Anais Ginori
Olivier Roy
Ma non accostate Islam e fascismo sono delinquenti senza ideologie
la Repubblica, 19 febbraio 2015
PARIGI
intervista
«Un concetto che aggiunge confusione e non ci
permette di capire quello che sta accadendo». A Olivier Roy il termine
“islamo-fascismo”, utilizzato qualche giorno fa da Manuel Valls, non
piace. L’espressione, spesso citata da esponenti di destra, è stata
adottata a sorpresa dal premier socialista per parlare della lotta
contro le derive fondamentaliste. «È un termine vuoto, che serve per
attirare l’attenzione dei media, ma non contiene nessuna analisi
politica», spiega lo specialista francese d’Islam, professore
all’Istituto universitario europeo di Firenze e autore del saggio su
nuove religioni e fondamentalismi moderni Santa Ignoranza e di un
dialogo sull’Oriente uscito di recente in Francia, En quête de l’Orient
perdu.
Il paragone storico con il fascismo è fuorviante?
«Valls dovrebbe riuscire a dimostrare che c’è un legame tra Al Baghdadi e
Mussolini. Mi pare difficile. Siamo seri, dobbiamo cercare di essere
per quanto possibile rigorosi nelle definizioni. Il fascismo voleva
costruire uno Stato, delle istituzioni, aveva una visione della società,
per quanto discutibile, c’era un culto del Capo, un forte nazionalismo,
un concetto di razza. Tutte cose che mancano all’Is. Mi disturba anche
l’accostamento tra fascismo e Islam».
Perché?
«Nell’Islam politico non ci sono soltanto tendenze radicali. Ci sono
certo partiti e gruppi conservatori, ma ancorati alla legalità, alle
istituzioni. Anche in Europa i cosiddetti terroristi islamici sono
spesso delinquenti, marginali; non hanno davvero una connessione
profonda con l’Islam».
Non è corretto evocare una forma di totalitarismo religioso?
«L’Is non è un totalitarismo. È una dittatura locale e militare. Nel
senso religioso non ha ideologia e si avvicina più che altro a una
setta. Gli unici che hanno fatto dell’estremismo religioso una vera e
propria ideologia sono i Fratelli Musulmani, che sono rivali dell’Is.
Valls sbaglia non solo sull’ideologia, ma anche sui gruppi indicati con
questo termine”.
Il governo francese si rifiuta di parlare di Stato islamico e usa il termine arabo Daesh. È giusto?
«È un approccio intelligente. Parlare di Stato islamico è un modo di
aderire alla propaganda di questo gruppo terroristico. Dopo ogni
attentato, ci rendiamo inconsapevolmente complici della propaganda
dell’Is. E invece non dovremmo mai dimenticarci che l’Is è un movimento
ultraviolento, senza dottrina politica, che regna attraverso il terrore.
Se si vuol fare un paragone, si pensi alle sette millenariste o degli
anarchici di fine Ottocento».
Il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, ha anche chiesto ai
giornalisti di non usare più l’espressione “terroristi islamici” per non
creare confusione con l’Islam. Cosa ne pensa?
«È politicamente corretto, ma non possiamo ignorare che questi gruppi
rivendicano l’appartenenza all’Islam. Di sicuro dobbiamo chiamarli
terroristi e non militanti o combattenti islamici. L’importante è non
commettere l’errore di chiedere a tutti i musulmani di scusarsi per gli
attentati o le violenze dei terroristi, favorendo così la perversa
motivazione dell’Is».
Eppure davanti all’orrore senza fine, che concilia una barbarie
medioevale con la tecnologia del web, è possibile trovare una
definizione?
«Le analogie storiche non funzionano. Ci troviamo davanti a una
situazione nuova e senza precedenti. L’Is veicola un’utopia apocalittica
tipica della nostra epoca. Un’utopia che affascina una gioventù
nichilista anche in Occidente, costruendosi su un eroismo in negativo un
orizzonte suicida. I terroristi di Parigi e Copenaghen non volevano
vivere, si convertono non a una religione ma a una sorta di narrazione
come fossero Supereoi del Male».
Con strumenti di propaganda sofisticati e moderni?
«È più che altro una rappresentazione dentro al nostro tempo. Una
propaganda esibizionistica attraverso l’azione. Non c’è costruzione
ideologica. L’Is offre soltanto un immaginario politico, un mito come
quello del Califfato senza un programma concreto e che può svilupparsi
solo nella violenza permanente».
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