Sebastiano Grasso
La magia di Gauguin a
Tahiti, tra indigene e arte antica
a Basilea 50 dipinti e
sculture da 13 Paesi
Corriere della Sera, 27
febbraio 2015
Dipingere a Tahiti, ma guardando alle
civiltà europee, africane e asiatiche. Quando nel 1891 Paul Gauguin
(1848-1903) raggiunge l’isola della Polinesia, si porta dietro una
sorta di museo immaginario: riproduzioni di affreschi tebani, stampe
giapponesi, dipinti francesi contemporanei e italiani del
Rinascimento. Ma se la sua ispirazione è subito riconoscibile
(armonia, proporzioni, ritmi, ieratismo), la composizione finale —
talvolta complessa — è totalmente sua.
Il mercato, del 1892,
ne è un esempio lampante. Gauguin attinge a un affresco egizio
riprodotto su una tomba a Tebe, ma la postura delle cinque donne in
primo piano, e delle figure che si muovono sullo sfondo, è quella
del Paese dei faraoni. Lo stupore, invece, appartiene alla gente di
Tahiti, al loro primitivismo. Viceversa, quando Gauguin torna a
Parigi, le immagini di cui si serve in pittura sono tahitiane: vesti,
atteggiamenti, vegetazione, arte popolare e modi di vita. Come nel
dipinto Dolce fantasticare, del 1894.
Entrambe le opere fanno
parte della mostra che la Fondazione Beyeler di Riehen (Basilea, sino
al 28 giugno) dedica al maestro francese: 50 fra dipinti e sculture
(1888-1903), provenienti da tredici Paesi. Tahiti, ma anche la
Bretagna. In entrambi i luoghi, Gauguin ricerca una vita primitiva:
«Mi sono fatto crescere i capelli e vado in giro come un selvaggio,
senza far niente — scriverà, nel settembre del 1890, da Le Pouldu,
all’amico e discepolo Émile Bernard. Ho fabbricato alcune frecce e
mi esercito a scagliarle sulla sabbia».
Precedenti esperienze?
Allievo-ufficiale in Marina, agente di Borsa, impiegato delle
Ferrovie e persino agente segreto al servizio dell’ex ministro
monarchico spagnolo Manuel Ruiz Zorrilla. Poi Gauguin decide di darsi
alla tavolozza. Autodidatta. Della Bretagna ama arte e leggende
popolari: le sculture lignee delle chiese (che gli ispirano Il Cristo
giallo e Il Cristo verde, entrambi del 1889); i Calvari di pietra
sparsi per i villaggi; gli enormi campi simili a scacchiere. Gli
piace anche stuzzicare l’ingenuità degli abitanti: li terrorizza,
coprendosi con un lenzuolo bianco e scorrazzando sulla riva, come un
fantasma, fra le donne che vanno a lavare i panni.
Attorno
all’artista si raccoglie un gruppo di giovani pittori, i quali,
come lui, amano la vita semplice e guardano alla pittura
rinascimentale. Addirittura, a Le Pouldu, Gauguin decora la sua
stanza con la riproduzione dell’ Annunciata del Beato Angelico e
della Nascita di Venere del Botticelli.
I soggetti di questo
periodo? Paesaggi, mietitori, raccoglitori di alghe, lavandaie,
nature morte, nudi. E tracciate a memoria, semplificate con
pennellate piatte, colori dominanti. Una sorta di anticipazione della
pittura di espressionisti tedeschi, cubisti, nabis e fauves.
Una
volta deciso a trasferirsi a Tahiti, scrive ad Odilon Redon: «Spero
di finire lì i miei giorni. Ritengo che la mia arte, che voi amate,
non sia che un seme e spero laggiù di coltivarlo per me stesso alla
stato primitivo selvaggio».
A Tahiti arriva nel giugno del
1891: «Mi sembra che il tumulto della vita europea non esista più e
che sarà sempre così (…). Qui gli uomini hanno inventato una
parola, “No atou”. Significa: “Me ne infischio”, frase che
qui è di una perfetta naturalezza e
tranquillità. La uso
parecchio». Gauguin ferma sulla tavolozza indigeni e animali (Gioco), tahitiane immobili su fondi sontuosi (Giochi deliziosi , 1894),
l’Autoritratto con tavolozza.
Nel nuovo «paradiso»,
Gauguin subisce il fascino delle antiche divinità (Lo spirito dei
morti vigila , 1892), e si adegua ai costumi locali. Sposa anche una
ragazzina. Racconta in Noa Noa: «Mi aggiro sulla costa orientale
poco frequentata dagli europei. A Faaone un indigeno mi interpella:
“Ehi, uomo che fa uomini (sa che sono pittore), vieni a mangiare
con noi”. Entro in una casa con uomini, donne e bambini, seduti per
terra. “Dove vai?” mi chiede una bella maori sulla quarantina. “A
Hitia”. “A fare che?”. Non so che cosa mi sia passato per la
testa; le risposi: “A cercare una moglie. Hitia ne ha molte e
belle”. “Ne vuoi una?”. “Sì”. “Se vuoi ti darò mia
figlia”. “È giovane?”. “Sì”. “È bella?”. “Sì”.
“È sana?”. “Sì”. “Vai a prenderla”. Ritornò
accompagnata da una ragazza alta. Attraverso l’abito di mussolina
rosa molto trasparente, spuntavano i capezzoli sodi. Aveva circa
tredici anni, mi affascinava e mi spaventava. E quel contratto così
rapidamente concepito e concluso, io, quasi un vecchio, esitavo per
pudore a firmarlo».
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