Tante volte Fortini, sia
saggista che poeta, è stato accusato di oscurità (lo prendevamo in
giro, «si spezza ma non si spiega»); e invece qui, in questa
senilità inerme e smarrita, la cosa più commovente è proprio la
semplicità. Non c’è una parola difficile o astrusa, non c’è
una citazione colta, non c’è un’inversione sintattica
latineggiante o preziosa: il testo si presenta indifeso come le
“genti” che non può andare a soccorrere. Mai Fortini ha
raggiunto, parlando d’amore, l’intimità emotiva di questo testo
di delusione e di rabbia. È una resa, ma una resa che sottintende
una resistenza più profonda: gli altri poeti italiani della sua
generazione, da Sereni a Caproni a Bertolucci, di fronte al crollo
delle vecchie categorie si trincerano dietro un grande-stile
lapidario e un po’ mortuario, pronunciano le verità ultime e
sublimi, si astraggono dalla cronaca o la interpretano secondo
sottili equivalenze metaforiche. Lui continua a guardare la cronaca
in faccia, come di lì a poco guarderà la malattia; accetta la
propria miseria e inefficacia ma non smette di testimoniare: questa
volta si spiega, riducendo il proprio armamentario retorico ai minimi
termini, ma non si piega all’idea di una lirica che appartenga solo
a se stessa. Sul rapporto tra impegno e forma, tra Storia e assoluto,
forse i suoi saggi orgogliosi e poco ruffiani, così appassionati
nell’intervento e così poco giornalistici, potrebbero ancora
servire: per “un buon uso delle rovine”, come suona il
sottotitolo di uno dei suoi ultimi libri. (Walter Siti)
FRANCO FORTINI
Lontano lontano…
Lontano lontano si
fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina
mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando quel
dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
Oh povera gente, che triste è la terra!
Non posso giovare,
non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.
non posso partire per cielo o per mare.
E se anche
potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
Potrei sotto il
capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi ?
posare un mio fitto volume di versi ?
Non credo.
Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
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Nella seconda Canzonetta,
il tempo brevissimo degli eventi militari è introdotto da un verso
che ha il sapore di una favola, quasi a voler stilisticamente
riprendere il gioco del ragnetto nel giardino: «Lontano lontano si
fanno la guerra» (v. 1). Il “vecchietto” è distante dagli
eventi, è «il sangue degli altri» (v. 2) che viene sparso. Il suo
sanguinare è invece procurato da un altro elemento, ancora una volta
idillico e campestre, cioè dalla puntura di una spina di rosa. La
comparazione del proprio sangue col sangue altrui porta ad una
ironica riflessione sul ruolo del poeta e dell’intellettuale, che
chiuso nel suo giardino “occidentale” non può né portare aiuto
alle vittime e né parlare, perché la sua parola resta inascoltata.
E se anche potesse far sentire la sua voce, a cosa servirebbero i
versi ? La riflessione ha una brusca torsione verso l’amarezza: si
metta fine alla triste ironia, il sole comincia a scomparire, bisogna
indossare una «maglia» (v. 14) per affrontare l’inverno
del conflitto. (Roberto Talamo)
http://win.ospiteingrato.org/Fortiniana/Canzonette_del_Golfo.html
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