Guido Festinese
Demis Roussos, l'estensione naturale del pop
il manifesto, 31 gennaio 2015
Quando
Ulisse, l’eroe greco simbolo dell’astuzia che non voleva vivere come un bruto,
ma seguire «virtute e canoscenza» si fece legare all’albero della nave
per non sentire il canto ammaliante e pericoloso delle sirene, sapeva
quel faceva. Il canto di una sirena ti può portare via, negli abissi
e nella perdita della ragione. E non è detto che tutte le creature
di mare ammalianti siano femmine. Ce ne sono state anche dell’altro sesso.
Pensate a Tim e Jeff Buckley, padre e figlio omaggiati dal dono
mortale di una voce non umana, e portati via troppo presto entrambi
dagli dei invidiosi. Pensate a un altro greco proprio come Ulisse, che
stavolta ha deciso di portarsi via da solo, per un concerto infinito: pensate
a Demis Roussos. Scomparso nella sua Atene domenica scorsa, il giorno
che trionfava Syriza, a un soffio dai settant’anni. Certo, la patina del
facile entertainment, della pop music in salsa ellenica oggi, nel 2015,
molto può oscurare di una carriera svoltasi anche sotto tutt’altri segni. Ma
andrebbe bene anche se Demis Roussos fosse ricordato anche solo come magnifico
pop singer dalla strabiliante estensione, dalla tessitura piena
e sapida, aduso a scalare vette assai ardite come un free climber
delle note tutto istinto animale. Uno scalatore dolce e assai romantico
che, a proprio nome, ha lasciato almeno una cinquantina di dischi, fra
«live», registrazioni in studio, raccolte che cercavano di condensare
una carriera lunga e di gran prestigio, amministrata peraltro con
saggia oculatezza. Però Demis Roussos non è stato solo questo, un pop
singer, ha avuto una storia personale e professionale tanto bella e
(quasi sempre) fortunata quanto complessa, nel suo sviluppo, che merita di
essere ricordata tappa per tappa.
Forse
il paragone più vicino si potrebbe far con certi personaggi delle note leggere
italiane, che affondano le proprie radici nel rock progressivo che fu,
e da lì sono partiti poi per tutt’altre tangenti: come Ron, come Michele
Zarrillo, come una valanga di jazzisti. Demis Roussos rimarrà nel cuore
degli appassionati di prog rock per un disco capolavoro che è impossibile
non rammentare, uno di quei capisaldi del genere che sono invecchiati benissimo
e resistono ad ogni assalto del tempo, come The Dark Side of the Moon dei
Pink Floyd. Il disco è 666, il gruppo in cui cantava Demis Roussos erano
i formidabili Aphrodite’s Child, l’anno il 1971. Da dove arrivava, il
capolavoro di Demis con i suoi Aphrodite’s Child? Da una temperie culturale
tutta, certo, da come spirava lo «zeitgeist», lo spirito del tempo, che era
allora la storia di una musica popular che cercava nuovi spazi, nuove vie
per evadere dalla gabbia del semplice «back beat», ma è bene fare
ancora un balzo indietro. Demis Roussos era nato ad Alessandria d’Egitto il
15 giugno del ’46, da una famiglia lì trasferitasi. Se ne andranno tutti
o quasi in fretta e furia nel ’56, i greci d’Egitto, quando c’è
la crisi di Suez, e Nasser prende il potere. Ricorda qualcosa?
A chi si occupa di musiche popular e note beat,di ricerca una vicenda
biografica quasi gemella: ad Alessandria d’Egitto era nato, 22 aprile del
1945, un anno prima, un altro «greco d’Egitto» che lavorerà nel rock
e nelle musiche sperimentali, forte di un voce molto speciale: Eustratios
Demetriou, conosciuto dal mondo come Demetrio Stratos.
Anche
Demetrio Stratos, indimenticabile voce dei Ribelli e degli Area deve
fare in fretta e furia i bagagli. Condividono, perfino, le prime
esperienze musicali, negli anni della fanciullezza egiziana: il canto
liturgico bizantino, che su entrambi lascerà un’impronta di morbida suadenza.
Roussos pare addirittura che fosse incaricato delle parti soliste, per la
particolare bellezza della voce. Stratos poi assai giovane verrà in Italia,
Demis Roussos resta in Grecia, e si mette a studiare musica seriamente:
una pratica strumentale e d’armonia che gli tornerà molto comoda. In
Europa in quel momento, lo scorcio d’anni incastrato tra la metà e la
fine dei Sessanta, i Beatles e i Rolling Stones sono pane
e companatico per i giovani con le orecchie attente, ed ecco
allora che, per continuare con la vicenda biografica che scorre in parallelo,
Stratos milita in gruppi beat del giro milanese fino ad approdare nei
Ribelli, Demetrio Stratos prende a esibirsi nei greci We Five
e Idols. Il rock intanto, nella macina degli anni, s’è fatto più ricercato,
i Beatles hanno inciso Sgt. Pepper dischiudendo la porta su un oceano
di possibilità, sono apparsi i classicheggianti Moody Blues
e soprattutto i Procol Harum, il gruppo di Gary Brooker, che
infilza le classifiche del mondo del popular internazionale con
A Whiter Shade of Pale. Modello: l’Aria sulla quarta corda di Bach, gran
suono di tastiere, una voce acuta e potente che surfa sul tutto. È il
modello che cercava Demis Roussos, che taglia quasi di netto con le atmosfere
beat, e mette su «il» gruppo rock greco per antonomasia, gli
Aphrodite’s Child. Dalla sua ha la voce sempre più bella e strutturata,
e può portare in dote anche l’abilità acquisita su un altro strumento,
il basso elettrico. Il grande deuteragonista negli Aphrodite’s Child sarà
un tastierista destinato anch’egli a grandi fortune, Vangelis Papathanassiou,
l’uomo che qualche anno dopo costruirà la musica di Blade Runner e di
Momenti di gloria, con il nome opportunamente accorciato in Vangelis.
Dureranno
cinque anni, gli Aphrodite’s Child, ma saranno anni cruciali. S’è detto del
modello «classico» dei Procol Harum. I «figli di Afrodite» lo trovano
invece nel Canone di Pachelbel, uno dei più bei tormentoni delle note colte:
è la base su cui appoggiano Rain and Tears, dove la voce di Roussos vola
agile e imprendibile come un colibrì. Successo europeo, grazie anche
alla scelta oculata di cantare in inglese, per non rischiare l’effetto
«etno», sdoganamento immediato del rock che arriva dalla terra del Partenone.
È il 1968. Altre hit clamorose arrivano con It’s Five o’ Clock, un paio
danni dopo, e con Spring, Summer, Winter and Fall.
E
poi è il momento del capolavoro, l’accennato 666. Doppio album, un
taglio secco con la logica «pop». Il triplice «6» è naturalmente il
cosiddetto «numero della Bestia», Satana, secondo l’apocalisse di Giovanni,
e in effetti lo scritto visionario dell’evangelista fa da spunto per
tutti i testi. Li cura Costas Ferris, amico del gruppo, scrittore,
attore, regista: Orso d’Argento al Festival di Berlino dell’83 per il film
Rembetiko. Ventiquattro brani che sconvolgono ogni logica, tra influenze
zappiane, ossianiche isole percussive, cori, campanelle celestiali,
blues, accenni alla note tradizionali greche, free jazz, hard rock, ballate
stralunate. Il culmine arriva in Infinity Symbol, in chiusura: Roussos
e gli altri hanno convocato in studio la grande Irene Papas, che monta
un climax potentissimo tra sonorità orgasmiche e disperate. Un paio
d’anni prima di quanto faranno i Pink Floyd in The Great Gig in the Sky,
con la voce di Clare Torry.
Poi
finisce anche l’avventura di Afrodite, anche se Demis Roussos resterà sempre
in buoni rapporti con Vangelis, trovando spesso occasioni per collaborare
in buoni dischi. Diventa un pop singer apprezzato ovunque, specialmente in
Italia e in Spagna, piazza successo dopo successo, a partire da
We Shall Dance, che vince il Festivalbar. A volte prende strade inaspettate:
svolte quasi «disco», come in Dance of Love, ritorni a strumentari greci
«etnici», elettronica, la voglia di cantare in francese, in spagnolo. Una
gran botta è con Lost in Love, cover di un brano degli australiani Air
Supply Un momento terribile è nel giugno dell’85, quando si ritrova
tra i passeggeri di un Boeing sulla tratta Atene-Roma dirottato da terroristi
legati a Hezbollah. Supera tutto con la musica: chi ha, come lui aveva, il
dono del canto, sa superare la paura con l’armonia.
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