Marco Revelli, La vertigine della guerra e il fascino del gioco crudele, Volere la luna, 6 aprile 2022
“Va chiamata ‘vertigine’ ogni attrazione il cui primo effetto
sorprenda e disorienti l’istinto di conservazione”. Così scriveva Roger
Caillois in un testo dell’esilio sudamericano, pubblicato nel 1943 ma
risalente agli anni immediatamente precedenti, quando la catastrofe
della guerra mondiale si avvicinava ed esplodeva. In questo caso,
spiegava, “l’essere è trascinato alla rovina e come persuaso dalla
visione del proprio annientamento a non resistere alla potente
fascinazione che lo seduce terrorizzandolo”. Per l’insetto, aggiungeva,
“è lo sfolgorare della fiamma, per l’uccello sono gli occhi fissi del
serpente”. Per l’uomo è l’attrazione irresistibile del vuoto. In particolare di quel vuoto estremo che è la guerra:
il vortice della distruzione in cui ogni volontà individuale è travolta
di fronte al dominio assoluto dell’elementare, e privata del potere,
costitutivo dell’esistenza, “di dire di no”.
Ho ripensato a queste parole nelle settimane scorse, in cui la guerra
ha invaso, senza trovare resistenza, le nostre vite e le nostre menti,
trascinandoci tutti, società e individui, nel suo vortice, con le sue
categorie totalizzanti e totalitarie che non lasciano spazio al pensiero
complesso, soprattutto che assolutizzano la sola risorsa delle armi (lo
strumento per eccellenza concepito per “fare il vuoto”). E infatti
Caillois, dopo aver passato rapidamente in rassegna i vari tipi di
vertigine che mettono in scena “l’estrema abdicazione dell’uomo” di
fronte alle “tentazioni che lo spingono alla rovina” – la figura delle femme fatale [sic],
l’ebbrezza patologica del gioco d’azzardo… – si sofferma appunto sulla
“vertigine della guerra”, la più potente di tutte nel suo trasformare
agli occhi dell’uomo la propria resa all’attrazione dell’abisso in
“dovere, grandezza, ebbrezza”. La distruzione, e l’autodistruzione, come
destino, a cui è dolce abbandonarsi, cessando di tentare di nuotare
contro una corrente che appare l’ineluttabile corso del mondo.
E’ così che nel discorso pubblico e nel racconto prevalente che gli
fa da involucro, persino la solidarietà o è armata o non è. E chi prova a
immaginare forme alternative di sostegno alle vittime ucraine
dell’aggressione diventa, automaticamente, fautore della resa, amico del
macellaio, bellicista dalla parte sbagliata. Come se nella vertigine
della guerra non ci fosse nessuna alternativa credibile alle armi, né
diplomazia, né mobilitazione radicale dell’opinione pubblica, né
tantomeno quelle tecniche della non-violenza, ormai sperimentate e
dimostrate spesso più efficaci, in condizioni di scontro asimmetrico,
della nuda resistenza armata. In questa condizione l’immaginazione
scende al grado zero mentre l’adrenalina sale vertiginosamente
(appunto), cancellando ogni articolazione del ragionamento perché, nella
regressione al livello elementare dell’essere, contano solo le
alternative istintuali: combattimento o fuga, uccidere o essere uccisi,
dominare o essere dominati, vincere o morire… E mentre la parola Pace
sembra sempre più una bestemmia nel fragore delle armi, sollevando
sguardi di compatimento o accigliati rimbrotti per “anime belle” (se ne
potrà parlare solo “dopo che le armi avranno definito il reale rapporto
tra le forze in campo”), persino il più autorevole tra gli opinion leader
globali, Papa Francesco, viene oscurato, inserito d’ufficio nella lista
degli inaffidabili, ignorato nei testosteronici salotti dei talk show
televisivi. Eppure non sta affatto riproponendo l’evangelico “porgere
l’altra guancia” (come superficialmente i suoi critici affermano con
espressione di superiore sufficienza: mi è capitato di sentirlo dire
esattamente così, in una trasmissione cui ho partecipato) ma parla
pragmaticamente il linguaggio di una politica al livello dei tempi
invitando a pensare un modo diverso di governo del mondo, che non ne
avvicini la fine (testualmente: “La vera risposta alla guerra non sono
altri armamenti, sanzioni, alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti”.
D’altra parte a tal punto le feroci leggi della guerra penetrano nel
nostro universo di senso (o meglio di non-senso), che persino il dolente
popolo dei profughi e dei rifugiati ne viene sezionato, con la
distinzione atroce tra profughi buoni e profughi cattivi, rifugiati veri
e rifugiati falsi – ascoltare per credere -, dove il discrimine tra gli
uni (i salvati) e gli altri (i sommersi) passa per le forche caudine
della schmittiana coppia “amico/nemico”, e gli amici sono quelli che
combattono (sul terreno, e “da europei”!) la nostra stessa battaglia
(virtuale) e cattivi tutti gli altri, non importa che provengano
dall’inferno di Aleppo (non diverso da quello di Mariupol), o dallo
Yemen bombardato con le bombe prodotte e vendute da noi, o dal Kurdistan
usato e abbandonato… Una spaccatura sulla pelle degli ultimi ben
visibile sui confini polacchi, polarizzati tra la gara di accoglienza
sul lato a sud est, dove transitano gli amici, e il filo spinato e la
tortura su quello a nord est, dove è respinto nei boschi e nel gelo il
popolo dolente della “rotta balcanica” (gli “altri”) e dove le lanterne
verdi continuano a essere considerate dalle autorità polacche un reato.
Sul
tema della vertigine Caillois sarebbe tornato una quindicina di anni
più tardi, nel 1958, in un celebre libro dedicato in primo luogo al
gioco (titolo Les jeux et les hommes, sottotitolo La masque et le vertige).
Quello del gioco, vi si affermava, è una sorta di “spazio magico”, per
certi versi analogo a quello del “sacro” – in particolare del “sacro di
trasgressione” – nel quale le consolidate regole che strutturano la vita
quotidiana vengono sospese ed è possibile tentare di “distruggere per
un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza,
lucida, una sorta di voluttuoso panico”. Come commenterà nell’Introduzione Pier Aldo Rovatti, per il giocatore, soprattutto per quel tipo estremo che è il giocatore d’azzardo, “entrare nel gioco, in-ludere,
non significa solo entrare in una dimensione illusoria, già di per sé
instabile, ma anche esporsi al rischio e infine partecipare di quello
stato ‘incandescente’” ben noto a chi si è seduto al tavolo verde di una
bisca. E a maggior ragione a chi si è abbandonato al vortice della
guerra, ovvero, ancora una volta, alla sua “vertigine” – che in questo
contesto Caillois richiama nella sua radice greca, ilinx, che
letteralmente significa “gorgo” – la quale, appunto, “si accompagna
spesso con il gusto normalmente represso del disordine e della
distruzione che tradisce forme rozze e brutali di affermazione della
personalità”.
Letta in questa accezione, la guerra – forma estrema di gioco feroce –
costituirebbe lo spazio per eccellenza dell’anti-quotidianità: la sfera
dei comportamenti umani in cui i fondamenti stessi della società
costituita vengono sospesi (gli individui ne vengono “liberati”), a
cominciare dal comandamento primo “non uccidere”. E come nel “tempo
festivo” o nel Carnevale (Franco Cardini ha scritto un libro essenziale
sulla guerra come Antica festa crudele), la trasgressione
diventa la regola (è, appunto, un “mondo alla rovescia”), e tutto appare
possibile sotto il dominio di una irresistibile “necessità”. Come nel
gioco, tanto più “eccitante” quanto più pericoloso, anche in guerra la
vita sembra acquistare un di più di intensità e di “autenticità” (resa
possibile dalla a-normalità delle condizioni e delle regole rispetto a
quelle della “banale” quotidianità).
Basta
rileggersi le cronache della febbricitante atmosfera nelle giornate del
“maggio radioso” del 1915, quando in un tripudio di retorica e di
bandiere ci si precipitò nell’”inutile massacro”. E al misero prezzo di
qualche esibizione in piazza si poteva comprare la possibilità di
distinguersi dagli ignobili “panciafichisti”. O ritornare alla prima
pagina delle celebri Tempeste d’acciaio di Ernst Jünger, dove
si descrive lo spirito con cui il suo battaglione di reclute si
avvicinava a “quella melodia da laminatoio” che era il fronte, per il
proprio battesimo del fuoco: ”…poche settimane d’istruzione militare
avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d’entusiasmo. Cresciuti in
tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l’irresistibile
attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli… Lasciare la
monotonia della vita sedentaria e prender parte a quella grande prova.
Non chiedevamo altro”.
Ecco, credo che potremmo mettere in conto anche questo, per spiegare l’apparente irresistibilità dell’attuale ruere in bellum:
questo bisogno di evasione dalla banalità inerte di un’esistenza
dominata dall’universo delle merci e dal calcolo d’utilità per accedere
facilmente, relativamente a buon mercato, a una sfera mobilitata e
mobilitante di sentimenti forti, solo semplicemente chiamando “alle
armi” e alla solidarietà armata (non importa poi che a usare quelle armi
siano gli altri, nel più perfetto stile dell’”armiamoci e partite”).
Una sorta di riscatto facile rispetto all’insensatezza del proprio
quotidiano, con uno zelo tanto più ostentato (si pensi alle performances di tanti conduttori televisivi e opinion leader) quanto più conformi, e totali, erano state le precedenti adesioni ai dettami della mercificazione.
Un caro amico, Paulo Barone, in un denso messaggio di questi giorni,
ha parlato dell’”esaltazione di chi trova finalmente nel ‘bene’” con cui
schierarsi (la libertà del popolo ucraino, le nostre democrazie
violate) “un motivo assoluto per ‘contrastare’ il vuoto nichilista che
li attanaglia ‘da dentro’”: di “un’ebbrezza bellica che scaccerebbe via
(in realtà attuandola) l’insensatezza di questo stile di vita”. E direi
che meglio non poteva dirlo. C’è, in questa fibrillazione bellica che
pervade pressoché tutto, la sensazione che, lungi dall’essere in
opposizione radicale, idealistica e spiritualmente qualificata, rispetto
al precedente demi-monde affaristico/consumistico vissuto all’insegna
di un materialismo tutt’altro che storico – un soprassalto di
mobilitazione valoriale alternativa all’affarismo mercuriale – essa ne
rappresenti un mimetico prolungamento: una sorta di tentativo di fuga
riconfermante da un presente insoddisfacente ma considerato
intrascendibile se non nel (temporaneo, come appunto per il tempo
festivo e per quello del gioco) oltrepassamento del confine che separa
dal campo “altro” della mobilitazione bellica. La metamorfosi del
vecchio bue in minotauro fa parte, strutturalmente, del carattere
bipolare dell’esperienza bellica, del suo fascino e della sua
contagiosità, con l’opportunità offerta a chi vi partecipa, di vivere la
propria doppiezza – la norma da animale da soma e lo stato d’eccezione
dell’esperienza eroica -, senza doversi più preoccupare della coerenza
tra le diverse parti del sé. Potendo dar convivere il massimo del
conformismo e il massimo della trasgressività. Soprattutto, liberando
finalmente la propria “ombra” senza timore di perdere il proprio posto
nella società ma anzi potendo vivere la propria bipolarità senza remore
né sensi di colpa. Anzi ostentandola come segno di virtù.
In questo mondo che si rovescia preso nella propria vertigine, capita
allora di vedere vecchi post-fascisti tessere l’elogio di quei
partigiani che fino a ieri indicavano come feroci infoibatori e che
oggi, in quanto “armati”, diventano modello da imitare. Antichi seguaci
del fucilatore Almirante mettere in croce l’ANPI colpevole di non
valorizzare abbastanza oggi, col rifiuto dell’invio di armi alla
“resistenza ucraina”, la scelta “armata” di quelli che quel loro
precedente idolo avrebbe bellamente fucilato. E che dire di Francesco
Merlo, che in un articolo sulla “Cosa negazionista che fa il gioco di
Putin”, proclama che “un po’ di sdegno verso l’Anpi bisognerà tirarlo
fuori”, contro questa “associazione in mano a un ceto di impiegati, che
si è allontanata dai partigiani”, colpevole d’imbelle “neneismo” e
dunque “amica di Putin” per non aver aderito senza se e senza ma alla
campagna di riarmo e per aver chiesto, a proposito del massacro di
Bucha, la stessa cosa rivendicata dal Segretario generale dell’ONU,
ovvero una immediata e rapida inchiesta indipendente?
Merlo scrive su un giornale che ha pubblicato regolarmente per sei anni – lo documenta il “Fatto quotidiano”
– un inserto sponsorizzato dal Cremlino, tra il 2010 e il 2016, quando
noi, come l’Anpi e molti antifascisti veri, muovevamo aspre critiche
all’autocrazia putiniana mentre i lettori del quotidiano di cui lui era
editorialista di punta dovevano sorbirsi interessati (e poco
interessanti) reportages sul concorso bandito per trovare un
nome al cane di Putin, o pelosi elogi del Patriarca Kirill (definito
“una delle personalità di maggior rilievo del mondo cristiano” sic),
o ancora commenti entusiastici sull’incontro tra Putin e Renzi a Milano
nell’ottobre del 2014 (a Crimea annessa: ”Renzi ha capito di avere
davanti un interlocutore serio, che porta avanti la sua linea e difende
gli interessi del suo Paese”…). L’inserto s’intitolava Russia oggi (poi cambiato in Russia beyond headlines), era curato da Rossjiskaja Gazeta
e faceva capo al personale amministrativo di Repubblica: a quel “ceto
di impiegati” cioè che Merlo attribuisce all’Anpi. Un’ultima perla, a
conclusione dell’articolo, merita di essere citata, è dove, dopo aver
affermato che “in nessun altro paese d’Europa la disinformazione russa
sta trovando così tanti utili idioti” (sic) si invita Enrico
Letta a far pulizia dei troppi “negazionisti” (di cosa?) che
occuperebbero indebitamente la “casa della sinistra” (come se quella
fosse un immobile privato e Letta il proprietario): “Ha la statura
morale per cacciarli via dalla sinistra come furono cacciati i mercanti
dal tempio”, conclude il Merlo parlante. Ed è come se avesse parlato
Zarathustra.
Ma restiamo ancora un momento sul PD. Il PD di questo secondo Enrico,
così diverso dal primo. Anche il suo percorso è esemplare di quel
rovesciamento in un doppio opposto eppure congruente. Come ha potuto un
partito, erede sia pur lontano di una cultura che della pace aveva fatto
un valore fondante del vivere civile, farsi di colpo “partito della
guerra”? Capofila della politica di riarmo massiccio con i miliardi
sottratti a welfare, sanità e sostegno a famiglie e imprese a favore dei
buoni affari di quanti delle armi e del loro fiorente mercato hanno
fatto il proprio core business. Com’è possibile che sia oggi il
principale serbatoio dei guardiani dell’ortodossia bellica, impegnato
con maggior zelo e acrimonia a smascherare e marginalizzare le voci non
allineate, o anche semplicemente pensose?
Sarà volgare materialismo ma certo la quantità di esponenti del PD
che affollano i vertici delle nostre industrie degli armamenti, a
cominciare da Finmeccanica e dalla successiva Leonardo, sono tanti. A
cominciare da Marco Minniti, che imperversa nei talk show nel
contrastare i pacifisti di turno in nome della difesa della democrazia e
che ricopre la carica di Presidente di MedOr, la Fondazione promossa da
Leonardo. Mentre Luciano Violante – quello della riconciliazione con i
“ragazzi di Salò” – presiede la parallela Fondazione Leonardo. E Nicola
Latorre guida la Fondazione Aid (Agenzia Industriale Difesa). Niente
d’illegale, anzi! Ma un po’ dovrebbe farci pensare…
Quanto a noi, intendo chi vuole resistere a questa progressiva
“caduta nella catastrofe” – “moto che si accelera senza che occorra
intervenire e che non si riesce né si vuole rallentare” [Caillois] e che
riesce persino a utilizzare gli orrori della guerra per favorirne il
prolungamento e l’estensione – non ci resta che proclamare il nostro
pacifismo, come condizione culturale prima che politica per tenere
aperta almeno una piccola porta verso il ritorno alla ragione. Saremo vox clamantis in deserto, ma se quel deserto è lo spirito del tempo attuale, non sarà una testimonianza inutile.
Guido Vitiello, I conflitti e le catastrofi risvegliano ciclicamente il nostro
intorpidimento psichico da bambinoni viziati. Ma poi tutto passa e
torniamo a sonnecchiare, Il Foglio, 12 marzo 2022
... più che una teoria da discutere, la fine della storia mi sembra uno
stato d’animo, un’atmosfera spirituale, una Stimmung. Del resto, nel più
importante libro sul tema, scritto alla fine degli anni Ottanta, Lutz Niethammer
aveva osservato che questa idea dell’esaurimento di ogni orizzonte
storico ebbe i suoi picchi di fortuna in due contesti precisi: nel
secondo Dopoguerra, tra gli intellettuali di destra delusi dal nazismo
in cui avevano riposto le loro speranze (come Arnold Gehlen); e poi
negli anni Settanta, tra gli intellettuali di sinistra che avevano visto
frustrate le loro aspettative rivoluzionarie (come Jean-François
Lyotard). Insomma, un ripiegamento da innamorati delusi, sottilmente
risentiti e interiormente impigriti. Ma per quelli di noi, la
maggioranza, che non hanno mai avuto il batticuore per il Reich
millenario o per la società senza classi, lo stato d’animo post storico è
più che altro il frutto mentale di decenni di pace, di relativa
sicurezza e di relativo benessere. Non è un cinismo ostentato da amanti
disamorati, semmai un intorpidimento psichico da bambinoni viziati.
Vogliamo che la storia continui a sonnecchiare, o che al limite vada a
far baldoria in continenti molto più lontani. E soprattutto, che
Zelensky la smetta di fare tutto quel chiasso: qui c’è gente che dorme.