Come ogni vicenda umana, la Resistenza è per taluni aspetti un fenomeno singolare e irripetibile, per altri aspetti un momento esemplare di lotta per la libertà. La vicenda non ha in quanto tale una versione unica e obbligata. Anche limitandosi al campo antifascista, ne esistono varie narrazioni documentate, da Roberto Battaglia a Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, passando per Giorgio Bocca, Gianni Oliva e Santo Peli. Da ultimo la Resistenza è diventato un argomento coinvolto nella disputa sulla guerra in Ucraina. Angelo d'Orsi è stato, come spesso gli accade, perentorio: nulla a che vedere, la Resistenza italiana non ha nulla a che vedere con ciò che ora accade in Ucraina. Lo storico torinese ha parlato come se l'argomento fosse affar suo e lui rappresentasse il sapere assoluto in materia. Di fatto, lo stesso argomento può essere affrontato in vari modi, come dimostrano gli altri testi citati qui sotto. Giovanni Cominelli arriva a mettere in luce l'aspetto di lotta per la libertà. Marco Di Giovanni guarda alla Resistenza italiana come alla forma locale di una più vasta tendenza europea. Angelo D'Orsi invece, preferisce a sua volta insistere sulla specificità del fenomeno nazionale e locale italiano. Così ha fatto in definitiva anche il suo conterraneo Giovanni De Luna, per non parlare di un personaggio che storico non è, ma politico di professione, Gianfranco Pagliarulo. Si dà il caso che la storiografia non sia un dominio popolato di angeli al servizio della interpretazione corretta. La storiografia militante come quella praticata da D'Orsi vede all'opera numerosi diavoletti pronti a trasformare una opinione politica in una tesi scientifica. Operazione legittima per carità. Operazione che comporta un prezzo: la perdita dell'innocenza. Guarda dove ti vai a collocare e ti dirò chi sei. Questo mi sembra di poter dire. (Giovanni Carpinelli)
Angelo d'Orsi
"Una follia paragonare la resistenza dei partigiani con quella degli ucraini".
Giovanni Cominelli
... ovviamente, le differenze tra la Resistenza italiana e quella iniziata
il 24 febbraio dagli Ucraini contro l’invasore russo sono rilevanti.
Anche quella ucraina è guerra nazionale; ma nel senso che è la
resistenza di un intero Paese: un popolo di 40 milioni di abitanti, un
esercito di 230 mila soldati. La Resistenza italiana fu condotta solo da
una consistente minoranza di civili e militari. Noi fummo prima alleati
dei nazisti e poi da loro sanguinosamente invasi; l’Ucraina è stata
invasa dai post-comunisti. Quanto alla “guerra civile”, è in corso nel
Donbass in Ucraina da più di sette anni, ha prodotto circa 14 mila
morti, alimentata dai Russi e condotta da militari russi camuffati, da
mercenari privati, e finanziata da oligarchi e mafiosi locali del
Donbass. Non si vedono tracce di guerra di classe. Di sicuro gli Ucraini
non vogliono “fare come in Russia” come invece desideravano settori
delle Brigate Garibaldi. Ma, oltre le differenze, vi è un nucleo
identico tra le due Resistenze: la moralità. Essa consiste nel
combattere per la libertà e le libertà, cioè per un modello di società e
di Stato di diritto, nella quale siano riconosciuti e realizzati i
diritti fondamentali della persona umana, la separazione liberale dei
poteri, il pluralismo politico e culturale, le elezioni libere da
brogli. In una parola: si battono per la libertà umana, il valore
fondante, l’eguaglianza, la fraternità. Ed è per questo che difendono la
sovranità dello Stato sul proprio territorio: perché lo Stato sovrano è
garanzia giuridica delle libertà. La Resistenza contro eserciti armati è
necessariamente armata ed è perciò anche mortale. Di quella italiana
l’ANPI ha fornito i tragici numeri: 44.700 caduti, tra cui qualche
migliaio di donne. Vi si devono aggiungere i 40 mila militari caduti,
che volsero il fucile contro gli ex-alleati tedeschi, e altri 40 mila
militari internati che morirono nei Lager tedeschi. Almeno 10 mila i
morti civili nelle rappresaglie. La posta in gioco di quelle vite
perdute, il cui ricordo è scolpito sulle molte lapidi dei muri delle
città del Nord, fu la libertà.
Marco Di Giovanni
Henri Michel, nella sua basilare ricostruzione complessiva della parabola europea della Resistenza, La guerra dell'ombra, richiamava un orizzonte buio e disperato tra l’estate e l’autunno del 1940, quando le prime forme di opposizione si alimentavano anche della “rivincita dell’umorismo” di fronte ai primi inciampi degli occupanti nazisti, dominatori del continente ed apparentemente invincibili. Come l’anziana donna ucraina che, nel nostro inizio di marzo, regalava i semi di zucca al russo invasore o quella, autentica incarnazione delle “leggende di guerra”, che regalava agli affamati occupanti una torta farcita al veleno…. Cronache del nostro presente ucraino.
La dignità degli sconfitti prevaleva ancora sulla speranza, linfa vitale difficile da alimentare in quel tempo, se non aggrappandosi alle parole di Churchill sulla resistenza dell’Impero siano ai suoi più estremi confini, o ai coraggiosi appelli di un ancor giovane generale di brigata della Francia sconfitta, Charles De Gaulle, da Radio Londra. Nessuna certezza e disponibilità al sacrificio, queste la basi da cui partiva la strada della Resistenza in Europa, capace anche di proporsi e diventare “europea”.
Gli aiuti sarebbero arrivati più tardi, intrecciandosi con la speranza legata all’allargamento della guerra e ai fallimenti dell’Asse, che avrebbero collocato le Resistenze entro uno scenario militare e politico più promettente. La luce si proponeva lentamente e non sempre continua, mescolandosi alle molte disperazioni della guerra. Nessuna via facile e segnata per una lunga fase, e in un immenso mare grigio. La scelta, secondo la formula di Claudio Pavone, restava un rischio, anche sul piano etico, e insieme un imperativo i cui riferimenti potevano essere diversi e intrecciati ma tutti profondamente vissuti: la patria, la classe, la dignità umana vissuta come ultimo appiglio contro la volontà di distruzione e un dominio maligno e devastatore: allora come oggi.
In molte circostanze la Resistenza, che parte dalla risposta all’invasione, scopre la sua base valoriale – in senso molto lato “ideologica – anche, semplicemente, in chiave oppositiva:
rifiutare il modello politico imposto dall’invasore che occupa, distrugge, letteralmente destruttura anche alla luce di una sua visione politico-ideologica.
E’ proprio questo il caso Ucraino, di fronte a un’aggressione di sapore tragicamente antico – novecentesca e brutalmente impositiva, orientata a sanare le ferite del XX secolo nella storia russa a partire da un modello imperiale e identitario ancora più antico: imponendo la sua presa coloniale.
E come sempre la Resistenza si alimenta della brutale violenza dell’occupante che oggi torniamo a vedere gestire i territori secondo modelli epurativi che scivolano ed “escalano”, tragicamente trasformando la pratica della mattanza seriale dei soggetti individuati come pericolosi, (la classe dirigente sui territori, i sindaci protagonisti di questa guerra di autoprotezione delle comunità sul terreno) in quella di un massacro vendicativo e discrezionale.
Una violenza propriamente “coloniale” che combina predazione sistemica su larga scala e rapina spicciola, spostamento in massa della popolazione e pratica individuale (ma potenzialmente sistematica) dello stupro.
E’ una violenza che non lascia vita nel domani di chi si arrendesse, e i resistenti, ieri come oggi, lo sanno. Oggi una guerra “sporca” e appunto dai tratti coloniali, senza la reciprocità di una guerra civile, come vorrebbero le velenose formule di chi allude all’equiparazione delle derive della violenza.
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