La magia di Gauguin a Tahiti, tra indigene e arte antica
a Basilea 50 dipinti e sculture da 13 Paesi
Corriere della Sera, 27 febbraio 2015
Dipingere a Tahiti, ma guardando alle civiltà europee, africane e asiatiche. Quando nel 1891 Paul Gauguin (1848-1903) raggiunge l’isola della Polinesia, si porta dietro una sorta di museo immaginario: riproduzioni di affreschi tebani, stampe giapponesi, dipinti francesi contemporanei e italiani del Rinascimento. Ma se la sua ispirazione è subito riconoscibile (armonia, proporzioni, ritmi, ieratismo), la composizione finale — talvolta complessa — è totalmente sua.

Entrambe le opere fanno parte della mostra che la Fondazione Beyeler di Riehen (Basilea, sino al 28 giugno) dedica al maestro francese: 50 fra dipinti e sculture (1888-1903), provenienti da tredici Paesi. Tahiti, ma anche la Bretagna. In entrambi i luoghi, Gauguin ricerca una vita primitiva: «Mi sono fatto crescere i capelli e vado in giro come un selvaggio, senza far niente — scriverà, nel settembre del 1890, da Le Pouldu, all’amico e discepolo Émile Bernard. Ho fabbricato alcune frecce e mi esercito a scagliarle sulla sabbia».
Precedenti esperienze? Allievo-ufficiale in Marina, agente di Borsa, impiegato delle Ferrovie e persino agente segreto al servizio dell’ex ministro monarchico spagnolo Manuel Ruiz Zorrilla. Poi Gauguin decide di darsi alla tavolozza. Autodidatta. Della Bretagna ama arte e leggende popolari: le sculture lignee delle chiese (che gli ispirano Il Cristo giallo e Il Cristo verde, entrambi del 1889); i Calvari di pietra sparsi per i villaggi; gli enormi campi simili a scacchiere. Gli piace anche stuzzicare l’ingenuità degli abitanti: li terrorizza, coprendosi con un lenzuolo bianco e scorrazzando sulla riva, come un fantasma, fra le donne che vanno a lavare i panni.
Attorno all’artista si raccoglie un gruppo di giovani pittori, i quali, come lui, amano la vita semplice e guardano alla pittura rinascimentale. Addirittura, a Le Pouldu, Gauguin decora la sua stanza con la riproduzione dell’ Annunciata del Beato Angelico e della Nascita di Venere del Botticelli.
I soggetti di questo periodo? Paesaggi, mietitori, raccoglitori di alghe, lavandaie, nature morte, nudi. E tracciate a memoria, semplificate con pennellate piatte, colori dominanti. Una sorta di anticipazione della pittura di espressionisti tedeschi, cubisti, nabis e fauves.
Una volta deciso a trasferirsi a Tahiti, scrive ad Odilon Redon: «Spero di finire lì i miei giorni. Ritengo che la mia arte, che voi amate, non sia che un seme e spero laggiù di coltivarlo per me stesso alla stato primitivo selvaggio».
A Tahiti arriva nel giugno del 1891: «Mi sembra che il tumulto della vita europea non esista più e che sarà sempre così (…). Qui gli uomini hanno inventato una parola, “No atou”. Significa: “Me ne infischio”, frase che qui è di una perfetta naturalezza e
tranquillità. La uso parecchio». Gauguin ferma sulla tavolozza indigeni e animali (Gioco), tahitiane immobili su fondi sontuosi (Giochi deliziosi , 1894), l’Autoritratto con tavolozza.
Nel nuovo «paradiso», Gauguin subisce il fascino delle antiche divinità (Lo spirito dei morti vigila , 1892), e si adegua ai costumi locali. Sposa anche una ragazzina. Racconta in Noa Noa: «Mi aggiro sulla costa orientale poco frequentata dagli europei. A Faaone un indigeno mi interpella: “Ehi, uomo che fa uomini (sa che sono pittore), vieni a mangiare con noi”. Entro in una casa con uomini, donne e bambini, seduti per terra. “Dove vai?” mi chiede una bella maori sulla quarantina. “A Hitia”. “A fare che?”. Non so che cosa mi sia passato per la testa; le risposi: “A cercare una moglie. Hitia ne ha molte e belle”. “Ne vuoi una?”. “Sì”. “Se vuoi ti darò mia figlia”. “È giovane?”. “Sì”. “È bella?”. “Sì”. “È sana?”. “Sì”. “Vai a prenderla”. Ritornò accompagnata da una ragazza alta. Attraverso l’abito di mussolina rosa molto trasparente, spuntavano i capezzoli sodi. Aveva circa tredici anni, mi affascinava e mi spaventava. E quel contratto così rapidamente concepito e concluso, io, quasi un vecchio, esitavo per pudore a firmarlo».
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