Italo Calvino, La gran bonaccia delle Antille, Città aperta, n. 4-5, 25 luglio 1957
Dovevate sentire mio zio Donald, che aveva navigato con l’ammiraglio Drake, quando attaccava a narrare una delle sue avventure.
– Zio Donald, zio Donald! – gli gridavamo nelle orecchie, quando
vedevamo il guizzo di uno sguardo affacciarsi tra le sue palpebre
perennemente socchiuse, – raccontateci come andò quella volta della gran
bonaccia dellAntille!
– Eh? Ah, bonaccia, sì, sì, la gran bonaccia… – cominciava lui, con
voce fioca. – Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di
lumaca, sul mare liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per
acchiappare qualche raro filo di vento. Ed ecco che ci troviamo a tiro
di cannone da un galeone spagnolo. Il galeona sta va fermo, noi ci
fermiamo pure, e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prendiamo a
fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro. Ma
loro, a dire il vero, non avevano nessuna intenzione di andare avanti:
erano lì apposta per non lasciar passare noi. Noialtri invece, flotta di
Drake, avevamo fatto tanta strada non per altro che per non dar tregua
alla flotta spagnola e togliere da quelle mani di papisti il tesoro
della Grande Armada e consegnarlo in quelle di Sua Graziosa Maestà
Britannica la Regina Elisabetta. Però ora, di fronte ai cannoni di quel
galeone, con le nostre poche colubrine non potevamo reggere e così ci
guardavamo bene dal far partire un colpo. Eh, sì, ragazzi, tali erano i
rapporti di forza, voi capite. Quei dannati del galeone avevanoprovviste
d’acqua, frutta delle Antille, rifornimenti facili dai loro porti,
potevano stare lì quanto volevano: anche loro però si trattenevano dallo
sparare, perché per gli ammiragli di Sua Maestà Cattolica quella
guerricciuola con gli Inglesi così come stava andando era proprio quel
che ci voleva, e se le cose si mettevano diversamente, per una battaglia
navale vinta o persa, tutto l’equilibrio andava all’aria, certo ci
sarebbero stati dei cambiamenti, e loro di cambiamenti non ne volevano.
Così passavano i giorni, la bonaccia continuava, noi continuavamo a star
di qua e loro di là, immobili a largo delle Antille…
– E come andò a finire? Diteci, zio Donald! – facemmo noi, vedendo
che il vecchio lupo di mare già piegava il mento sul petto e riprendeva a
sonnecchiare.
“Ah? Sì, sì, la gran bonaccia! Settimane durò. Li vedevamo coi
cannocchiali, quei rammolliti di papisti, quei marinai da burla, sotto
gli ombrellini con le frange, il fazzoletto tra il cranio e la parrucca
per detergere il sudore, che mangiavano gelati di ananasso. E noi che
eravamo i più valenti marinai di tutti gli oceani, noi che avevamo per
destino di conquistare alla Cristianità tutte le terre che vivevano
nell’errore, noi ce ne dovevamo star lì con le mani in mano, pescando
alla lenza dalle murate, masticando tabacco. Da mesi eravamo in rotta
sull’Atlantico, le nostre scorte erano ridotte all’estremo e avariate,
ogni giorno lo scorbuto si portava via qualcuno, che piombava in mare in
un sacco mentre il nostromo borbottava in fretta due versetti della
Bibbia. Di là, sul galeone, i nemici spiavano col cannocchiale ogni
sacco che sprofondava in mare, e facevano segni con le dita come
affaccendati a contare le nostre perdite. Noi inveivamo contro di loro:
ce ne voleva prima di darci tutti morti, noialtri che eravamo passati
attraverso tanti uragani, altro che quella bonaccia delle Antille…
– Ma una via d’ uscita come la trovaste, zio Donald?”
– Cosa dite? Via d’ uscita? Mah, ce lo domandavamo di continuo per
tutti quei mesi che durò la bonaccia… Molti dei nostri, specie tra i più
vecchie i più tatuati, dicevano che noi eravamo sempre stati una nave
da corsa, buona per azioni rapide, e ricordavano i tempi in cui le
nostre colubrine sguarnivano delle alberature le più potenti navi
spagnole, aprivano falle nelle murate, giostravano con brusche virate…
Ma sì, nella marineria di corsa, certo eravamo stati bravi, ma allora
c’era il vento, si andava svelto… Adesso, in quella gran bonaccia,
questi discorsi di sparatorie e d’abbordaggi erano solo un modo di
trastullarci aspettando chissacché; una levata di libeccio, un
fortunale, addirittura un tifone… Perciò gli ordini erano che non
dovessimo neanche pensarci, e il capitano ci aveva spiegato che la vera
battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti,
ristudiando i piani delle grandi battaglie navali di Sua Maestà
Britannica e il regolamento del maneggio delle vele e il manuale del
perfetto timoniere, e le istruzioni per l’uso delle colubrine, perché le
regole della flotta dell’ammiragio Drake restavano in tutto e per tutto
le regole della flotta dell’ammiragio Drake: se si cominciava a
cambiarenon si sapeva dove…
– E poi, zio Donald? Ehi zio Donald! Come riusciste a muovervi?
– Uhm… Uhm… Cosa vi dicevo? Ah sì, guai se non si teneva la più
rigida disciplina e obbedienza alle regole nautiche. Su altre navi della
flotta di Drake c’erano stati cambiamenti ufficiali e anche
ammutinamenti, sommosse: si voleva ormai un altro modo di andar per i
mari, c’erano semplici uomini della ciurma, marinai di quarto e pure
mozziche ormai s’erano fatti esperti e avevano da dir la loro sulla
navigazione… Questo i più degli ufficiali e quartiermastri ritenevano il
pericolo più grave, perciò guai se sentivano in aria discorsi di chi
voleva ristudiare da capo il regolamento navale di Sua Maestà
Elisabetta. Niente, dovevamo continuare a ripulire le spingarde, lavare
il ponte, assicurarci del funzionamento delle vele, che pendevano flosce
nell’aria senza vento, e nelle ore libere delle lunghe giornate lo
svago ritenuto più sano erano i soliti tatuaggi sul petto e sulle
braccia, che inneggiavano alla nostra flotta dominatrice dei mari. E nei
discorsi si finiva per chiudere un occhio su quelli che non riponevano
altra speranza che in un aiuto del cielo, come un uragano che magari ci
avrebbe mandato a picco tutti, amici e nemici, piuttosto che quelli che
volevano trovare un modo per muovere la nave nella condizione presente…
Capitò che un gabbiere, certo Slim John, non so se il sole in testa gli
avesse fatto male o che cos’altro, cominciò a trastullarsi con
unacaffettiera. Se il vapore solleva il coperchio della caffettiera, –
diceva questo Slim John, – allora anche la nostra nave, se fosse fatta
come una caffettiera potrebbe andare senza vele… Era un discorso un po’
sconnesso, bisogna dire, ma forse, studiandoci ancora sopra, se ne
poteva cavare qualche costrutto. Macché: gli buttarono in mare la
caffettiera e poco mancò che ci buttassero anche lui. Queste storie di
caffettiere, presero a dire, erano poco meno che idee da papisti… è in
Spagna che si costuma il caffè ele caffettiere, non danoi… Mah, io non
ne capivo nulla, ma purché si muovessero, con quello scorbuto che
continuava a falciar gente…
– E allora, zio Donald, – esclamammo noi, gli occhi lucidi
d’impazienza, prendendolo per i polsi e scuotendolo, – sappiamo che vi
salvaste, che sgominaste il galeone spagnolo, ma spiegateci come
avvenne, zio Donald!
-Ah sì, anche là nel galeone, mica che fossero tutti della stessa
idea, manco per sogno! Lo si vedeva, osservandoli col cannocchiale,anche
lì c’erano quelli che volevano muoversi, gli uni contro di noi a
cannonate, altri che avevano capito che non c’era altra via che
affiancarsi a noi, perché il prevalere della flotta d’Elisabetta avrebbe
fatto rifiorire i traffici da tempo languenti… Ma anche lì, gli
ufficiali dell’ammiragliato spagnolo non volevano che si muovesse nulla,
per carità! Su quel punto i capi della nostra nave e quelli della nave
nemica, pur odiandosi a morte, andavano proprio d’accordo.
Cosicché, la bonaccia non accennando a finire, si prese a lanciare
dei messaggi, con le bandierine da una nave all’ altra come si volesse
aprire un dialogo. Ma non si andava più in là d’un Buon giorno! Buona
sera! Neh, che fa bel tempo! e così via.
– Zio Donald! Zio Donald! Non riaddormentatevi, per carità! Diteci, come riuscì a muoversi la nave di Drake!
– Ehi, ehi, non sono mica sordo! Capitemi, fu una bonaccia che
nessuno s’aspettava durasse tanto, addirittura per degli anni, là al
largo delle Antille, e con un’afa, un cielo pesante, basso, che pareva
fosse lì lì per scoppiare in un uragano. Noi stillavamo sudore, tutti
nudi, arrampicati su per le sartie, cercando un po’ d’ombra sotto le
vele avvoltolate. Tutto era così immobile, che anche quelli di noi che
erano più impazienti di cambiamenti e di novità, stavano immobili anche
loro, uno in cima all’albero di parrocchetto, un altro sulla randa di
maestra, un altro ancora cavalcioni del pennone, appollaiati lassù a
sfogliare atlanti o carte nautiche…
– E allora, zio Donald! – ci buttammo in ginocchio ai suoi piedi,
lo supplicavamo a mani giunte, lo scuotevamo per le spalle, urlando.
– Diteci come andò a finire, in nome del cielo! Non possiamo più aspettare! Continuate il vostro racconto, zio Donald!