Valerio Marchi
La sindrome di Andy Capp cultura di strada e conflitto giovanile, NdA press 2004
Stretto tra i palazzi che si allungano fino a sbirciare nel terreno
di gioco, con la sua forma squadrata e gli spalti schiacciati sul campo,
lo stadio Marassi di Genova manifesta nella sua dislocazione e nella
sua struttura la propria natura esplicitamente cittadina e
monodisciplinare, da indiscussa cattedrale dell'antica e nobile
tradizione calcistica genovese.
A Marassi, come in tutti gli altri stadi dedicati unicamente al
calcio, per dieci mesi su dodici va in scena il medesimo spettacolo:
niente meeting di atletica, niente concerti rock o pop, ma solo e
soltanto il conflitto ludico-simbolico tra contrapposte comunità.
Correndo indietro nei secoli, oltre quel processo di regolamentazione
che si sviluppa in Gran Bretagna nel corso dello scorso secolo, oltre
le suddivisioni artificiose tra "soccer" e "rugby" e "football", tra
palla tonda e palla ovale, tra uso dei piedi e uso delle mani, troviamo
infatti alla base di questi sport moderni un gioco altomedievale in cui
la figura dell'attore coincide con quella dello spettatore e, ancora
oltre, con buona parte dei maschi adulti in ogni singola comunità, che
troviamo ben rappresentato nell'"hurling over the country"
dell'Inghilterra del XIV secolo.
Queste sfide tra comunità - che possono essere rappresentate da paesi
differenti, ma anche da altre forme di aggregazione, quali gli scapoli
contro gli ammogliati dello stesso paese, come avveniva nella cittadina
britannica di Scone - si svolgono di solito nelle ricorrenze religiose o
comunitarie e si caratterizzano per l'assenza di regole certe e
uniformi sulla durata dell'incontro [che può raggiungere anche le 72
ore], sul perimetro di gioco [che spesso coinvolge l'intero territorio],
sul numero dei partecipanti [trenta, cinquanta o più giocatori per
parte], per il livello di violenza e il "tutto è permesso" che regola
gli scontri in campo. L'agone assume, anzi, caratteristiche tali da
essere considerato dalle autorità una vera forma di teppismo, un'aperta
manifestazione di quell'aggressività e sfrenatezza popolare cui si vuol
porre un freno attraverso la civilizzazione forzata dei costumi, oltre
che una forte distrazione dal gioco marziale del tiro con l'arco. Da un
lato la violenza incontrollata del calcio, dunque; dall'altro la
tensione calibrata, fredda e funzionale [alla guerra] del tiro con
l'arco: nelle scelte delle autorità, che giungeranno nel 1314 a porre
fuorilegge l'"hurling over the country", si possono scorgere i primi
segnali di quel processo di coartazione culturale delle classi
subalterne, e più generalmente dei giovani d'ogni classe e ceto, che
segnerà i secoli successivi e di cui la creazione del concetto di
"sport" sarà parte integrante [Elias-Dunning, 1989].
Guerra o competizione?
La storia del calcio, dal XIV secolo ad oggi, coincide dunque con la
storia della sua rielaborazione da conflitto simbolico tra comunità a
competizione sportiva tra atleti, della sua progressiva regolamentazione
secondo i dettami del nuovo ordine che, a partire soprattutto dalla
seconda metà del XVIII secolo, verrà posto in opera prima contro le
turbolenze dei giovani delle classi superiori e quindi, con
l'allargamento del tempo libero e la trasformazione dei mezzi di
produzione, contro quelle - ben più gravi - delle classi subalterne e
delle loro "barbare e sfrenate" fasce giovanili.
Al momento della nascita del calcio modernamente inteso [Londra 26
ottobre 1863: fondazione della Football Association] troviamo infatti
una situazione perfettamente regolamentata, almeno per quel che avviene
in campo. Differente è la situazione sugli spalti, ove le due
contrapposte comunità che di volta in volta formano il pubblico - di
matrice prevalentemente "working class" - continuano a essere pervase
dallo spirito originario dell'"hurling", partecipando attivamente
all'incontro nelle forme spesso turbolente della tradizione contadina e
operaia.
Tra il 1895 e il 1915 la Football Association assume 117
provvedimenti disciplinari contro squadre i cui sostenitori si sono
macchiati di "disordini o comportamenti scorretti", tra cui risse,
attacchi contro arbitri e giocatori della squadra avversaria, atti di
vandalismo contro impianti sportivi e mezzi di trasporto. A volte le
turbolenze sono tali da trasformarsi in scontri di piazza: dopo il match
tra Greenock Morton e Port Glasgow: città paralizzata per molte ore,
negozianti barricati nelle botteghe, diciannnove poliziotti all'ospedale
e nove tifosi in galera [Durining- Murphy- Williams 1988].
Anche fuori dalla Gran Bretagna - in Italia, per esempio - si inizia
ad assistere, nel XX secolo, ai primi casi di turbolenza calcistica:
risse [Genoa-Andrea Doria, 1902], invasioni di campo [Juventus-Genoa,
1905], sassaiole contro l'abitro e intervento dei carabinieri [Andrea
Doria-Internazionale, 1912], incidenti fuori dagli stadi [Milan-Andrea
Doria, 1913; Lazio-Juventus Roma e Internazionale-Casale, 1914], colpi
di pistola tra tifosi [Spes Livorno- Pisa sporting club, 1914].
Le due guerre mondiali, con tutto quello che avviene tra l'una e
l'altra, sembrano modificare di poco l'approccio del pubblico al calcio,
che è nel frattempo diventato un vero e proprio spettacolo di massa.
Negli anni Cinquanta troviamo, sul fronte delle turbolenze, una
situazione per molti versi simile a quella di quarant'anni prima: in
Gran Bretagna, come in Italia e nel resto dell'Europa calcistica, si
registrano scontri tra tifoserie e con le forze dell'ordine, invasioni
di campo, aggressioni ad arbitri e giocatori. In Inghilterra la Football
Association registra 238 incidenti tra il 1946 e 1959, mentre in Italia
si assiste a una escalation che, a partire dalla metà degli anni
Cinquanta, assume anche forme fino ad allora inedite quali le sassaiole
contro i pullman delle squadre avversarie e le aggressioni contro
giornalisti e dirigenti presenti in tribuna.
Gli anni cinquanta
In questi episodi di turbolenza, si registrano atti e comportamenti
che ritroveremo, con le dovute differenze, nel movimento ultrà: eppure,
nonostante l'oggettiva gravità di molti episodi, la violenza legata al
calcio non viene ancora considerata un'emergenza sociale né viene
riservato al tifoso il ruolo di Folk devil, come avverrà con gli ultràs.
Per comprendere compiutamente questo diverso approccio delle autorità
e del sistema dei media alla questione della violenza calcistica si
deve infatti tener conto non soltanto dell'aumento quantitativo e
qualitativo degli incidenti che accompagna la nascita e l'elspansione
del movimento ultrà, ma soprattutto delle differenti peculiarità
conflittuali del "tifoso turbolento" e dell'ultrà.
Diversamente da quel che avverrà a partire da dieci anni più tardi,
le violenze che animano gli stadi d'Europa fino agli anni Cinquanta
sembrano raccordarsi soprattutto alla sfera comportamentale del gioco
originario e, ancora oltre, alle tradizionali turbolenze ritualizzate
delle classi subalterne preindustriali [dal carnevale alle feste del
Misrule] delle campagne inglesi del XVII e XVIII secolo [Gillis 1981],
valvole di sfogo attraverso cui la conflittualità popolare veniva
incanalata e resa innocua.
Allo stesso modo, in un periodo - quale l'Italia degli anni Cinquanta
- in cui ogni forma di dissenso o di conflittualità politica viene
violentemente contrastata, la turbolenza dei tifosi di calcio è sì
combattuta, ma non genera sindromi ansiose: il conflitto sociale -
quello "vero", che terrorizza l'establishment - passa ancora altrove,
attraverso le lotte contadine e operaie e le loro organizzazioni
politiche e sindacali.
Eppure, qualche piccolo segnale di mutamento nella "weltanschauung"
collettiva del tifoso si coglie già in questi anni Cinquanta, quando per
esempio diminuiscono gli scontri tra tifoserie avverse e aumentano a
dismisura le violenze contro arbitri e dirigenti; in qualche modo,
contro le "istituzioni" dell'ormai affermato "show-biz" calcistico.
Primi, vaghi segnali di nuove forme conflittuali che, pur restando
nell'ambito del calcio, riusciranno, a partire dagli anni Sessanta, a
esprimere valenze più generali fino a conformarsi in una vera e propria
cultura antagonista.
L'Upton Park è lo storico stadio della squadra east-ender del West
Ham United; ma, soprattutto, è uno dei luoghi che ha visto nascere e
svilupparsi, verso la fine degli anni Sessanta, una cultura antagonista
destinata a oltrepassare la Manica e a diffondersi velocemente in tutti
gli stadi d'Europa: quella degli hooligan calcistici.
L'attuale hooliganismo nasce infatti nel corso del campionato inglese
1967 - 1968, quando "Alleanze ad hoc tra gruppi di adolescenti e di
ragazzi dei quartieri e delle periferie operaie iniziarono a rivendicare
le curve dei campi di calcio come territori propri e, in modo più
preordinato di prima, a escludere da queste zone sia gli spettatori più
anziani che i giovani sostenitori di squadre avversarie"
[Dunning-Murphy-Williams 1998].
Il controllo del territorio
Questo senso aggressivo del territorio è secondo le tesi della scuola
sociologica di Leicester, frutto di fattori prettamente socioculturali:
questi giovani "provengono dagli strati più bassi della classe operaia,
vivono una comune condizione di disagio e marginalità sociale e
riproducono nei gruppi hooligan l'appartenenza al proprio quartiere o al
proprio rione. Il loro comportamento violento si spiega col fatto che
hanno fatto proprio lo stile maschile violento tipico della cultura di
vita dello strato operaio da cui provengono" [Roversi 1992].
Basta, del resto, attraversare le zone del North Bank londinese più
periferico, conoscerne la lunga storia di disoccupazione e di isolamento
politico-culturale, per comprendere i motivi dell'altissimo livello di
conflittualità sociale che gli "hools" inglesi hanno manifestato fin
dagli esordi e che, perpetuandosi [pur se in termini spesso differenti]
nel tempo e in ogni possibile contesto europeo, hanno reso questa
cultura una delle più attrezzate agenzie di conflitto sorte negli ultimi
venti o trent'anni, in grado di interpretare - e a volte di anticipare -
dinamiche sociali ben più vaste e articolate. Nei suoi trent'anni di
vita, il movimento ultrà ha in breve dimostrato di essere una perfetta
cartina di tornasole delle tendenze comportamentali in atto nella
società, ponendosi come un inevitabile banco di prova per chiunque
intenda affrontare quella che viene definita - con una certa dose di
approssimazione e d'ipocrisia - la "questione giovanile".
Rispecchiando alla perfezione il superamento del dato anagrafico
nell'ambito delle sfere sociocomportamentali tradizionalmente
riconducibili ai "modelli giovanili", la cultura ultrà supera infatti
ogni limitazione per andare a coprire una vasta fascia d'età, dalla
prima adolescenza [dodici-tredici anni] alla piena maturità [quaranta e
oltre]. Parlare degli ultrà non significa dunque parlare automaticamente
di "giovani", pur se il movimento è composto prevalentemente da ragazzi
e da ragazze.
La caratteristica principale di questa cultura non è il dato
anagrafico - non si è alla presenza del tipico "peers group" - ma quello
comportamentale: da Mosca a Lisbona, da Atene a Glasgow, l'ultrà trova
un comune denominatore non nell'età, ma nel senso di contrapposizione
verso ogni forma di autorità costituita [da quelle sportive a quelle
politico-istituzionali]. Unico, vero collante di un movimento, per altri
versi frammentato, è il rifiuto di ogni forma di controllo da parte di
altri, dalle società sportive [da cui la contrapposizione con i club
riconosciuti e coordinati dalle società stesse] alle forze di polizia
[considerate una "tribù avversaria"].
Una seconda caratteristica comune a tutto il movimento è
rappresentata dai forti sentimenti comunitari che lo animano e che si
manifestano soprattutto nelle valenze assegnate alla curva: da semplice
contenitore di spettatori a luogo sacro e inviolabile, da difendere
contro ogni possibile invasione di tifosi avversari [il "take an end" di
britannica memoria] o dagli sconfinamenti della "blue line gang"
[ovvero, nello slang dei ghetti di Los Angeles, l'unica gang
metropolitana dotata di lampeggiatori azzurri], in cui atteggiamenti e
comportamenti vengono regolati da leggi proprie.
Nella cultura ultrà il senso conflittuale si coniuga con questa
visione dei rapporti di curva: il movimento si autorappresenta come una
serie di comunità che si aggregano intorno a un ideale - la squadra - e a
un territorio liberato, portatrici di una necessità di aggregazione che
si manifesta non soltanto all'interno del gruppo, ma anche attraverso
una rete di amicizie che va oltre la comunità di appartenenza. Nel
movimento, questo duplice atteggiamento diviene esplicito nei rapporti
tra differenti tifoserie, nella capacità di creare rapporti con "gli
altri" in positivo e in negativo; nei gemellaggi come nelle rivalità.
La sindrome del beduino
Nonostante l'ambivalenza insita in questo comportamento, che viene
definito di "sindrome del beduino" [Harrison 1974], la cultura ultrà è
invece tradizionalmente associata soprattutto al meccanismo
dell'amico-nemico, alla percezione dell'altro come presenza
inevitabilmente ostile. Come sempre avviene nel rapporto tra cultura
dominante e sottoculture, anche in questo caso un atteggiamento insito
nel nostro modello di sviluppo culturale e sociopolitico viene dunque
"scaricato" sul Folk devil di turno [Marchi 1994]: a essere
profondamente intriso di xenofobia non è specificatamente il movimento
ultrà, ma il nostro modello sociale nella sua interezza, soprattutto
istituzionale; e la curva rende semplicemente [e ingenuamente] più
esplicito, più grossolanamente "visibile" quel che nelle istituzioni e
nella cultura dominante è tanto più grave quanto più sfumato.
Nelle proprie caratteristiche principali, la cultura ultrà si
manifesta, insomma, come un movimento di resistenza contro due processi
sociali: quello del progressivo controllo politico dei comportamenti e
quello di mercificazione del football, inteso non come puro gioco ma
come luogo sociale in cui si concentrano interessi e conflitti di natura
sia economica che culturale.
In questo contesto, risulta evidente come l'interazione tra l'agire
sociale e l'agire "di curva" finisca per rappresentare un rapporto di
scambio politico bidirezionale, basti pensare alla contaminazione tra i
linguaggi delle curve e quelli, ad esempio, dei cortei.
Specialmente in Italia, per le caratteristiche che il movimento
assume, si registra una forte interazione tra curva e dinamiche
sociopolitiche. Il gruppo ultrà nasce, infatti, appropriandosi delle
forme organizzative e dei linguaggi dei modelli politici antagonisti dei
primi anni Settanta. Per Antonio Roversi sono tre gli elementi che
contribuiscono alla nascita del fenomeno: "Autonomia dalla tutela
paterna, modelli para-politici di coesione del gruppo, assimilazione per
via imitativa delle forme inedite di tipo hooligan" [Roversi 1992], e
con essi di inconsapevole ma esplicita capacità di interpretare e
rielaborare, in forme simboliche, la conflittualità sociale.
Nato come simulacro, come uno slittamento di scenario nell'ambito dei
conflitti di classe, con la rottura del rapporto tra conflittualità
giovanile e sfera politica maturata a partire dalla fine degli anni
Settanta, il movimento ultrà si ritrova però a sopravvivere al proprio
modello originario. E quel che agli inizi si candidava a essere un
"simulacro simbolico" [Dal Lago 1990] del conflitto politico, si ritrova
a dover interpretare il ruolo di principale, se non unica, agenzia
antagonista di massa.
Considerati da giovani e meno giovani sempre meno adatti, spesso
addirittura mistificanti, i codici della politica lasciano il passo a
nuove forme di conflitto che, confermando le capacità divinatorie delle
sottoculture giovanili, si tingono di quei toni impolitici e a tratti
teppistici che rappresentano da sempre la realtà di strada [Humpries
1995].
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