Marco Di Giovanni
LA FASE DELLA GUERRA DI ATTRITO E LA FUNZIONE DEL TEMPO NELLA STRATEGIA DEL CONFLITTO
Con il ridispiegamento russo nell’est, sud-est dell’Ucraina si è aperta la seconda fase cui la nuova definizione russa degli obiettivi della “OMS” (Operazione militare speciale) non riesce a dare pienamente forma, nel senso che le linee operative stentano ad assumere una direttrice definita, in uno scenario di operazioni diffuse ma prive ancora di penetrazione e profondità.
Una spinta militare estesa su settori diversi, che in parte cerca di allestire un movimento di respiro strategico costruendo i presupposti di un accerchiamento delle unità ucraine in un est vasto (a est del Dnipro), sondando le aree di maggior fragilità con fuoco diffuso e spinte offensive locali. In parte, ancora, le operazioni tengono accesa la minaccia su altri settori, da Kharkiv alla zona di Kherson che oscilla tra testa di ponte verso Odessa e area di resistenza e tenuta rispetto a tentativi controffensivi Ucraini. A legare il tutto una intensificazione delle azioni di fuoco dal cielo e una continuità del martellamento stand-off in profondità, come attacco crescente alla logistica (del pari crescente e decisiva) dei rifornimenti/forniture ucraine. Ma anche come conferma di una minaccia perenne e intimidatoria sulle città centro-occidentali e le popolazioni, appena liberate dall’incubo dell’occupazione. Già agire in questa direzione con l’intensità delle ultime ore, da parte russa, indica alcune urgenze: un segnale politico a chi rifornisce l’Ucraina, con un riconoscimento implicito del peso che tali apporti possono assumere nel conflitto; la conferma della propria capacità militare di intervento di precisione. Ma tale intensità operativa si deve misurare col tempo e con la capacità di durare di un apparato tecnico-industriale che ha rivelato le proprie pesanti arretratezze. Quanto dureranno le risorse russe di qualità? Il tempo, la durata, regna sovrano come determinante.
Del resto, un’altra “guerra di profondità” emerge sullo sfondo, guerra alla logistica sinonimo di guerra dei tempi lunghi (potenzialmente): gli attacchi / incidenti sul suolo russo, in prossimità dei confini orientali ma anche ben oltre questi, ai centri di attività arretrata e ai magazzini che alimentano l’offensiva. Guerra dell’ombra, verosimilmente, che inaugura uno scenario allargato e, per i russi, potenzialmente da incubo in assenza di una vittoria militare decisa e chiara.
E se le linee di rifornimento russe sono arretrate rispetto alla prima fase, riorientandosi verso il settore orientale e integrandosi al reticolo di depositi e comunicazioni in suolo russo, le crescenti capacità di fuoco ucraine graviteranno inevitabilmente e naturalmente in quella direzione.
Guerra di attrito per ora, che risponde anche all’incompiuto ridispiegamento russo e alla ancora claudicante riorganizzazione di molti reparti dopo l’impatto delle perdite della prima fase, da molti segnali risultate devastanti. Pressione che il nuovo comando centralizzato nel settore pretende continua, col contrappasso di rendere senza soste anche l’usura delle unità russe.
Vedremo se questo comporterà, anche in questa nuova fase, un eccesso di dispersione rispetto a un movimento che vorrebbe essere decisivo ma che tutto ci fa vedere come stenti a decollare. Numeri difficili da consolidare ci parlano comunque di un dispiegamento nella più ristretta area sud est di una novantina di nuclei tattici di combattimento. Troppo pochi ancora anche se sostenuti dalla concentrazione dell’azione delle masse di fuoco.
E il resto (ma quanti battaglioni efficienti visto che un terzo degli iniziali 180 sono stati considerati a inizio aprile sostanzialmente declassai o ormai inconsistenti in termini di capacità di combattimento?) dispiegato negli altri settori (certamente poco per puntare, per ora, su Odessa)
Ne emerge una delle questioni nella gestione strategica di questa guerra: a favore di chi gioca il tempo?
La risposta che viene dall’Ucraina e dall’Occidente sembra dire: per noi. La guerra di attrito viene ora vissuta con una accelerazione della fornitura di mezzi militari, l’allestimento delle basi per renderla consistente sul medio periodo (non più eccezionale, come dimostrano i movimenti dell’esecutivo USA verso i fornitori), la creazione di un effettivo coordinamento comune nel supporto alla guerra ucraina (la riunione a Ramstein del 26 di aprile). Un dispiegamento imbarazzante, in prospettiva, dal punto di vista delle capacità industriali, a fronte dell’economia di Putin. L’urgenza – conclamata – è per la rapidità delle forniture ora, per incagliare ancora una volta il dispositivo russo.
Implicitamente almeno si guarda a tempi lunghi, orientati al logoramento strategico delle generali ambizioni revisioniste di Putin. Un allineamento all’andamento del conflitto che non passa nemmeno, come immaginato, temuto e pensato nella prima fase della guerra, attraverso l’alimentazione e il supporto alla guerriglia in un paese occupato. La “resistenza” è in realtà quella di uno Stato ancora perfettamente in piedi con il suo apparato militare allargato all’ampia schiera dei riservisti e al supporto della popolazione anche nelle aree di attrito (cui eventualmente si aggiunge l’azione tellurica in quelle occupate dai russi).
“Indebolire” nella profondità strategica le ambizioni russe visto che l’Ucraina non cederà e, di più, è al momento nelle condizioni di non dover necessariamente accettare un compromesso al ribasso quale trapela dal fraseggio della propaganda russa e filorussa. Piegarsi ad una serie di mutilazioni territoriali nella sua area produttiva più ricca e dello sbocco al Mar d’Azov, inghiottendo l’umiliazione di cessioni – anche di popolazione e di comunità locali - che si accompagnano alla distruzione di ampie sezioni del tessuto produttivo e infrastrutturale e all’impunità di fronte a una estesa e programmata applicazione del terrore criminale sulla popolazione e sul tessuto della vita collettiva. Migliaia di crimini documentabili che resterebbero impuniti sullo sfondo sbiadito della “OMS”, in omaggio alle ragioni “superiori” della forza, che legittima di per sé l’uso predatorio, epurativo e vendicativo della violenza.
Una indipendenza perduta anche per il carico di miseria e distruzione che l’aggressore lascia, ancora impunito, sulle spalle degli sconfitti trasformati, in parte, in profughi, interni o esterni senza futuro. E’ questo il “ragionevole compromesso”, ammesso che si dia, che filtra dalle parole del Cremlino e dei suoi portavoce, scivolando da Lavrov a Caracciolo.
A vederla così non c’è ragione che tenga per gli ucraini per cedere. La distruzione è orribilmente fatta e prosegue senza misericordia e limiti, che non siano quelli imposti dalla tenuta militare del difensore. La guerra è proxy solo nella mente di chi cancella per l’ennesima volta l’identità dei resistenti e le loro ragioni, e reagisce rabbioso al dispiegamento di forze e supporto degli alleati. Certo, difendere l’Ucraina e la sua integrità significa anche azzoppare il progetto imperiale di Putin, ma è Putin ad averlo scatenato nel momento che gli sembrava più propizio, dandogli peraltro rapidamente una forma distruttiva e punitiva, tendenzialmente senza ritorno.
Anche questo – a ben vedere e fuori dalla polemica - viene a far parte pienamente della dimensione strategica. Da un lato confermando il paradigma del tempo che sostiene il resistente che vince se non perde, perché non ha altre speranze e sa per converso di avere nella durata lo strumento per erodere sino all’appassimento le risorse dell’occupante. Dall’altro, mettendo in evidenza il presupposto implicito che segna il passaggio dalla prima alla seconda fase. Almeno per l’Occidente.
La guerra si è rivelata in tutta la sua portata criminale e la sua pericolosità strategica: non solo per la sua voragine distruttiva ed eliminazionista che pone la comunità internazionale di fronte a un prima e a un dopo. Come si potrà “normalmente proseguire” dialogando con i protagonisti dello scempio?
Ma anche per la determinazione russa a perseguire i propri fini, rideclinandoli senza privarli della loro intrinseca minacciosità verso l’ordine internazionale. Dalla trasformazione dell’Ucraina in stato satellite e allineato- fase n. 1 - alla presa di possesso di basi economico-strategiche di proiezione, quale piena conferma di uno status di potenza globale destinato a proporsi nel prossimo futuro in nuove esternazioni. Da questo punto di vista, i ponti col mondo di ieri sembrano tagliati anche su questo versante del conflitto, mentre la sfida dell’impunità per i crimini commessi, dal vertice alla base, segna precocemente un altro passaggio di non ritorno.
Anche la Russia infatti, a ben vedere, sembra accettare la sfida del tempo lungo e ridisegnare il suo fine strategico, esplicitamente senza rinunciare alla sua portata destabilizzante generale.
Transitare dal “semplice” riconoscimento del Donbass russo al controllo del sud ucraino sino alla Crimea e poi dalla regione di Odessa alla Transnistria non è una boutade, anche se la immediata risonanza intimidatoria è parte consapevole e perseguita del messaggio di Putin.
Certo il 9 maggio non avremo una sfilata a Odessa e verosimilmente nemmeno una a Mariupol, ma questa dichiarazione esprime chiaramente che il progetto mantiene la sua ambizione e non si ritira dal tavolo ma è disponibile a misurarsi col tempo. Comunica ciò che iniziava a trasparire sin dai primi di aprile, almeno sul terreno delle “sfide”, e anche i provvedimenti economici e le prime strozzature alle forniture di gas vanno in questa direzione, addirittura anticipando un possibile embargo da parte dell’Occidente.
Disegnando a questo punto lo scontro come un confronto con la NATO e la sua – indiretta e proxy-costruita – aggressività, Mosca inizia a fissare lo scenario per una prossima chiamata alla mobilitazione interna che sappia declinare anche le inevitabili difficoltà economiche dell’immediato futuro in una forma compatibile, col compattamento patriottico, alla tenuta del sistema putiniano.
Finalmente, allora, una GUERRA nominata come tale, “subita” questa volta da aggrediti e tale da “chiamare” il popolo alla mobilitazione patriottica nel segno della tradizione e dell’anima russa accerchiata dall’Occidente.
La crescente polemica sulle forniture di armi segnala allora tanto la emergente consapevolezza dei vertici del Cremlino che anche la guerra-tritasassi a base di fuoco distruttivo non garantirà un successo rapido, quanto ambisce a porre le basi politiche e strategiche per fare del tempo lungo l’arma per non perdere l’iniziativa, partendo intanto dalla mobilitazione interna contro l’aggressione che diventa, su basi rinnovate, il tema chiave della narrazione. Alla denazificazione potrà felicemente saldarsi una nuova incarnazione della “Grande guerra patriottica”.
I vertici militari di Mosca devono velocemente prendere atto che l’escalation degli aiuti occidentali è appena partita e non promette bene. I suoi “contenuti” operativi si stanno rapidamente dilatando al di là delle pur decisive dimensioni dell’interdizione e dell’intercettazione. Alla capacità di fuoco diffusa, micidiali equipaggiamenti leggeri, che viene potenziata da nuovi dispositivi, si aggiungono strumenti di controfuoco e repressione diretta potenzialmente micidiali se declinati su un campo di battaglia digitale. Quello che i russi non hanno dimostrato di avere e che l’Occidente fornisce ai resistenti.
Non si può escludere in assoluto oggi che la spinta operativa delle prossime settimane nel sud-est arrivi a fissare un punto di arrivo compatibile con un’idea russa di “successo” ma quanto emerge – anche in termini di valutazione delle reciproche determinazioni politiche - sembra andare in una direzione diversa. L’Occidente guarda alla durata e il Cremlino accetta la sfida rilanciando.
Subire il colpo politico di una NATO che si allarga a Svezia e Finlandia fissa allora un altro schiaffo, ma anche una conferma della natura ultimativa del passaggio intrapreso, che accentua la determinazione a perseguire un risultato militare, che richiede un salto di qualità.
Per i russi allora, i “numeri” andranno necessariamente rivisti e questo non potrà farsi se non con uno sforzo quantomeno doloroso e prolungato nel tempo. “Mobilitare” dovrà significare proporre nella realtà parte cospicua di quel dispositivo militare imponente che dalla carta non si è trasferito sul campo. Armare, sia pure con strumenti meno sofisticati di quelli occidentali, e soprattutto addestrare e portare sul campo almeno il doppio dei reparti schierati originariamente, altre 200 unità di battaglione, richiederà molti indispensabili mesi, contando nel frattempo sulla compattezza interna e sulle divisioni altrui. I “mercenari”, tipico strumento “coloniale” della guerra intrapresa dai russi, non saranno sufficienti.
Accettare il tempo lungo e proiettarsi verso la mobilitazione diventa così, naturalmente, un rischio, ma anche uno strumento per misurare, per una seconda volta dopo il colpo di mano tentato all’inizio, la possibilità che uno scenario complesso, costoso e di lunga durata possa aprire dei varchi nel fronte opposto, far emergere le differenziate debolezze dell’Occidente e in particolare dell’Europa.
Nel leggere le reciproche fragilità e il rapporto che queste instaurano col tempo, l’ideologia può diventare sovrana e quella di Putin ha già sbagliato una volta, a proposito dell’inesistenza dell’Ucraina. Non recede però, sembra, dalla convinzione intorno alla sostanziale compiutezza del crollo dell’Occidente e in particolare dell’Europa. Giocherà le sue armi, anche nella narrativa e nella minaccia, su questo. Già altri avevano scommesso sulla decadenza delle democrazie, e anche Hitler e Mussolini si erano trovati di fronte a una guerra che “non voleva finire” (pur a fronte dei grandi successi iniziali della Germania nazista). Il tempo sarà galantuomo?
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