachée,
C'est Vénus toute
entière à sa proie attachée.
J'ai conçu pour
mon crime une juste terreur.
J'ai pris la vie
en haine, et ma flamme en horreur.
Je voulais en
mourant prendre soin de ma gloire,
Et dérober au
jour une flamme si noire.
Je n'ai pu
soutenir tes larmes, tes combats.
Je t'ai tout
avoué, je ne m'en repens pas,
Pourvu que de ma
mort respectant les approches
Tu ne m'affliges
plus par d'injustes reproches,
Et que tes vains
secours cessent de rappeler
Un reste de
chaleur, tout prêt à s'exhaler.
°°°
Ancor più remoto è il mio male. Appena al figlio di Egeoavevo donato la fede sotto la legge di imene:
la mia pace sembrava ormai felice e sicura,
ed ecco Atene mostrarmi il mio superbo nemico.
Lo vidi, mi feci di fiamma, fui tutta pallore al vederlo,
tutto insania divenne l’animo mio smarrito:
mi cadde un velo sugli occhi, non potevo parlare,
sentivo il mio corpo a un tempo rabbrividire e bruciare:
era Venere quella, coi suoi terribili fuochi,
inevitabile pena di un sangue su cui si accanisce.
Cercai di stornarli da me porgendo voti su voti,
eressi un tempio alla dea, e con zelo l’ornai;
e circondata io stessa di vittime, in ogni momento,
cercavo nel loro fianco la mia ragione smarrita.
Tutti vani rimedi di una passione incurabile!
Invano sugli altari facevo bruciare gli incensi:
quando il mio labbro implorando chiamava per nome la dea,
Ippolito solo adoravo; sempre mi era dinanzi,
e, pur prostrata al piede degli altari fumanti,
tutto offrivo a quel dio che non osavo nomare,
cercavo ognora evitarlo. Oh, miserabile sorte!
Trovavo ancora il suo volto nei lineamenti del padre.
Contro me stessa, infine, osai esser ribelle:
volsi a perseguitarlo tutto il mio coraggio.
Per bandire il nemico che ormai idolatravo,
volli ostentare i rancori di un’ingiusta matrigna;
volli a ogni costo il suo esilio, ed i miei eterni lamenti
lo strapparono al seno e alle braccia del padre.
Potevo ormai respirare, Enone. Lungi da lui,
trassi nell’innocenza giorni meno agitati.
Sommessa al mio sposo, e celando il mio segreto tormento,
in me maturavo il frutto di quelle nozze fatali.
Tutte inutili astuzie contro il destino crudele!
Dallo stesso mio sposo ero condotta a Trezene,
e là rivedevo il nemico che avevo distolto da me.
La mia ferita, ancor troppo viva, versò nuovo sangue;
ormai non è più un ardore celato nelle mie vene:
Venere tutta intera si attacca alla sua preda!
Allora il mio delitto mi colmò di spavento;
presi in odio la vita, ebbi in orrore il mio fuoco.
Volevo almeno, morendo, serbare alto il mio nome,
celare alla luce del giorno questa mia nera fiamma:
non ho saputo respingere le tue preghiere e il tuo pianto,
ti ho confessato tutto; ed ora non me ne pento,
solo che tu rispetti la morte che a me si avvicina,
e, senza più turbarmi con questi ingiusti rimproveri,
rinunzi a tentare, con vani soccorsi, di dar nuovo ardore
a un pallido fuoco già presso a dare l’ultimo guizzo.
traduzione di Ugo Dettore
... Racine ha inscritto in Fedra la capitolazione di un essere di fronte ai desideri proibiti dalla sua coscienza con una profondità rimasta ineguale, che fa sì che anche lo spettatore al quale è devoluto l’orrore per il vizio qui dipinto con «colori che ne fanno conoscere e odiare la difformità» non ceda infine alla partecipazione con il carattere di Fedra le cui qualità sono tali da «eccitare compassione e terrore». (Letteratura europea Utet)
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