Caro Sergio,
non sono di gomma. Linguaggio e asprezza del giudizio lasciano il segno. Per parte mia fatico nell’accordarmi a toni che non siano di rispetto e conservo l’affetto per un’amicizia da non bruciare malgrado tutto. Se l’occasione serve a chiarire degli snodi è giusto farlo, ciascuno per come sa e come vuole. Sul passato. È vero, ho detto per tempo che la realtà di adesso è anche figlia degli errori di prima. L’ho affermato – un paio di volte c’eri pure tu – e l’ho fatto con qualche costo sul piano umano che per me conta. Ma era serio non rimuovere perché non pianti nulla nel futuro se non sei altro dal passato.
Con la stessa sincerità trovo sbagliato datare la nascita del mondo a stamane e sbianchettare la storia. Hai citato Gramsci. Ecco, lui il legame che motiva il flusso delle generazioni lo ha spiegato in modo mirabile. Sull’oggi. Non ho da difendere nulla perché non è indietro che voglio tornare. Fino dal giorno dopo la vittoria di Renzi non ci siamo tirati fuori. Ricordo la scelta fatta allora, stare nel nuovo con un punto di vista e la coerenza di una sinistra anch’essa da ripensare. Non bastava contentarsi del già visto e neanche salvarsi la coscienza con una casacca di corrente o qualche incarico. Da lì anche la scelta di vincolare il temine Sinistra a un campo aperto e tutto da arare. Lo abbiamo fatto quando quella parola – sinistra – a molti pareva polverosa e in diversi amici e compagni prendevano altre strade.
Oggi mi pare che anche quella liquidazione appaia meno scontata. Si torna a cercare, forse anche sospinti dal dramma dell’Europa. Ma al netto di questo sono io a dirti che una svolta serve e che in questi mesi non siamo riusciti a fare ciò che sarebbe stato necessario. Penso però che i nostri limiti non siano quelli indicati da te. Credo non sia stato un errore dire la nostra quando si battezzavano come riforme scelte che in altri tempi e fatte dai nostri avversari avremmo definito strappi irricevibili. O affermare che la legge elettorale non si vota ponendo la fiducia. Il limite invece è non essere riusciti a raccontare e far vivere un’altra idea di democrazia, economia, diritti. Quella che dovrebbe orientare la bussola di una sinistra in Europa e oltre i suoi confini. Il limite è stato lasciare l’impressione di una sinistra del Pd intristita e aggrovigliata in rivalse o rimpianti. Ma questo, forse lo sai, non è il sentimento mio e di tanti. Ed è la ragione per cui, oltre al dispiacere, l’uscita di persone care mi preoccupa. È perché quegli abbandoni non mi paiono, come sembra a te, riflessi di egoismi antichi. La via dell’uscita di quelle biografie per me è un segno che riguarda il Pd tutto.
Sai il punto qual è? Che la combinazione tra alcune scelte di una maggioranza a volte senza pudori e le nostre difficoltà ha finito con il ridurre la fiducia di tanti. Quelli che non ci hanno votato più. O che non si sono più iscritti. O che senza poterlo dire dalle colonne di un giornale o al microfono di una tv semplicemente si son fatti di lato, magari dopo una vita spesa a stare dalla parte giusta. E però vedi Sergio, fa differenza poter difendere le proprie ragioni col potere della maggioranza, del governo, del partito, o farlo con la voce di chi, come nel mio caso, sceglie comunque di non brandire mai l’ascia di guerra e toni incendiari. Fosse solo per questo io non potrei mai paragonare le tue critiche a Berlusconi a quelle che farei o non farei a Renzi. Per il fatto banale che non ho mai paragonato Berlusconi a Renzi. E per il fatto ancora più sensato che non ho contestato al leader del Pd il ruolo che ricopre. Conteso sì, ci ho provato. Contestato no. E dunque il mio problema non è far cadere il governo che sostengo. Il mio problema è quale Paese abbiamo in mente. E la domanda riguarda le ragioni di un partito e la sua natura. Ciò che sei, chi vuoi rappresentare e come provi a spendere la tua forza e il consenso che aggreghi. Renzi ha vinto il congresso? Di più, lo ha stravinto. Su quella base lui guida l’Italia e il Pd. Potrei dire che non ha vinto le primarie anticipando che sotterrava l’articolo 18, anzi diceva l’opposto, e neppure che cambiava la scuola nel modo che una maggioranza contrasta. Su questo mi inviti a stare tra la gente. Per quanto posso capire a contestare quella riforma non sono vecchie corporazioni ma seicentomila docenti che aderiscono a uno sciopero. Merita ascoltare anche loro? Ma ti dicevo che il mio problema è cosa lasceremo in dote. E su questo la vedo così.
La strategia del Pd per guidare l’Italia fuori dalla crisi peggiore della sua storia non è chiaro quale sia. A meno di pensare che tutto sta a scrollarsi di dosso i panni del disfattismo. La realtà è che a noi questa crisi ha fatto così male perché è entrata come lama nel burro di guai più antichi. Se è così non torneremo quelli di prima per cui qualcosa di diverso è bene immaginare oltre l’emergenza. In questi mesi cose buone il governo ha fatto e altre ne annuncia, ma lo stesso premier sostiene che non basta. E allora non è assurdo se da sinistra si chiede di avere più radicalità e coraggio scegliendo di portare in cima alla lista un pacchetto di misure sulla cittadinanza, una forma di reddito minimo e contrasto universale alla povertà a cominciare da quella minorile, una legge non bislacca sulle unioni civili, una nuova strategia per il Mezzogiorno, a meno di pensare che i ricercatori dello Svimez siano assoldati al nemico. E fare dei diritti indivisibili – umani civili sociali – la leva formidabile di una nuova pagina dello sviluppo e del Paese. Ora, l’idea di un’Italia e un’Europa diversa fa di solito pendant con la missione del Pd. La traduzione è un programma di governo ma senza la retorica dell’esserci già riusciti. Perché la sfida è nella capacità di prendere quel programma e dargli una strategia. Calarlo in un patto sociale e alleanze buone a farlo vincere nelle urne. Allora, in breve, dove andiamo adesso? E come ci si va? Da soli o con chi? Ecco perché il mio cruccio non è Matteo Renzi. Il problema è dove siamo diretti e in nome di che. Spiegarlo conta perché se la risposta è condivisa anche le differenze tra noi non saranno traumi. È quando si tira in direzioni opposte che la comitiva può spezzarsi. E io temo che senza un ascolto vero, senza stima reciproca, con campagne dal sapore denigratorio che sono più facili da supportare per chi di più potere dispone, ci si possa trovare distanti o separati senza neppure dirselo. Ma a quel punto qualcuno potrà dire d’aver vinto? Anche per questo sono per tenere il ponte levatoio abbassato e cercare quel pizzico di verità che c’è in ognuno di noi, anche in chi oggi è fuori da noi. Lo dico per un’ultima ragione. Perché più o meno dappertutto i confini, quelli classici, tra destra e sinistra paiono incrinarsi con parlamenti colonizzati da vincoli stabiliti altrove e una sovranità monca. Le grandi crisi producono anche questo. Sconquasso di regole, istituti, categorie. Qualcuno l’ha chiamata post-democrazia e basterebbe questo a indurre la sinistra, tradizionale e non, a porsi il tema di cosa significa governare oggi, con quali strumenti e leve effettive a partire dall’Europa. La stessa riforma costituzionale si può leggere sotto questa lente. Non sarà una deriva autoritaria ma un enorme pasticcio sì. Tanto più nel combinato con la nuova legge elettorale (e forse col senno del dopo non eravamo provocatori nel chiedere la possibilità – possibilità, mica l’obbligo – di apparentamento al secondo turno). Con un Senato né carne né pesce e con uno squilibrio di poteri che è puro buon senso sanare. Come altri voglio la riforma e la voglio nel segno della fine del bicameralismo. Che altra prova dovremmo dare dopo che alla Camera non abbiamo votato l’articolo 2 ma in quell’Aula mutilata abbiamo comunque garantito a notte fonda il numero legale? Chiedo: si possono rimettere in ordine le cose? E non per l’interesse di una parte, ma nel nome di una idea dello Stato e della nostra democrazia. Al fondo la responsabilità di replicare al timore di una minoranza numerica nel Paese e che pure potrebbe impadronirsi di un potere smisurato senza i contrappesi e le garanzie che esistono ovunque riguarda tutti. Non parliamo di una legge a capocchia ma della Costituzione, della Bibbia laica della Repubblica. E allora facciamo un accordo serio su questo e marciamo spediti. Poi certo, resta il nodo: cosa vuol dire governare la complessità e come si fa.
Qui da noi l’ultimo esecutivo scelto da un voto risale al 2011. Da lì tre premier si sono succeduti. Tutto regolare ma anche tutto fuori norma. Conseguenza? Che le larghe intese, o comunque alleanze di impianto moderato, per alcuni non sono più emergenza ma strategia. Il ragionamento scorre, ma temo contro una parete. Dice più o meno che se a destra prevale la rissosità della Lega e a sinistra una forza radicale, cosa meglio di un Partito della Nazione, centrale e centrista, ha diritto a guidare l’Italia senza precipitarla nel caos? Non per polemica, ma se direzione e carovana fossero queste parecchi non sceglierebbero di partire e se ne sentirebbe la mancanza. L’alternativa? C’è. È ricostruire il campo largo di un centrosinistra civico, dove il Pd non basta a se stesso e che per questo diventa perno di una coalizione con altri. Come per una fase fece l’Ulivo. Come dovremmo fare per indicare una nuova alleanza ideale, sociale, culturale. Dovremmo anche aggiungere che non siamo perfetti. Che questo partito ha bisogno di una vera e propria rigenerazione. Anche qui nessun rimpianto, ma io non mi rassegno a una forza fondata sulla somma di mille comitati elettorali, a potentati che sviliscono la passione, a una selezione di classi dirigenti agganciata alla vogue. Temi non risolti da anni, lo so. Ma non per questo da subire. Allora si dovrebbe lavorare assieme. Costruire quel centrosinistra unitario che vince a partire dalle prossime amministrative. Ecco, un discorso così è premessa per recuperare la fiducia di tanti. Per dire al tempo giusto ciò che siamo, ciò che vogliamo.
Infine su questo giornale. Quando mi è stato fatto cenno all’ipotesi di dirigerlo per prima cosa ho ringraziato. Non solo perché ritengo giusto farlo ogni volta che ti viene offerta una chance. Ma per una ragione diversa. Perché se un sogno ho coltivato nella mia esperienza di uomo di partito era, un giorno, di poter dirigere un giornale. Oddio, non un giornale. Questo giornale. E allora se con discrezione e senza polemica ho declinato l’invito è stato anche per non spezzare il filo. In Parlamento stavo esprimendo il mio dissenso su temi che il giornale e il premier hanno messo al centro della loro campagna. Accettando avrei aggiunto benzina all’incendio, anche perché non avrei rinunciato, come chiunque altro, a una mia idea del giornale e della sua autonomia. Che mi si creda o no rinunciare mi è costato. Poi quando ho letto su queste colonne la candidatura di Ferruccio De Bortoli alla Rai descritta come una provocazione, mi sono convinto che non avendo accettato il mio contributo a non spezzare quel filo lo avevo dato perché mai avrei potuto sottoscrivere quelle parole. Mi fermo qui. Certo, se a tutto questo tu rispondi che distruggo la sinistra, che sto sulle palle al mondo e sono un parassita narciso e presuntuoso io non credo di avere le parole per replicare. Spero solo tu non sia proprio nel giusto. Comunque ho fatto come mi hai detto di fare e ieri sono salito su un autobus a Trieste, mi sono piazzato al centro e ho testato l’umore urlando “questa Sinistra Dem ci sta veramente scassando….”. Sarà la tradizione della Mitteleuropa ma la sola reazione è stata di una signora anziana che mi ha detto “giovinoto, fa sai caldo, no la xe senti ben?”. Allora ho cambiato test e sulla linea di ritorno, sempre piazzato al centro, ho urlato “Il Pd sta cambiando l’Italia come nessuno mai. Morte ai gufi”. Tu non ci crederai ma si è girato l’autista e mi ha detto, “Staino, ma va in mona”. Però ti voglio bene lo stesso.
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