sabato 30 aprile 2022

Francesca Mannocchi, la guerra vista da vicino

 

 


Aldo Grasso, La guerra seza retorica (e fake news) dei giovani inviati, Corriere della Sera, 24 aprile 2022

Insolitamente elegante, in giacca e cravatta, Diego Bianchi (Zoro) ha condotto da casa la puntata di «Propaganda Live» (La7): «Io non so proprio come andare avanti, è tutto triste e al tempo stesso divertente a modo suo, vorrei dirvi che tra poco vengo là ed è tutta una gag che ci siamo inventati e invece no, sono più o meno al nono, decimo giorno di positività…». Questa conduzione anomala è servita per qualche riflessione.

Da sola, in studio, Francesca Mannocchi ha proposto le sue storie sulla guerra in Ucraina. Sono testimonianze dei pochi cittadini che non hanno abbandonato le proprie case, racconti essenziali, basati sulla sobrietà, sulle cose che contano davvero nei momenti più drammatici. Mannocchi non disegna scenari di guerra, ma raccoglie le parole degli «umili» manzoniani, di gente che cerca di sfuggire alla crudeltà degli invasori. È un modo nuovo e fedele di raccontare la guerra, uno stile forse mutuato dai social media (le Instagram Stories), segnato da un rapporto empatico, personale con l’intervistato.

Mentre riflettevo su queste interviste, avevo sottomano un report internazionale, pubblicato dall’Institute for Strategic Dialogue, che analizza i post pubblicati da Facebook sul massacro di Bucha. Ebbene, i più condivisi sono quelli che mettono in dubbio l’eccidio, non per spirito critico ma per fiducia in alcune fake news già ampiamente smentite. L’aspetto triste è che in Italia, a guidare questa creduloneria, è il profilo social di Toni Capuozzo.

Così mi è venuto da fare un confronto (se è improprio chiedo scusa) fra questi inviati più giovani che vanno sul posto e cercano di raccontare senza retorica, senza eroismi quello che vedono e i vecchi inviati di guerra che frequentano i salotti televisivi e impartiscono lezioni a destra e a manca, come se, senza di loro, la guerra non fosse più guerra. Ah, signora mia…

mercoledì 27 aprile 2022

La seconda fase del conflitto

 

 

Marco Di Giovanni 

LA FASE DELLA GUERRA DI ATTRITO E LA FUNZIONE DEL TEMPO NELLA STRATEGIA DEL CONFLITTO
 
Con il ridispiegamento russo nell’est, sud-est dell’Ucraina si è aperta la seconda fase cui la nuova definizione russa degli obiettivi della “OMS” (Operazione militare speciale) non riesce a dare pienamente forma, nel senso che le linee operative stentano ad assumere una direttrice definita, in uno scenario di operazioni diffuse ma prive ancora di penetrazione e profondità.
Una spinta militare estesa su settori diversi, che in parte cerca di allestire un movimento di respiro strategico costruendo i presupposti di un accerchiamento delle unità ucraine in un est vasto (a est del Dnipro), sondando le aree di maggior fragilità con fuoco diffuso e spinte offensive locali. In parte, ancora, le operazioni tengono accesa la minaccia su altri settori, da Kharkiv alla zona di Kherson che oscilla tra testa di ponte verso Odessa e area di resistenza e tenuta rispetto a tentativi controffensivi Ucraini. A legare il tutto una intensificazione delle azioni di fuoco dal cielo e una continuità del martellamento stand-off in profondità, come attacco crescente alla logistica (del pari crescente e decisiva) dei rifornimenti/forniture ucraine. Ma anche come conferma di una minaccia perenne e intimidatoria sulle città centro-occidentali e le popolazioni, appena liberate dall’incubo dell’occupazione. Già agire in questa direzione con l’intensità delle ultime ore, da parte russa, indica alcune urgenze: un segnale politico a chi rifornisce l’Ucraina, con un riconoscimento implicito del peso che tali apporti possono assumere nel conflitto; la conferma della propria capacità militare di intervento di precisione. Ma tale intensità operativa si deve misurare col tempo e con la capacità di durare di un apparato tecnico-industriale che ha rivelato le proprie pesanti arretratezze. Quanto dureranno le risorse russe di qualità? Il tempo, la durata, regna sovrano come determinante.
Del resto, un’altra “guerra di profondità” emerge sullo sfondo, guerra alla logistica sinonimo di guerra dei tempi lunghi (potenzialmente): gli attacchi / incidenti sul suolo russo, in prossimità dei confini orientali ma anche ben oltre questi, ai centri di attività arretrata e ai magazzini che alimentano l’offensiva. Guerra dell’ombra, verosimilmente, che inaugura uno scenario allargato e, per i russi, potenzialmente da incubo in assenza di una vittoria militare decisa e chiara.
E se le linee di rifornimento russe sono arretrate rispetto alla prima fase, riorientandosi verso il settore orientale e integrandosi al reticolo di depositi e comunicazioni in suolo russo, le crescenti capacità di fuoco ucraine graviteranno inevitabilmente e naturalmente in quella direzione.
Guerra di attrito per ora, che risponde anche all’incompiuto ridispiegamento russo e alla ancora claudicante riorganizzazione di molti reparti dopo l’impatto delle perdite della prima fase, da molti segnali risultate devastanti. Pressione che il nuovo comando centralizzato nel settore pretende continua, col contrappasso di rendere senza soste anche l’usura delle unità russe.
Vedremo se questo comporterà, anche in questa nuova fase, un eccesso di dispersione rispetto a un movimento che vorrebbe essere decisivo ma che tutto ci fa vedere come stenti a decollare. Numeri difficili da consolidare ci parlano comunque di un dispiegamento nella più ristretta area sud est di una novantina di nuclei tattici di combattimento. Troppo pochi ancora anche se sostenuti dalla concentrazione dell’azione delle masse di fuoco.
E il resto (ma quanti battaglioni efficienti visto che un terzo degli iniziali 180 sono stati considerati a inizio aprile sostanzialmente declassai o ormai inconsistenti in termini di capacità di combattimento?) dispiegato negli altri settori (certamente poco per puntare, per ora, su Odessa)
Ne emerge una delle questioni nella gestione strategica di questa guerra: a favore di chi gioca il tempo?
La risposta che viene dall’Ucraina e dall’Occidente sembra dire: per noi. La guerra di attrito viene ora vissuta con una accelerazione della fornitura di mezzi militari, l’allestimento delle basi per renderla consistente sul medio periodo (non più eccezionale, come dimostrano i movimenti dell’esecutivo USA verso i fornitori), la creazione di un effettivo coordinamento comune nel supporto alla guerra ucraina (la riunione a Ramstein del 26 di aprile). Un dispiegamento imbarazzante, in prospettiva, dal punto di vista delle capacità industriali, a fronte dell’economia di Putin. L’urgenza – conclamata – è per la rapidità delle forniture ora, per incagliare ancora una volta il dispositivo russo.
Implicitamente almeno si guarda a tempi lunghi, orientati al logoramento strategico delle generali ambizioni revisioniste di Putin. Un allineamento all’andamento del conflitto che non passa nemmeno, come immaginato, temuto e pensato nella prima fase della guerra, attraverso l’alimentazione e il supporto alla guerriglia in un paese occupato. La “resistenza” è in realtà quella di uno Stato ancora perfettamente in piedi con il suo apparato militare allargato all’ampia schiera dei riservisti e al supporto della popolazione anche nelle aree di attrito (cui eventualmente si aggiunge l’azione tellurica in quelle occupate dai russi).
“Indebolire” nella profondità strategica le ambizioni russe visto che l’Ucraina non cederà e, di più, è al momento nelle condizioni di non dover necessariamente accettare un compromesso al ribasso quale trapela dal fraseggio della propaganda russa e filorussa. Piegarsi ad una serie di mutilazioni territoriali nella sua area produttiva più ricca e dello sbocco al Mar d’Azov, inghiottendo l’umiliazione di cessioni – anche di popolazione e di comunità locali - che si accompagnano alla distruzione di ampie sezioni del tessuto produttivo e infrastrutturale e all’impunità di fronte a una estesa e programmata applicazione del terrore criminale sulla popolazione e sul tessuto della vita collettiva. Migliaia di crimini documentabili che resterebbero impuniti sullo sfondo sbiadito della “OMS”, in omaggio alle ragioni “superiori” della forza, che legittima di per sé l’uso predatorio, epurativo e vendicativo della violenza.
Una indipendenza perduta anche per il carico di miseria e distruzione che l’aggressore lascia, ancora impunito, sulle spalle degli sconfitti trasformati, in parte, in profughi, interni o esterni senza futuro. E’ questo il “ragionevole compromesso”, ammesso che si dia, che filtra dalle parole del Cremlino e dei suoi portavoce, scivolando da Lavrov a Caracciolo.
A vederla così non c’è ragione che tenga per gli ucraini per cedere. La distruzione è orribilmente fatta e prosegue senza misericordia e limiti, che non siano quelli imposti dalla tenuta militare del difensore. La guerra è proxy solo nella mente di chi cancella per l’ennesima volta l’identità dei resistenti e le loro ragioni, e reagisce rabbioso al dispiegamento di forze e supporto degli alleati. Certo, difendere l’Ucraina e la sua integrità significa anche azzoppare il progetto imperiale di Putin, ma è Putin ad averlo scatenato nel momento che gli sembrava più propizio, dandogli peraltro rapidamente una forma distruttiva e punitiva, tendenzialmente senza ritorno.
Anche questo – a ben vedere e fuori dalla polemica - viene a far parte pienamente della dimensione strategica. Da un lato confermando il paradigma del tempo che sostiene il resistente che vince se non perde, perché non ha altre speranze e sa per converso di avere nella durata lo strumento per erodere sino all’appassimento le risorse dell’occupante. Dall’altro, mettendo in evidenza il presupposto implicito che segna il passaggio dalla prima alla seconda fase. Almeno per l’Occidente.
La guerra si è rivelata in tutta la sua portata criminale e la sua pericolosità strategica: non solo per la sua voragine distruttiva ed eliminazionista che pone la comunità internazionale di fronte a un prima e a un dopo. Come si potrà “normalmente proseguire” dialogando con i protagonisti dello scempio?
Ma anche per la determinazione russa a perseguire i propri fini, rideclinandoli senza privarli della loro intrinseca minacciosità verso l’ordine internazionale. Dalla trasformazione dell’Ucraina in stato satellite e allineato- fase n. 1 - alla presa di possesso di basi economico-strategiche di proiezione, quale piena conferma di uno status di potenza globale destinato a proporsi nel prossimo futuro in nuove esternazioni. Da questo punto di vista, i ponti col mondo di ieri sembrano tagliati anche su questo versante del conflitto, mentre la sfida dell’impunità per i crimini commessi, dal vertice alla base, segna precocemente un altro passaggio di non ritorno.
Anche la Russia infatti, a ben vedere, sembra accettare la sfida del tempo lungo e ridisegnare il suo fine strategico, esplicitamente senza rinunciare alla sua portata destabilizzante generale.
Transitare dal “semplice” riconoscimento del Donbass russo al controllo del sud ucraino sino alla Crimea e poi dalla regione di Odessa alla Transnistria non è una boutade, anche se la immediata risonanza intimidatoria è parte consapevole e perseguita del messaggio di Putin.
Certo il 9 maggio non avremo una sfilata a Odessa e verosimilmente nemmeno una a Mariupol, ma questa dichiarazione esprime chiaramente che il progetto mantiene la sua ambizione e non si ritira dal tavolo ma è disponibile a misurarsi col tempo. Comunica ciò che iniziava a trasparire sin dai primi di aprile, almeno sul terreno delle “sfide”, e anche i provvedimenti economici e le prime strozzature alle forniture di gas vanno in questa direzione, addirittura anticipando un possibile embargo da parte dell’Occidente.
Disegnando a questo punto lo scontro come un confronto con la NATO e la sua – indiretta e proxy-costruita – aggressività, Mosca inizia a fissare lo scenario per una prossima chiamata alla mobilitazione interna che sappia declinare anche le inevitabili difficoltà economiche dell’immediato futuro in una forma compatibile, col compattamento patriottico, alla tenuta del sistema putiniano.
Finalmente, allora, una GUERRA nominata come tale, “subita” questa volta da aggrediti e tale da “chiamare” il popolo alla mobilitazione patriottica nel segno della tradizione e dell’anima russa accerchiata dall’Occidente.
La crescente polemica sulle forniture di armi segnala allora tanto la emergente consapevolezza dei vertici del Cremlino che anche la guerra-tritasassi a base di fuoco distruttivo non garantirà un successo rapido, quanto ambisce a porre le basi politiche e strategiche per fare del tempo lungo l’arma per non perdere l’iniziativa, partendo intanto dalla mobilitazione interna contro l’aggressione che diventa, su basi rinnovate, il tema chiave della narrazione. Alla denazificazione potrà felicemente saldarsi una nuova incarnazione della “Grande guerra patriottica”.
I vertici militari di Mosca devono velocemente prendere atto che l’escalation degli aiuti occidentali è appena partita e non promette bene. I suoi “contenuti” operativi si stanno rapidamente dilatando al di là delle pur decisive dimensioni dell’interdizione e dell’intercettazione. Alla capacità di fuoco diffusa, micidiali equipaggiamenti leggeri, che viene potenziata da nuovi dispositivi, si aggiungono strumenti di controfuoco e repressione diretta potenzialmente micidiali se declinati su un campo di battaglia digitale. Quello che i russi non hanno dimostrato di avere e che l’Occidente fornisce ai resistenti.
Non si può escludere in assoluto oggi che la spinta operativa delle prossime settimane nel sud-est arrivi a fissare un punto di arrivo compatibile con un’idea russa di “successo” ma quanto emerge – anche in termini di valutazione delle reciproche determinazioni politiche - sembra andare in una direzione diversa. L’Occidente guarda alla durata e il Cremlino accetta la sfida rilanciando.
Subire il colpo politico di una NATO che si allarga a Svezia e Finlandia fissa allora un altro schiaffo, ma anche una conferma della natura ultimativa del passaggio intrapreso, che accentua la determinazione a perseguire un risultato militare, che richiede un salto di qualità.
Per i russi allora, i “numeri” andranno necessariamente rivisti e questo non potrà farsi se non con uno sforzo quantomeno doloroso e prolungato nel tempo. “Mobilitare” dovrà significare proporre nella realtà parte cospicua di quel dispositivo militare imponente che dalla carta non si è trasferito sul campo. Armare, sia pure con strumenti meno sofisticati di quelli occidentali, e soprattutto addestrare e portare sul campo almeno il doppio dei reparti schierati originariamente, altre 200 unità di battaglione, richiederà molti indispensabili mesi, contando nel frattempo sulla compattezza interna e sulle divisioni altrui. I “mercenari”, tipico strumento “coloniale” della guerra intrapresa dai russi, non saranno sufficienti.
Accettare il tempo lungo e proiettarsi verso la mobilitazione diventa così, naturalmente, un rischio, ma anche uno strumento per misurare, per una seconda volta dopo il colpo di mano tentato all’inizio, la possibilità che uno scenario complesso, costoso e di lunga durata possa aprire dei varchi nel fronte opposto, far emergere le differenziate debolezze dell’Occidente e in particolare dell’Europa.
Nel leggere le reciproche fragilità e il rapporto che queste instaurano col tempo, l’ideologia può diventare sovrana e quella di Putin ha già sbagliato una volta, a proposito dell’inesistenza dell’Ucraina. Non recede però, sembra, dalla convinzione intorno alla sostanziale compiutezza del crollo dell’Occidente e in particolare dell’Europa. Giocherà le sue armi, anche nella narrativa e nella minaccia, su questo. Già altri avevano scommesso sulla decadenza delle democrazie, e anche Hitler e Mussolini si erano trovati di fronte a una guerra che “non voleva finire” (pur a fronte dei grandi successi iniziali della Germania nazista). Il tempo sarà galantuomo?


lunedì 25 aprile 2022

La Resistenza prigioniera del mito

 

 

Giovanni De Luna, La Stampa, 25 aprile 2022

Quel mondo e quella Europa, entrambi nati dalla Resistenza, sembrano essersi smarriti nella carneficina ucraina costringendoci a rimpiangerli con una dolente consapevolezza.  

Luca Canali, La resistenza impura, Mondadori, Milano 1963

I morti sono morti perché altri continuino a vivere,
ma soprattutto perché essi stessi volevano vivere in più onorevole modo:
eroe è chi il suo strenuo operare indirizza a un domestico fine,
non chi se ne fa servitore per trovarvi un'ebbrezza privata.
E i vivi che allora rischiarono eroicamente la morte,
ora attendono pacificamente ai loro traffici, intingoli, studi
a tutto ciò cui insomma tendeva la loro lotta contro un pugno di vili,
politici corrotti e falliti, burocrati ottusi,
o un esrcito di imberbi ingannati dal puro ideale.
Così la resistenza è passata e chi vuole onorevolmente protrarla,
si cimenti col reale di oggi così come essa operò nel reale di ieri.
Perché riandare troppo spesso col pensiero a quei giorni perduti,
e contrapporli agli attuali con una sorta di amaro rimpianto,
li solleva in una sfera d'affascinante e tuttavia arbitraria purezza
evocata da chi non sappia acconciarsi agli ingrati doveri presenti.

La resistenza fu preparata di lontano, da uomini che agitavano i problemi elementari del popolo ma insieme una grande alternativa morale, senza la quale il popolo non avrebbe forse trovato la forza di seguirli fino in fondo: i fascisti non sbagliavano quando dicevano di vedere, oltre gli scioperi e le rivendicazioni sindacali, anche un piano di sovvertimento totale. Perché non dobbiamo sentirci anche noi preparati di lontano, lottare con lo stesso slancio morale di ieri, operando nelle situazioni reali, anche le più nauseanti, ma cercando di superarle adeguandole a una superiore immagine reale che di esse ci siamo fatti nella nostra coscienza? Perché non sentire anche oggi gli gli ideali della resistenza come lo spirito che può animarci, non solo nelle grandi lotte politiche ma anche nell'intimità della nostra vita morale? E se non per le masse indiscriminate che è inevitabile e giusto si godano i benefici raggiunti, almeno per i partiti e gli uomini che si assumono di rappresentarne la coscienza. 

Italo Calvino
Oltre il ponte (1959)

Oramai tutti han famiglia, hanno figli
che non sanno la storia di ieri
io son solo e passeggio tra i tigli
con te cara che allora non c'eri.
E vorrei che quei nostri pensieri
quelle nostre speranze di allora
rivivessero in quel che tu speri
o ragazza color dell'aurora.


domenica 24 aprile 2022

24 aprile, giorno del lutto per gli armeni

 


Silvia Leuzzi

Daniel Varujan [1884-1915] fu massacrato insieme ad altri 2300 e più intellettuali armeni, prelevati contemporaneamente in più parti del paese in sole tre notti [24-26 aprile 1915]. La Arslan, autrice del libro “La Masseria delle Allodole“, che l’ha resa celebre, racconta come sono avvenuti i fatti di quel lontano e drammatico 1915, che ha ricostruito in anni di studi e ricerche. I Giovani Turchi erano legati alla Germania Guglielmina da rapporti di collaborazione. Gli Armeni, persa la loro indipendenza, vivevano da sempre una condizione di subalternità rispetto alla popolazione turca. Essendo però dei raffinati intellettuali, studiosi e scienziati, nei secoli avevano comunque acquisito una certa considerazione da parte dei Sultani e, grazie alla loro laboriosità erano per lo più colti e benestanti.

Con l’avvento al potere dei Giovani Turchi e le forti spinte nazionaliste del Primo Novecento le cose cambiarono. Fu messo a punto un piano per eliminare fisicamente tutta la cultura armena fino allora rispettata e tenuta in alta considerazione, annientando la cultura si annienta la memoria e la storia di un popolo. La scrittrice parla di un inganno teso a tutti gli intellettuali: medici, farmacisti, insegnanti, giuristi e scienziati, che si fossero distinti anche in ambito politico o iscritti a un partito, prelevati tutti insieme in sole tre notte dalle loro abitazioni, senza alcuna violenza, in modo da non destare allarmismi nelle famiglie. Non tornò quasi nessuno a casa, i corpi furono disseminati lungo il deserto, ammazzati e torturati senza pietà.

Il tempo non ha migliorato l’animo umano. Tragedie come questa si continuano a ripetere, sembra che l’orrore non punga veramente i nostri cuori e le nostre anime, così accecati come siamo dalla violenza, dall’ingordigia e dal furore. 

Notte sull’aia

Dolce notte estiva,
la testa abbandonata sull’aratro
l’anima sacra del contadino riposa sull’aia.
Nuota il grande silenzio tra le stelle divenute un mare.
L’Infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama
[…] È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro,
naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti […]

Granai

Nella casa oscura, sotto il tetto paterno,
fila dopo fila i granai sono rigonfi del nuovo raccolto.
Dal loro ampio ventre giungono gli intensi profumi
di autunni pieni di frutta e di campi falciati.

Là c’è la bruna lenticchia, là l’orzo affusolato;
là il grano, spremuto dal solco e scorrendo giù dalla montagna,
ha formato un torrente. Racchiudendo l’oro e il sole,
essi sembrano aurore velate di nuvole.

Fra le travi affumicate e le pareti solitarie
il ragno ha disteso le sue vesti polverose.
Dall’alto talvolta scende una lama di luce
che a lungo ha esitato intorno all’abbaino assolato.

Racchiusi nel loro seno i tesori della terra,
sembrano irridere in silenzio all’inverno e alla carestia del domani…
Vigile davanti a loro, rannicchiato nella sua coda pelosa,
il gatto della casa sorveglia, simile a un dio.

 

sabato 23 aprile 2022

Pagliarulo, attacco e difesa

 

Salvatore Vassallo, Domani, 19 aprile 2022

  • Al congresso di Chianciano del 2006 fu deciso che potesse iscriversi all’Anpi anche chi non aveva partecipato direttamente alla resistenza.
  • Negli anni immediatamente successivi questa opportunità si è sposata con la ricerca di un luogo di aggregazione e impegno politico da parte delle componenti contrarie alla trasformazione del Pci in Pds e ostili alla creazione del Pd.
  • Il peso morale della resistenza è stato sfruttato per dare voce alle campagne di opinione di un gruppo politicamente ben connotato, a cominciare dal referendum costituzionale del 2016.

Gianfranco Pagliarulo in una intervista a Left, 20 aprile 2022

Infine, chiosa il capo dell’Anpi: «Stiano tranquilli tutti coloro che si stanno accanendo contro l’Anpi e contro me stesso: continueremo a condannare senza se e senza ma un’invasione sanguinosa di cui Putin ha tutte le responsabilità; continueremo a sostenere l’urgenza dell’immediato cessate il fuoco e del ritiro delle truppe russe dall’Ucraina. Continueremo a sostenere che l’unica via per far cessare questa catastrofe è una trattativa seria e una continua de-escalation. Continueremo a sostenere che l’invio di armi che si sta incrementando è benzina sul fuoco di una guerra che può deflagrare su scala europea e mondiale e di cui le prime vittime sono gli ucraini. Continueremo a sostenere che nel dibattito pubblico in Italia bisogna unirsi, dialogare, confrontarsi e non insultarsi, senza demonizzare nessuno. Continueremo a sostenere che il primo urgentissimo obiettivo è la pace e con questa parola d’ordine manifesteremo unitariamente il 25 aprile. Continueremo a sostenere che nel nostro tempo in una guerra non ci sono vinti né vincitori ma solo superstiti. Sappiamo di essere tanti. Condividiamo gli appelli del papa. Eravamo, siamo e saremo sempre antifascisti».

giovedì 21 aprile 2022

La Resistenza scongelata

 

 

   

Come ogni vicenda umana, la Resistenza è per taluni aspetti un fenomeno singolare e irripetibile, per altri aspetti un momento esemplare di lotta per la libertà. La vicenda non ha in quanto tale una versione unica e obbligata. Anche limitandosi al campo antifascista, ne esistono varie narrazioni documentate, da Roberto Battaglia a Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, passando per Giorgio Bocca, Gianni Oliva e Santo Peli. Da ultimo la Resistenza è diventato un argomento coinvolto nella disputa sulla guerra in Ucraina. Angelo d'Orsi è stato, come spesso gli accade, perentorio: nulla a che vedere, la Resistenza italiana non ha nulla a che vedere con ciò che ora accade in Ucraina. Lo storico torinese ha parlato come se l'argomento fosse affar suo e lui rappresentasse il sapere assoluto in materia. Di fatto, lo stesso argomento può essere affrontato in vari modi, come dimostrano gli altri testi citati qui sotto. Giovanni Cominelli arriva a mettere in luce l'aspetto di lotta per la libertà. Marco Di Giovanni guarda alla Resistenza italiana come alla forma locale di una più vasta tendenza europea. Angelo D'Orsi invece, preferisce a sua volta insistere sulla specificità del fenomeno nazionale e locale italiano. Così ha fatto in definitiva anche il suo conterraneo Giovanni De Luna, per non parlare di un personaggio che storico non è, ma politico di professione, Gianfranco Pagliarulo. Si dà il caso che la storiografia non sia un dominio popolato di angeli al servizio della interpretazione corretta. La storiografia militante come quella praticata da D'Orsi vede all'opera numerosi diavoletti pronti a trasformare una opinione politica in una tesi scientifica. Operazione legittima per carità. Operazione che comporta un prezzo: la perdita dell'innocenza. Guarda dove ti vai a collocare e ti dirò chi sei. Questo mi sembra di poter dire. (Giovanni Carpinelli)

Angelo d'Orsi

"Una follia paragonare la resistenza dei partigiani con quella degli ucraini".

martedì 19 aprile 2022

Omaggio a Catherine Spaak

 


Bruno Gravagnuolo

In realtà questa Spaak è stata una gran donna. Oltre che elegante e brava ha molto combattuto e sofferto. Non era affatto solo una iconcina cool. Fu pecora nera nella sua famiglia borghese e anaffettiva. Divenne madre a 17 anni e le tolsero la figlia perché era “attrice”, con i carabinieri a Bardoneccchia. Giudici e famiglia di Capucci. E gliela misero contro la figlia. Per 40 anni. Ma riuscì a recuperarla dopo enormi sofferenze. Poi Johnny Dorelli vero Dorellik non voleva lavorasse. Altri due matrimoni. Tv con invenzione format intimi tutti suoi. Vivace. Certo un po’ risentita e a tratti politically correct. Ne aveva ben donde. Ma sempre elegante. Gran classe. Poi ictus. E menomazione. Immaginiamo abbia lottato fino all’ultimo. Non fu affatto felice e privilegiata e fece sempre film di un certo rango. Commedia italiana genere alto per la storia del nostro costume. Senza mai scadere nel kitsch. Algida e ironica. Un sorriso incantevole. Una femminilita’ nuova e intrigante. Mentale. Libera. Quattro matrimoni e sempre la voglia di ricominciare. La lotta per il rispetto di se stessa, molta forza soggettiva. Nessun privilegio. Ricominciava sempre daccapo. Accattivante ironica e blasé. Da adolescente leggeva Céline. Sì, insomma,  una donna libera e moderna. Femminile. Del femminismo che piace a noi. Cura del sé, dei propri talenti. Combattiva. Padrona della propria anima. Una persona coraggiosa e bella. Come intatta e sempre vera negli anni. Le rendiamo omaggio e la ringraziamo per aver incarnato il desiderio di un femminile diverso. Il nostro desiderio. E abitato le fantasie degli anni chiave della nostra vita.


 

lunedì 18 aprile 2022

Il fallimento militare della Russia

 

 

 

 

 

 

 


Dario Fabbri, Comunque vada, il fallimento della Russia è già evidente, Domani, 15 aprile 2022

 

L'invasione russa dell’Ucraina si sta dimostrando un vero disastro. Lontani gli obiettivi militari iniziali, tuttora da centrare quelli fissati di recente, assai dure le sanzioni approvate dall’occidente contro Mosca. Ancora più rilevante, difficilmente la Federazione potrà riprendersi dal danno d’immagine in cui è incappata.Vera tragedia per un impero antico, dunque abituato a vivere anzitutto di status, del riconoscimento della sua potenza da parte degli altri, del timore incusso nei suoi interlocutori. Inevitabilmente tale sconclusionata campagna avrà un effetto molto negativo sulla capacità di Mosca di imporre la propria visione, di sconsigliare un’eventuale azione contro di sé. Ormai aggrappata soltanto all’idea di imprevedibilità che la riguarda, abbastanza per sopravvivere, non per scongiurare d’essere divorata da una Cina famelica.


LE FASI DELL’INVASIONE

Alla fine di febbraio Mosca ha sognato di prendere velocemente l’intera Ucraina. Stando agli improvvisati piani iniziali, l’armata russa avrebbe facilmente raggiunto Kiev, rovesciato il governo Zelensky, sostituito da un esecutivo filo-putiniano, pronto a modificare la costituzione per tradurre nero su bianco la neutralità del paese.Sicché alcune unità dell’esercito sono state spedite oltre la linea del nemico, nel tentativo di giungere alla capitale, trovandosi isolate, mancanti del rifornimento di carburante e alimentare. Per compiere tale avanzata, la Russia ha invaso il territorio da tre direttrici distinte, da nord, da sud e da est, sparpagliando sul territorio le proprie forze, mancando così di un focus sul quale concentrarsi, consegnandosi al fuoco nemico, agile e addestrato per lo scontro.

Naufragata questa prima fase, Mosca ha provato a cingere d’assedio le principali città d’Ucraina, nella speranza di fiaccare la resistenza e la popolazione, per conquistare i centri nevralgici, per tirare verso sé ampie fette della popolazione.Prima di scoprire che, con sommo stupore, pure russofoni gli abitanti non avevano alcuna intenzione di arrendersi, di fondersi con gli occupanti. Allora il Cremlino ha compreso di mancare degli effettivi di fanteria per conquistare una nazione di oltre 40 milioni di abitanti, ampiamente ostile a ovest del Dnepr.

Non è bastato pescare tra ceceni e turcofoni della Siberia, né tra i mercenari siriani, per supplire a tale mancanza. Le perdite inflitte da Kiev, fortemente sostenuta dagli armamenti occidentali, hanno lentamente convinto Putin che fosse giunto il momento di passare alla terza fase della guerra, benché annunciata come seconda. Ovvero concentrarsi sulla presa del Donbass, territorio già quasi totalmente nella disponibilità di Mosca, improvvisamente assurto a principale trofeo della campagna in corso.

È qui che la vicenda palesa il fallimento russo. In queste ore la Federazione sta trasferendo verso le regioni orientali dell’Ucraina mezzi e uomini presenti nel centro e nel nord, in vista di una battaglia definita “decisiva”. Tanto che nel frattempo il generale Aleksandr Dvornikov, già veterano di Siria, è stato designato nuovo comandante delle forze d’invasione.Aldilà della propaganda, scopo della campagna è acquisire l’intero territorio degli oblast’ di Lugansk e Donetsk, estraneo alle sedicenti repubbliche indipendenti, comprendente anche la città di Mariupol, porto dal valore strategico presente sulla costa del mare d’Azov.

Forse quanto necessario per offrire una cantata vittoria all’opinione pubblica russa. Ma l’eventuale bottino di guerra pare troppo striminzito per sopravvivere a un vaglio non di parte. Dopo aver provocato migliaia di morti tra la popolazione civile, un imprecisato numero di caduti tra i propri soldati (forse 15mila?), compresi sette generali, dopo aver utilizzato un quantitativo ingente di munizioni, Mosca si trova a battersi per un brandello di terra che era già largamente dalla sua. Non esattamente un trionfo. Non solo perché si tratta di una manovra tuttora da realizzare, da portare a compimento – Mariupol è annunciata come prossima alla caduta da molte settimane.

Trattasi di un’eventuale conquista, poche decine di chilometri tra Lugansk-Donetsk e l’ex linea delle ostilità, che era possibile perseguire attraverso le milizie autoctone, senza scatenare una guerra di grande portata. Quasi il Cremlino avesse smarrito la capacità di incidere sugli eventi in forma surrettizia, attitudine che era stata finora il suo marchio di fabbrica, preferibile per il risparmio di vite umane, nonché di costi economici e finanziari.

IL FALLIMENTO

Anziché carpire la popolazione locale offrendo un migliore stato sociale oppure semplicemente avvicinarla attraverso la comune radice culturale, l’Orso ha voluto prenderla con la forza, provocando l’inevitabile crisi di rigetto di chi, pure legato alla medesima madre slava, rinnega ogni aderenza alla potenza che ne distrugge l’abitazione e ne stermina la famiglia.

Per cui Mosca potrebbe presto dotarsi, a un costo esorbitante, di un ulteriore cuscinetto, posto immediatamente al di là della frontiera. Con conseguenze drammatiche sulla propria tenuta. Dopo aver istigato la reazione commerciale e militare dell’occidente guidato dagli americani, ora si trova nelle grinfie della Cina, pronta a spolpare il finto alleato slavo. Perché nei prossimi anni Pechino aumenterà certamente l’acquisto di idrocarburi siberiani e grano russo, ma a un prezzo inferiore rispetto a quello fin qui pagato dagli europei, forte di una capacità di ricatto nettamente maggiore alla nostra.

È questa la principale sconfitta per il Cremlino. Ogni impero vive anzitutto di credibilità, della propria immagine riconosciuta, specie la Russia da molti decenni mancante dei mezzi per sostenere le velleitarie ambizioni di potenza. Negli ultimi anni era riuscita a raccontarsi come un soggetto eccezionalmente efficace e minaccioso, a fronte di un relativo dispendio di energie, attraverso campagne discretamente semplici come quelle condotte in Siria o in Libia. Le disastrose operazioni attuate in Ucraina squarciano inevitabilmente tale propaganda, la rendono non più percorribile.

Dopo i fatti di queste settimane, impossibile ritenere l’Orso un soggetto all’altezza di Cina e Stati Uniti – se non per dolo, per magnificare un nemico utile a gonfiare i bilanci della difesa. Più concretamente, Putin sa che nel prossimo futuro la paura esercitata sugli altri di cui vive la sua nazione andrà inevitabilmente scadendo, sommersa dalle immagini di mezzi antiquati impantanati nel fango ucraino, dalle scene di soldati russi spaesati, tipiche di una media potenza militare, non certo di un egemone indiscusso.   


Danno ingente, da cui sarà complesso riprendersi nell’immediato, fallimento innegabile della guerra. Poco cambierà pure se Mosca imponesse la neutralità a Kiev – giacché questa si tradurrà comunque in una non dichiarata appartenenza al fronte occidentale. Né se le impedisse di aderire alla Nato – nessun membro dell’Allenza atlantica ha mai concretamente sognato di accogliere il paese di Zelensky. Né se l’armata si prendesse l’intero Donbass, regione da tempo controllata da remoto, come dimostrato nel 2018 dal blocco imposto alle navi ucraine nel mare d’Azov.

Niente potrà mascherare le nefaste sofferenze provocate dalla disinvoltura del Cremlino, 

tanto ingenti da trasformare la Russia in un socio di minoranzadell’impero cinese. Destino

umiliante per chi tempo fa rifiutò di assumere il medesimo ruolo nello schema americano.

 

mercoledì 13 aprile 2022

Il nebuloso Mélenchon

 

 


 Leonardo Casalino, Giovani di città, gli elettori di Mélenchon che Macron deve conquistare, La Striscia rossa, 12 aprile 2022

L’elettorato decisivo da mobilitare è quello che ha votato Jean Luc Mélenchon, una delle grandi sorprese del 10 aprile. La distanza finale da Le Pen è di circa 400.000 voti e non vi è dubbio che sul mancato sorpasso abbia pesato la scelta dei comunisti di presentarsi autonomamente, a differenza che nel 2017. Mélenchon, domenica sera, in quello che è stato uno dei discorsi più interessanti del dopo voto, ha scandito con forza quattro volte la frase: “nessuno voto deve andare all’estrema destra”. Ma così come aveva fatto nel 2017 non ha dato un’indicazione di voto esplicita in favore di Macron e i dirigenti del suo partito, presenti nelle diverse tribune televisive, hanno insistito sul fatto che le scelte degli elettori dipenderanno dalla capacità di quest’ultimo a introdurre novità significative nel suo programma.

Mélenchon ha ottenuto un ottimo risultato nelle grandi e medie città. Se si considerano tutti centri urbani con più di centomila abitanti arriva in testa con circa il 31% dei voti, superando nettamente Macron (26%) e Le Pen (16,9%). Un dato omogeneo in aree geografiche diverse: da Lille a Montpellier , da Toulouse a Grenoble.
Macron è stato invece il più votato nei tantissimi comuni tra i 20.000 e 100.000 abitanti, con un risultato omogeneo su tutto il territorio nazionale. Marine Le Pen, dal canto sua, ha confermato il suo radicamento elettorale nei numerosi piccoli comuni isolati e nelle città con meno di 20.000 abitanti.

Mélenchon è arrivato primo anche nei territori francesi di oltremare ( la Réunion, Guyana, Martinique, Guadalupe) e , soprattutto, in Ile de France, la regione parigina. Qui ha superato di poco Macron (30,2% contro 30,1%), trionfando nei comuni che storicamente hanno costituito il bastione rosso della sinistra francese: con il 61% a Saint-Denis o il 60,14% a Bobigny. Si tratta di centri urbani in cui si è registrato un forte astensionismo, superiore al 30%, ed è quindi evidente come Mélenchon sia stato l’unico candidato capace di proporre una prospettiva politica convincente a un elettorato deluso dalle politiche di tutti i governi degli ultimi decenni e che avrebbe potuto scegliere o di non votare o di premiare l’estrema destra.

Per quanto riguarda la distribuzione regionale del voto, la carta elettorale francese presenta delle zone omogenee: Macron conquista tutte le province dell’Ovest, da nord a sud, e buona parte del centro-est. Marine Le Pen conferma il suo radicamento sia nel Sud-est (un bastione dell’estrema destra che ha ereditato dal padre) sia nel Nord, che è invece un territorio che ha saputo conquistare da sola negli ultimi 20 anni. Anche lei deve affrontare una sfida complessa: attrarre voti di sinistra conservando il suo elettorato di destra fedele ai contenuti più reazionari del suo programma.

La sua strategia è certamente quella di unire l’elettorato anti-Macron, ma per realizzarla dovrà al contempo ribattere in maniera convincente alle accuse che il suo avversario ha cominciato a rivolgerle – cosa che non aveva fatto durante la campagna del primo turno – da domenica sera: il suo legame politico con Putin, la questione del prestito ricevuto e non ancora rimborsato da banche russe e più in generale il suo appartenere “ a una internazionale populista” che rappresenta una minaccia per il futuro dell’Europa.

https://www.nouvelobs.com/election-presidentielle-2022/20220408.OBS56847/melenchon-a-l-elysee-voici-a-quoi-ressembleraient-les-100-premiers-jours-d-une-presidence-insoumise.html
https://www.marianne.net/politique/pourquoi-cohn-bendit-ne-peut-plus-tutoyer-melenchon

domenica 10 aprile 2022

Lui solo trascina

 


 Wislawa Szymborska, L'odio

Guardate com’è sempre efficiente,
come si mantiene in forma
nel nostro secolo l’odio.
Con quanta facilità supera supera gli ostacoli.
Come gli è facile avventarsi, agguantare.

Non è come gli altri sentimenti.
Insieme più vecchio e più giovane di loro.
Da solo genera le cause
che lo fanno nascere.
Se si addormenta, il suo non è mai un sonno eterno.
L’insonnia non lo indebolisce ma lo rafforza.

Religione o non religione –
purché ci si inginocchi per il via
Patria o no –
purché si scatti alla partenza.
Anche la giustizia va bene all’inizio.
Poi corre tutto solo.
L’odio. L’odio.
Una smorfia di estasi amorosa
gli deforma il viso.

Oh, quegli altri sentimenti –
malaticci e fiacchi!
Da quando la fratellanza
può contare sulle folle?
La compassione è mai
arrivata per prima al traguardo?
Il dubbio quanti volenterosi trascina?
Lui solo trascina, che sa il fatto suo.

Capace, sveglio, molto laborioso.
Occorre dire quante canzoni ha composto?
Quante pagine ha scritto nei libri di storia?
Quanti tappeti umani ha disteso
su quante piazze, stadi?

Diciamoci la verità:
sa creare bellezza
Splendidi i suoi bagliori nella notte nera
Magnifiche le nubi degli scoppi nell’alba rosata.
Innegabile è il pathos delle rovine
e l’umorismo grasso
della colonna che vigorosa le sovrasta. 

E' un maestro del contrasto
tra fracasso e silenzio
tra sangue rosso e neve bianca.
E soprattutto non lo annoia mai
il motivo del lindo carnefice
sopra la vittima insozzata.

In ogni istante è pronto a nuovi compiti.
Se deve aspettare aspetterà.
Lo dicono cieco. Cieco?
Ha la vista acuta del cecchino
e guarda risoluto al futuro.
– lui solo.

 

sabato 9 aprile 2022

Il fascino della vertigine

 


Marco Revelli, La vertigine della guerra e il fascino del gioco crudele, Volere la luna, 6 aprile 2022 

“Va chiamata ‘vertigine’ ogni attrazione il cui primo effetto sorprenda e disorienti l’istinto di conservazione”. Così scriveva Roger Caillois in un testo dell’esilio sudamericano, pubblicato nel 1943 ma risalente agli anni immediatamente precedenti, quando la catastrofe della guerra mondiale si avvicinava ed esplodeva. In questo caso, spiegava, “l’essere è trascinato alla rovina e come persuaso dalla visione del proprio annientamento a non resistere alla potente fascinazione che lo seduce terrorizzandolo”. Per l’insetto, aggiungeva, “è lo sfolgorare della fiamma, per l’uccello sono gli occhi fissi del serpente”. Per l’uomo è l’attrazione irresistibile del vuoto. In particolare di quel vuoto estremo che è la guerra: il vortice della distruzione in cui ogni volontà individuale è travolta di fronte al dominio assoluto dell’elementare, e privata del potere, costitutivo dell’esistenza, “di dire di no”.

Ho ripensato a queste parole nelle settimane scorse, in cui la guerra ha invaso, senza trovare resistenza, le nostre vite e le nostre menti, trascinandoci tutti, società e individui, nel suo vortice, con le sue categorie totalizzanti e totalitarie che non lasciano spazio al pensiero complesso, soprattutto che assolutizzano la sola risorsa delle armi (lo strumento per eccellenza concepito per “fare il vuoto”). E infatti Caillois, dopo aver passato rapidamente in rassegna i vari tipi di vertigine che mettono in scena “l’estrema abdicazione dell’uomo” di fronte alle “tentazioni che lo spingono alla rovina” – la figura delle femme fatale [sic], l’ebbrezza patologica del gioco d’azzardo… – si sofferma appunto sulla “vertigine della guerra”, la più potente di tutte nel suo trasformare agli occhi dell’uomo la propria resa all’attrazione dell’abisso in “dovere, grandezza, ebbrezza”. La distruzione, e l’autodistruzione, come destino, a cui è dolce abbandonarsi, cessando di tentare di nuotare contro una corrente che appare l’ineluttabile corso del mondo.

E’ così che nel discorso pubblico e nel racconto prevalente che gli fa da involucro, persino la solidarietà o è armata o non è. E chi prova a immaginare forme alternative di sostegno alle vittime ucraine dell’aggressione diventa, automaticamente, fautore della resa, amico del macellaio, bellicista dalla parte sbagliata. Come se nella vertigine della guerra non ci fosse nessuna alternativa credibile alle armi, né diplomazia, né mobilitazione radicale dell’opinione pubblica, né tantomeno quelle tecniche della non-violenza, ormai sperimentate e dimostrate spesso più efficaci, in condizioni di scontro asimmetrico, della nuda resistenza armata. In questa condizione l’immaginazione scende al grado zero mentre l’adrenalina sale vertiginosamente (appunto), cancellando ogni articolazione del ragionamento perché, nella regressione al livello elementare dell’essere, contano solo le alternative istintuali: combattimento o fuga, uccidere o essere uccisi, dominare o essere dominati, vincere o morire… E mentre la parola Pace sembra sempre più una bestemmia nel fragore delle armi, sollevando sguardi di compatimento o accigliati rimbrotti per “anime belle” (se ne potrà parlare solo “dopo che le armi avranno definito il reale rapporto tra le forze in campo”), persino il più autorevole tra gli opinion leader globali, Papa Francesco, viene oscurato, inserito d’ufficio nella lista degli inaffidabili, ignorato nei testosteronici salotti dei talk show televisivi. Eppure non sta affatto riproponendo l’evangelico “porgere l’altra guancia” (come superficialmente i suoi critici affermano con espressione di superiore sufficienza: mi è capitato di sentirlo dire esattamente così, in una trasmissione cui ho partecipato) ma parla pragmaticamente il linguaggio di una politica al livello dei tempi invitando a pensare un modo diverso di governo del mondo, che non ne avvicini la fine (testualmente: “La vera risposta alla guerra non sono altri armamenti, sanzioni, alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti”.

D’altra parte a tal punto le feroci leggi della guerra penetrano nel nostro universo di senso (o meglio di non-senso), che persino il dolente popolo dei profughi e dei rifugiati ne viene sezionato, con la distinzione atroce tra profughi buoni e profughi cattivi, rifugiati veri e rifugiati falsi – ascoltare per credere -, dove il discrimine tra gli uni (i salvati) e gli altri (i sommersi) passa per le forche caudine della schmittiana coppia “amico/nemico”, e gli amici sono quelli che combattono (sul terreno, e “da europei”!) la nostra stessa battaglia (virtuale) e cattivi tutti gli altri, non importa che provengano dall’inferno di Aleppo (non diverso da quello di Mariupol), o dallo Yemen bombardato con le bombe prodotte e vendute da noi, o dal Kurdistan usato e abbandonato… Una spaccatura sulla pelle degli ultimi ben visibile sui confini polacchi, polarizzati tra la gara di accoglienza sul lato a sud est, dove transitano gli amici, e il filo spinato e la tortura su quello a nord est, dove è respinto nei boschi e nel gelo il popolo dolente della “rotta balcanica” (gli “altri”) e dove le lanterne verdi continuano a essere considerate dalle autorità polacche un reato.

Sul tema della vertigine Caillois sarebbe tornato una quindicina di anni più tardi, nel 1958, in un celebre libro dedicato in primo luogo al gioco (titolo Les jeux et les hommes, sottotitolo La masque et le vertige). Quello del gioco, vi si affermava, è una sorta di “spazio magico”, per certi versi analogo a quello del “sacro” – in particolare del “sacro di trasgressione” – nel quale le consolidate regole che strutturano la vita quotidiana vengono sospese ed è possibile tentare di “distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico”. Come commenterà nell’Introduzione Pier Aldo Rovatti, per il giocatore, soprattutto per quel tipo estremo che è il giocatore d’azzardo, “entrare nel gioco, in-ludere, non significa solo entrare in una dimensione illusoria, già di per sé instabile, ma anche esporsi al rischio e infine partecipare di quello stato ‘incandescente’” ben noto a chi si è seduto al tavolo verde di una bisca. E a maggior ragione a chi si è abbandonato al vortice della guerra, ovvero, ancora una volta, alla sua “vertigine” – che in questo contesto Caillois richiama nella sua radice greca, ilinx, che letteralmente significa “gorgo” – la quale, appunto, “si accompagna spesso con il gusto normalmente represso del disordine e della distruzione che tradisce forme rozze e brutali di affermazione della personalità”.

Letta in questa accezione, la guerra – forma estrema di gioco feroce – costituirebbe lo spazio per eccellenza dell’anti-quotidianità: la sfera dei comportamenti umani in cui i fondamenti stessi della società costituita vengono sospesi (gli individui ne vengono “liberati”), a cominciare dal comandamento primo “non uccidere”. E come nel “tempo festivo” o nel Carnevale (Franco Cardini ha scritto un libro essenziale sulla guerra come Antica festa crudele), la trasgressione diventa la regola (è, appunto, un “mondo alla rovescia”), e tutto appare possibile sotto il dominio di una irresistibile “necessità”. Come nel gioco, tanto più “eccitante” quanto più pericoloso, anche in guerra la vita sembra acquistare un di più di intensità e di “autenticità” (resa possibile dalla a-normalità delle condizioni e delle regole rispetto a quelle della “banale” quotidianità).

Basta rileggersi le cronache della febbricitante atmosfera nelle giornate del “maggio radioso” del 1915, quando in un tripudio di retorica e di bandiere ci si precipitò nell’”inutile massacro”. E al misero prezzo di qualche esibizione in piazza si poteva comprare la possibilità di distinguersi dagli ignobili “panciafichisti”. O ritornare alla prima pagina delle celebri Tempeste d’acciaio di Ernst Jünger, dove si descrive lo spirito con cui il suo battaglione di reclute si avvicinava a “quella melodia da laminatoio” che era il fronte, per il proprio battesimo del fuoco: ”…poche settimane d’istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d’entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli… Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prender parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro”.

Ecco, credo che potremmo mettere in conto anche questo, per spiegare l’apparente irresistibilità dell’attuale ruere in bellum: questo bisogno di evasione dalla banalità inerte di un’esistenza dominata dall’universo delle merci e dal calcolo d’utilità per accedere facilmente, relativamente a buon mercato, a una sfera mobilitata e mobilitante di sentimenti forti, solo semplicemente chiamando “alle armi” e alla solidarietà armata (non importa poi che a usare quelle armi siano gli altri, nel più perfetto stile dell’”armiamoci e partite”). Una sorta di riscatto facile rispetto all’insensatezza del proprio quotidiano, con uno zelo tanto più ostentato (si pensi alle performances di tanti conduttori televisivi e opinion leader) quanto più conformi, e totali, erano state le precedenti adesioni ai dettami della mercificazione.

Un caro amico, Paulo Barone, in un denso messaggio di questi giorni, ha parlato dell’”esaltazione di chi trova finalmente nel ‘bene’” con cui schierarsi (la libertà del popolo ucraino, le nostre democrazie violate) “un motivo assoluto per ‘contrastare’ il vuoto nichilista che li attanaglia ‘da dentro’”: di “un’ebbrezza bellica che scaccerebbe via (in realtà attuandola) l’insensatezza di questo stile di vita”. E direi che meglio non poteva dirlo. C’è, in questa fibrillazione bellica che pervade pressoché tutto, la sensazione che, lungi dall’essere in opposizione radicale, idealistica e spiritualmente qualificata, rispetto al precedente demi-monde affaristico/consumistico vissuto all’insegna di un materialismo tutt’altro che storico – un soprassalto di mobilitazione valoriale alternativa all’affarismo mercuriale – essa ne rappresenti un mimetico prolungamento: una sorta di tentativo di fuga riconfermante da un presente insoddisfacente ma considerato intrascendibile se non nel (temporaneo, come appunto per il tempo festivo e per quello del gioco) oltrepassamento del confine che separa dal campo “altro” della mobilitazione bellica. La metamorfosi del vecchio bue in minotauro fa parte, strutturalmente, del carattere bipolare dell’esperienza bellica, del suo fascino e della sua contagiosità, con l’opportunità offerta a chi vi partecipa, di vivere la propria doppiezza – la norma da animale da soma e lo stato d’eccezione dell’esperienza eroica -, senza doversi più preoccupare della coerenza tra le diverse parti del sé. Potendo dar convivere il massimo del conformismo e il massimo della trasgressività. Soprattutto, liberando finalmente la propria “ombra” senza timore di perdere il proprio posto nella società ma anzi potendo vivere la propria bipolarità senza remore né sensi di colpa. Anzi ostentandola come segno di virtù.

In questo mondo che si rovescia preso nella propria vertigine, capita allora di vedere vecchi post-fascisti tessere l’elogio di quei partigiani che fino a ieri indicavano come feroci infoibatori e che oggi, in quanto “armati”, diventano modello da imitare. Antichi seguaci del fucilatore Almirante mettere in croce l’ANPI colpevole di non valorizzare abbastanza oggi, col rifiuto dell’invio di armi alla “resistenza ucraina”, la scelta “armata” di quelli che quel loro precedente idolo avrebbe bellamente fucilato. E che dire di Francesco Merlo, che in un articolo sulla “Cosa negazionista che fa il gioco di Putin”, proclama che “un po’ di sdegno verso l’Anpi bisognerà tirarlo fuori”, contro questa “associazione in mano a un ceto di impiegati, che si è allontanata dai partigiani”, colpevole d’imbelle “neneismo” e dunque “amica di Putin” per non aver aderito senza se e senza ma alla campagna di riarmo e per aver chiesto, a proposito del massacro di Bucha, la stessa cosa rivendicata dal Segretario generale dell’ONU, ovvero una immediata e rapida inchiesta indipendente?

Merlo scrive su un giornale che ha pubblicato regolarmente per sei anni – lo documenta il “Fatto quotidiano” – un inserto sponsorizzato dal Cremlino, tra il 2010 e il 2016, quando noi, come l’Anpi e molti antifascisti veri, muovevamo aspre critiche all’autocrazia putiniana mentre i lettori del quotidiano di cui lui era editorialista di punta dovevano sorbirsi interessati (e poco interessanti) reportages sul concorso bandito per trovare un nome al cane di Putin, o pelosi elogi del Patriarca Kirill (definito “una delle personalità di maggior rilievo del mondo cristiano” sic), o ancora commenti entusiastici sull’incontro tra Putin e Renzi a Milano nell’ottobre del 2014 (a Crimea annessa: ”Renzi ha capito di avere davanti un interlocutore serio, che porta avanti la sua linea e difende gli interessi del suo Paese”…). L’inserto s’intitolava Russia oggi (poi cambiato in Russia beyond headlines), era curato da Rossjiskaja Gazeta e faceva capo al personale amministrativo di Repubblica: a quel “ceto di impiegati” cioè che Merlo attribuisce all’Anpi. Un’ultima perla, a conclusione dell’articolo, merita di essere citata, è dove, dopo aver affermato che “in nessun altro paese d’Europa la disinformazione russa sta trovando così tanti utili idioti” (sic) si invita Enrico Letta a far pulizia dei troppi “negazionisti” (di cosa?) che occuperebbero indebitamente la “casa della sinistra” (come se quella fosse un immobile privato e Letta il proprietario): “Ha la statura morale per cacciarli via dalla sinistra come furono cacciati i mercanti dal tempio”, conclude il Merlo parlante. Ed è come se avesse parlato Zarathustra.

Ma restiamo ancora un momento sul PD. Il PD di questo secondo Enrico, così diverso dal primo. Anche il suo percorso è esemplare di quel rovesciamento in un doppio opposto eppure congruente. Come ha potuto un partito, erede sia pur lontano di una cultura che della pace aveva fatto un valore fondante del vivere civile, farsi di colpo “partito della guerra”? Capofila della politica di riarmo massiccio con i miliardi sottratti a welfare, sanità e sostegno a famiglie e imprese a favore dei buoni affari di quanti delle armi e del loro fiorente mercato hanno fatto il proprio core business. Com’è possibile che sia oggi il principale serbatoio dei guardiani dell’ortodossia bellica, impegnato con maggior zelo e acrimonia a smascherare e marginalizzare le voci non allineate, o anche semplicemente pensose?

Sarà volgare materialismo ma certo la quantità di esponenti del PD che affollano i vertici delle nostre industrie degli armamenti, a cominciare da Finmeccanica e dalla successiva Leonardo, sono tanti. A cominciare da Marco Minniti, che imperversa nei talk show nel contrastare i pacifisti di turno in nome della difesa della democrazia e che ricopre la carica di Presidente di MedOr, la Fondazione promossa da Leonardo. Mentre Luciano Violante – quello della riconciliazione con i “ragazzi di Salò” – presiede la parallela Fondazione Leonardo. E Nicola Latorre guida la Fondazione Aid (Agenzia Industriale Difesa). Niente d’illegale, anzi! Ma un po’ dovrebbe farci pensare…

Quanto a noi, intendo chi vuole resistere a questa progressiva “caduta nella catastrofe” – “moto che si accelera senza che occorra intervenire e che non si riesce né si vuole rallentare” [Caillois] e che riesce persino a utilizzare gli orrori della guerra per favorirne il prolungamento e l’estensione – non ci resta che proclamare il nostro pacifismo, come condizione culturale prima che politica per tenere aperta almeno una piccola porta verso il ritorno alla ragione. Saremo vox clamantis in deserto, ma se quel deserto è lo spirito del tempo attuale, non sarà una testimonianza inutile.

Guido Vitiello, I conflitti e le catastrofi risvegliano ciclicamente il nostro intorpidimento psichico da bambinoni viziati. Ma poi tutto passa e torniamo a sonnecchiare, Il Foglio, 12 marzo 2022

 ... più che una teoria da discutere, la fine della storia mi sembra uno stato d’animo, un’atmosfera spirituale, una Stimmung. Del resto, nel più importante libro sul tema, scritto alla fine degli anni Ottanta, Lutz Niethammer aveva osservato che questa idea dell’esaurimento di ogni orizzonte storico ebbe i suoi picchi di fortuna in due contesti precisi: nel secondo Dopoguerra, tra gli intellettuali di destra delusi dal nazismo in cui avevano riposto le loro speranze (come Arnold Gehlen); e poi negli anni Settanta, tra gli intellettuali di sinistra che avevano visto frustrate le loro aspettative rivoluzionarie (come Jean-François Lyotard). Insomma, un ripiegamento da innamorati delusi, sottilmente risentiti e interiormente impigriti. Ma per quelli di noi, la maggioranza, che non hanno mai avuto il batticuore per il Reich millenario o per la società senza classi, lo stato d’animo post storico è più che altro il frutto mentale di decenni di pace, di relativa sicurezza e di relativo benessere. Non è un cinismo ostentato da amanti disamorati, semmai un intorpidimento psichico da bambinoni viziati. Vogliamo che la storia continui a sonnecchiare, o che al limite vada a far baldoria in continenti molto più lontani. E soprattutto, che Zelensky la smetta di fare tutto quel chiasso: qui c’è gente che dorme. 



 

 

venerdì 8 aprile 2022

Il sentimento eroico della guerra

 


Lev Tolstoj, I racconti di Sebastopoli,

Sebastopoli nell'agosto dell'anno 1855 (1856), traduzione di Enrichetta Carafa Capecelatro, duchessa d'Andria, capitolo XXIII

 

In quel momento, una palla fischiò sulle teste di coloro che stavano discorrendo e cadde a un arscìn di distanza da Mèlnikov che si avvicinava lungo la trincea.
«Per un pelo non ha ucciso Mèlnikov», disse uno.
«Non mi ucciderà», rispose Mèlnikov.
«Eccoti la croce al valore», disse il giovane soldato, che aveva fatto la croce, dandola a Mèlnikov.
«No, fratello, qui, si sa, un mese conta come un anno per tutti, c’è stato un ordine», seguitava il discorso.
«Comunque sia, a pace fatta, ci sarà di sicuro unarivista imperiale a Varsavia, e se non andrò in pensione, avrò un congedo illimitato».
In quel momento una pallottola passò stridendo proprio sulle teste di coloro che chiacchieravano e batté su di una pietra.
«Bada, prima di stasera avrai un congedo definitivo»,
disse uno dei soldati.
Tutti risero.
E non prima di sera, ma di lì a due ore già due di essi avevano avuto il congedo definitivo e cinque erano feriti; ma gli altri scherzavano lo stesso.
Effettivamente, per la mattina i due mortai furono riparati in modo che si poteva tirare. Alle dieci, per ordine ricevuto dal comandante del bastione, Volòdja riunì il suo distaccamento e con quello andò alla
batteria. Fra i soldati, appena si misero all’opera, non ci fu più neppure un briciolo di quel senso di paura che si manifestava il giorno innanzi. Soltanto Vlang non poteva dominarsi: si nascondeva, si chinava come sempre, e Vàsin aveva perduto un po’ della sua calma, si agitava e si abbassava continuamente. Volòdja poi era in uno stato di entusiasmo straordinario: il pericolo non gli passava neppur per la mente. La soddisfazione di fare il proprio dovere, di non sentirsi un vigliacco non solo, ma anche di sentirsi coraggioso, la responsabilità del comando e la presenza di venti uomini che (lo sapeva) guardavano a lui con curiosità, lo avevano fatto diventare addirittura un eroe. Egli aveva anzi la vanità del suo coraggio, faceva il bravo davanti ai soldati, saliva sulla banchina, si sbottonò apposta il cappotto, perché potessero osservarlo meglio. Il comandante del bastione, che intanto faceva l’ispezione del suo possedimento, come diceva, benché da otto mesi fosse abituato a ogni specie di arditezza, non poté fare a meno di ammirare quel grazioso ragazzo, in cappotto sbottonato, di sotto al quale si vedeva una camicia rossa avvolgente un collo bianco e delicato, col viso e gli occhi accesi, che batteva le mani e con la sua vocina acuta comandava: «Uno, due!» e correva allegramente sul parapetto per vedere dove cadeva la sua bomba. Alle undici e mezzo il tiro cessò dalle due parti, e alle dodici in punto cominciò l’assalto della collina di Malachòv, del 2°, del 3° e del 5° bastione.