Christian Salmon
Free speech
Se la libertà di parola è ancora in pericolo
L’attentato a “Charlie Hebdo” di un mese fa ha riaperto il dibattito sul diritto a esprimersi senza limiti. Anche sulla religione
Un tema che torna ciclicamente nella storia dell’uomo
la Repubblica, 6 febbraio 2015
L’ATTENTATO contro Charlie Hebdo si iscrive in una lunga storia. Ai suoi albori, il cristianesimo condannava la risata. E c’era chi arrivava a sostenere, come San Giovanni Crisostomo (morto nel 407) che l’ilarità e lo scherzo non venissero da Dio, ma dal diavolo, affermando addirittura che il Cristo non avesse mai riso! In tempi più vicini a noi, il giansenismo e l’invettiva di Rancé «Guai a voi che ridete!» portano il segno di un rigorismo morale non riconducibile all’islam radicale, tutt’altro. Furono spesso i vertici della Chiesa cattolica – e non l’estremismo religioso – a lanciare anatemi ogni qual volta un libro, un film o una mostra si avvicinavano ai territori del sacro. La reazione di papa Francesco non deve sorprendere: quella che ha espresso è la posizione costante della Chiesa cattolica.
Ai tempi del caso Rushdie, monsignor Lustiger, membro dell’Accademia francese, si spinse assai più in là, arrischiandosi ad affermare che «la figura del Cristo e quella di Maometto non appartengono all’immaginario degli artisti…». Monsignor Decourtray, arcivescovo di Lione, stabilì persino un collegamento tra il caso Rushdie e la campagna scatenata alcuni mesi prima contro il film di Scorsese L’ultima tentazione di Cristo , quando scrisse: «Ancora una volta si insultano i credenti nella loro fede. Ieri, in un film che sfigura il volto di Cristo. Oggi è la volta dei musulmani, in un libro sul profeta». E la stessa riprovazione fu espressa dal gran rabbino di Israele, dal Vaticano e da Margaret Thatcher… Eppure l’atteggiamento della Chiesa non è sempre stato così repressivo. Al contrario, nel Medioevo la religione si mostrò di gran lunga più tollerante verso le parodie e le feste carnevalesche. Fin dall’XI secolo tutti gli elementi del culto ufficiale sono oggetto di parodie – la parodia sacra in latino, ma anche in lingua volgare: le preghiere così come i Vangeli, le regole monacali, i decreti della Chiesa e quelli del Concilio, le bolle e i messaggi pontifici, i sermoni… Per le cerimonie della Pasqua la tradizione ammetteva le risate e le facezie licenziose all’interno stesso della Chiesa (il risus paschalis , associato alla rinascita gioiosa). Esisteva anche l’ilarità del Natale. È difficile oggi immaginare quanto fosse estesa la pratica della parodia. A redigere testi e trattati comici non erano solo i chierici, ma anche gli ecclesiastici d’alto bordo e i dotti teologi. Una delle opere più antiche di questa letteratura parodistica, La cena di Cipriano, scritta tra il V e il VII secolo, travestiva le Sacre Scritture in uno spirito carnevalesco, sbeffeggiando tutta la storia sacra nella descrizione di un eccentrico e buffonesco banchetto. Ma è durante il Rinascimento che il riso carnevalesco, a lungo confinato nelle feste popolari, irrompe nella letteratura, dando vita a capolavori immortali quali il Decameron di Boccaccio, le opere di Rabelais, il romanzo di Cervantes o le commedie di Shakespeare. «Nella persona di Rabelais – scrive Bachtin – la parola e
la maschera del buffone medievale, le forme popolari di divertimento
carnevalesco, la foga della basoche (corporazione di chierici e legali, NdT) con le sue idee democratiche, che travestivano e parodiavano tutti i discorsi e i gesti dei saltimbanchi di fiera, si associano al sapere degli umanisti, alla scienza e alle pratiche mediche».
Bachtin ricorda che mentre la prudenza indusse Rabelais a ritirare dai suoi due primi libri, per l’edizione del 1542, tutti gli attacchi contro la Sorbona, «non gli venne neppure in mente di espurgare gli altri pastiche di testi sacri, visto che il diritto e la libertà di ridere erano ancora ben vivi». La compenetrazione tra testi sacri e letteratura profana era tale che la prima traduzione francese della Bibbia, realizzata da Olivétan, porta il segno della lingua e dello stile di Rabelais. D’altra parte, non sempre i critici più severi di Rabelais si reclutavano nella Chiesa. La storia del recepimento della sua opera in Francia ci riserva qualche sorpresa. Nel 1690 La Bruyère emise un giudizio senza appello: «Marot e Rabelais sono imperdonabili per aver seminato immondizia nei loro scritti… Soprattutto Rabelais è incomprensibile: il suo libro è un mostruoso assemblaggio di morale fine e ingegnosa e di lurida corruzione». Lo stesso Voltaire, regolarmente evocato contro l’oscurantismo, rimproverava Rabelais per aver mescolato l’erudizione alla spazzatura e alla noia. Perciò chi si schiera in difesa di Charlie Hebdo richiamandosi ai filosofi dei Lumi dovrebbe pensarci due volte. Sarebbe più convincente Rabelais. E Cervantes! Soprattutto Cervantes, il primo a mostrare come nel momento in cui si cancella la linea evanescente che separa la realtà dalla finzione, la follia e il disordine entrano nel mondo. E difatti, chi è Don Chisciotte, se non colui che si è smarrito da qualche parte, ai confini tra i libri e la realtà, fino a non percepire più chiaramente questa linea di separazione? Tanto che arriverà addirittura a interrompere uno spettacolo di Guignol per passare a fil di spada le marionette di legno, colpevoli di aver trasgredito ai principi della cavalleria! Il motto di Cervantes è la formula popolare, pregna di umorismo e di saggezza, che avrebbe potuto figurare sulla prima pagina di Charlie Hebdo: «Non bisogna confondere!» Per la prima volta, un racconto non pretendeva di fondare una legge né una comunità, ma affermava un’etica del discernimento.
Nel suo libro Lo scherzo, Kundera descrive il totalitarismo come un mondo che tende a cancellare la linea evanescente tra il serio e il faceto; un mondo in cui uno scherzo non fa più ridere, ma può sconvolgere una vita. La burla è un prolungamento della finzione nella vita quotidiana. Grazie alla parodia, al gioco, alla risata, si possono inventare altri rapporti all’interno di una relazione umana, invertire i ruoli, relativizzare il significato che si dà a se stessi. Sappiamo oggi che rendendo impossibile lo scherzo, il totalitarismo annunciava il nostro ingresso in un mondo in cui l’illusione romanzesca è divenuta il bersaglio delle coorti sinistre dell’idea fissa. Questo mondo – il mondo dei media e dei mullah – è caratterizzato dalla confusione tra realtà e finzione, tra sacro e profano, tra il gioco e la fede. È un mondo ove l’etica del discernimento non ha più senso.
Ad essere in gioco, nel dibattito intorno a Charlie Hebdo, è per l’appunto quest’etica. Che non contrappone credenti e non credenti. Perché l’etica del discernimento si esercita nel seno stesso delle religioni del libro (Esegesi canonica, Talmud e Tafsir). E neppure definisce l’Occidente dei Lumi contro un Islam che si pretende oscurantista. La censura rivolta contro gli artigiani dell’immaginario, siano essi disegnatori, scrittori, cineasti, pittori o scultori, non punisce un reato d’opinione (per cui la loro difesa non rientra nella difesa della libertà d’espressione, brandita come un feticcio) ma contro la fiction in quanto tale, il diritto alla letteratura, all’umorismo, alla metamorfosi… E proietta su scala mondiale, attraverso mille distorsioni, confusioni e malintesi, la nuova guerra per il monopolio della narrazione che ha preso possesso del pianeta. In questa guerra, la cui posta in gioco va al di là delle caricature di Charlie Hebdo, l’immaginazione, l’ironia e la poesia sono ostaggi disarmati che cercano di far sentire la loro voce. «L’arte degli uomini – scriveva Mandelstam – avanza come una cavalleria d’insonnie, e là dove si mette a scalpitare non vi può essere che la poesia o la guerra…».
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