Roger Caillois è, sul tema della festa, l'autore centrale. La lezione di Durkheim è in lui tutt'altro che rimossa: "La festa, il dilapidare i beni accumulati durante un lungo intermezzo, la sregolatezza divenuta regola, ogni norma capovolta dalla presenza contagiosa delle maschere fanno della vertigine collettiva il punto culminante e aggregante dell'esistenza pubblica". Ma poi continua: "Essa appare come il fondamento ultimo di una società per il resto poco consistente. Rafforza una coesione fragile che, squallida e di modesta portata, sussisterebbe con una qualche difficoltà se non ci fosse questa esplosione periodica che avvicina, riunisce e fa comunicare fra loro individui assorbiti, per il resto del tempo, dalle preoccupazioni domestiche e da cure esclusivamente private" (v. Caillois, 1967²; tr. it., p. 106). L''eccesso' rinnova, sostiene Caillois, che rievoca il modello delle società arcaiche, la cui forza di coesione sociale nella presente società è andata smarrita. (Paolo Apolito, Treccani.it)
Donatella Di Cesare
dialogo con Vinicio Capossela, Il Corriere La Lettura 23 agosto 2015
Festeggiare è un’arte. Se nell’antichità la festa era ben nota, nel nostro mondo appare sempre più lontana e irraggiungibile. Non è difficile intuire perché. La festa è il tempo della liberazione a cui tutti sono chiamati — nessuno escluso. Di più: la festa è comunità, anzi, è la rappresentazione della comunità nella sua forma più completa e elevata. Solo quando la comunità si riunisce, quando si raccoglie, la festa può essere celebrata. Perciò la festa è un’opera d’arte che è comune e che accomuna. È come quando si danza in un cerchio prendendosi per mano. Così la comunità si ricostituisce festeggiando. Supera l’isolamento, l’estraneità, le divisioni prodotte dal lavoro, i conflitti della quotidianità. Ecco perché la festa è sospensione del lavoro, ingresso di un tempo altro. Vale, però, anche l’inverso: dove non c’è festa, dove non si sa più festeggiare, non può costituirsi neppure una comunità. Il nostro disincanto ci fa provare una intensa, acuta nostalgia per la festa, per la comunità, per un tempo in cui intrattenerci. Ma forse è possibile un nuovo incantamento…
... La festa per me non è l’ebbrezza dei riti dionisiaci o dei saturnali romani. Piuttosto è la sospensione sabbatica, l’inoperosità, uno stato di eccezione. Non si contrappone ai giorni lavorativi, ne costituisce il compimento. Karl Kerényi, un grande storico delle religioni e dei miti, ha parlato della perdita della festa, che caratterizza la modernità, e l’ha paragonata alla condizione di chi danza senza ascoltare più la musica. Si continua a danzare nel frastuono, coprendo anche la perdita della musica. Festa e musica richiedono cadenza armonica, procedono con ritmo comune, dischiudono un altro tempo, il tempo dell’altro.
... Non c’è festa senza ricordo. Senza un passato che torna, nella musica, ma anche nei gesti, nelle parole, nella celebrazione della festa. Ecco perché festeggiare vuol dire anche saper celebrare e commemorare. La comunità si estende a quelli che non ci sono più, ai «molti» che ci hanno tramandato note e sillabe per la festa del nostro presente.
... Non sorprende che per alcuni filosofi sia la festa a fondare la storia — non viceversa. Perché è l’incontro fra generazioni in cui rinasce e si rinsalda la comunità. Irrompe un tempo altro, in cui il più remoto passato viene ripreso per guardare al futuro. Perciò la festa ha un tratto utopico. È un assaggio dell’avvenire.
... La festa è l’interruzione del presente, che domina incontrastato le nostre vite. È tempo pieno, tempo celebrato nella inoperosità festiva che invita a trattenersi, a indugiare, a partecipare. La festa è condivisione in cui non si resta spettatori, ma si viene coinvolti e innalzati a una nuova verticalità.
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