Poche ore dopo l’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina avevo provato a delineare una serie di step, in progressione, dei processi distruttivi attivati da una guerra dalle fortissime connotazioni ideologiche.
La resistenza Ucraina ha amplificato una serie di aspetti nella fenomenologia della violenza che si presenta sul terreno e che deve e può essere colta per capire e interpretare la natura della guerra. La inorridita prospettiva delle vittime, per le quali ogni strage rappresenta soggettivamente e inevitabilmente un momento assoluto e unico, perché dissolve il percorso individuale e comunitario della vita e cancella l’umanità dei morti, non ci aiuta a raggiungere piena cognizione dei problemi e a identificare i processi. Le guerre non sono tutte uguali tra loro, e la violenza sui civili e le sue forme rappresentano un elemento indicativo e una cartina al tornasole. Non ha senso, sul piano interpretativo, paragonare l’Ucraina e lo Yemen perché “tutte le guerre sono brutte” e intrinsecamente criminali in una prospettiva candidamente “pacifista”. Gli storici sanno che accogliere e comprendere il valore della testimonianza delle vittime non impone una riduzione dello spettro interpretativo al loro punto di vista.
Ci aspettavamo, una volta insediato un potere russo sui territori, una serie di processi epurativi mirati a decapitare il tessuto della resistenza, anche di quella “civile” e di testimonianza. Questa è anche la guerra dei sindaci, che vediamo ovunque alla guida delle forme di autodifesa delle comunità, e che puntualmente gli invasori prendono di mira per paralizzare il tessuto collettivo e le sue capacità di opporsi all’occupazione.
E’ un processo che riscontriamo con particolare frequenza nel sud del paese, e ci indica quali siano i territori in cui la Russia intende insediare in maniera permanente il suo potere.
Lo scenario operativo attuale apre però la strada ad altre forme dei processi distruttivi. Il ridimensionamento delle ambizioni russe e la ritirata, a volte precipitosa, da alcune aree, lasciano dietro di sé una eloquente striscia di sangue che oltrepassa e completa le dinamiche epurative.
Chi ha consuetudine con le stragi naziste in Italia, in particolare tra il 1943 e il 1944, ha presente la dinamica della “ritirata aggressiva” (Lutz Kinkhammer) che mescolava una politica di terra bruciata e di predazione a una pratica estesa da parte delle truppe della violenza punitiva e indiscriminata sulla popolazione, in quanto componente centrale di un ambiente ostile. La frustrazione combattentistica di chi esce sconfitto dal terreno si traduce in vendetta che, a questo punto, si dispiega “dal basso”, dalle pratiche “minori” degli uomini in ritirata, che replicano sul terreno l’overkilling sistematico, l’uso dei civili come ostaggi e come oggetto di punizione, che l’attacco ai centri urbani con un fuoco in larga parte indiscriminato ha proposto nella prospettiva dall’alto, quella dei comandi e della direzione politica della guerra.
La carica ideologica della guerra di Putin può a questo punto pienamente dispiegarsi e diventare mera punizione distruttiva verso un paese che non si piega. Su queste pratiche non può operare la mediazione delle trattative, e la vendetta e la cancellazione del tessuto economico implicano la visione di un futuro di impunità per l’aggressore e di miseria e dipendenza per quel che resterà di un vicino scomodo. Sono certo che il tessuto informativo disponibile, a partire dall’intelligence per arrivare alle testimonianze dei sopravvissuti, già consentono e consentiranno, di stilare una lunga lista di attori criminali affiancando i responsabili sul terreno ai vertici della catena di comando.
Ma come potrà convivere la comunità internazionale con tutto questo vedere e tutto questo sapere, senza giustizia?
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