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venerdì 7 febbraio 2025

Hannah Arendt sul progresso



Hannah Arendt
Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, 1944, Antologia, Feltrinelli, Milano 2006

Se le opere di Kafka fossero davvero delle semplici profezie di incombenti sciagure, non varrebbero davvero più di tutte le altre apocalittiche profezie che ci hanno tormentato sin dall'inizio del secolo, o, meglio, fin dagli ultimi trenta-quaranta anni del secolo scorso. Charles Péguy, che ha avuto il discutibile onore di essere annoverato fra tali profeti, ha detto una volta: "I1 determinismo, nella misura in cui esso può essere addirittura immaginato, forse non è altro che la legge dei resti". Si tratta di una verità molto precisa. Se è vero che la vita viene inevitabilmente e naturalmente a concludersi con la morte, si può sempre predirne la fine. La via naturale è sempre quella del declino e della fine, ed una società che si rimetta ciecamente al carattere di necessità delle leggi che si è data non potrà che finire. I profeti, da parte loro, non possono essere altro che profeti di disgrazie dal momento che delle catastrofi si possono sempre prevedere. Il miracolo è rappresentato dalla salvezza e non dalla fine perché solo la salvezza, e non la fine, dipende dalla libertà dell'uomo e dalla sua capacità di modificare il mondo ed il suo corso naturale. La folle idea, tanto diffusa ai tempi di Kafka come ancora ai giorni nostri, che il compito dell'uomo sia quello di sottomettersi ad un processo predeterminato da forze qualsiasi, non può che accelerare il declino naturale perché nella follia della sua libera scelta l'uomo non fa altro che venire in aiuto alla Natura e alla sua tendenza verso il declino. Le parole del cappellano della prigione nel Prozess svelano la vera natura dell'occulta teologia e della più intima fede dei funzionari, cioè una fede assoluta nella necessità; questi finiscono per essere degli esecutori di tali necessità, quasi ci fosse bisogno di funzionari per mettere in funzionamento il processo del declino e della rovina. In quanto funzionario della necessità l'uomo diventa un funzionario totalmente superfluo al servizio della legge naturale della caducità, e, dal momento che egli è più che natura, si abbassa al livello di efficace strumento di distruzione. Come una casa costruita dagli uomini secondo dei criteri umani sarà certamente condannata allo sfacelo non appena essa rimarrà disabitata e sarà abbandonata dall'uomo al suo destino, altrettanto certo è che il mondo, costruito dagli uomini e funzionante secondo leggi umane, tornerà ad essere una parte della natura e, in quanto tale, abbandonato al suo catastrofico declino non appena gli uomini decideranno di ridiventare una parte della natura, ovvero uno strumento cieco ma estremamente preciso delle leggi naturali.

In tale contesto è relativamente irrilevante che l'uomo, ossessionato dalla necessità, creda nel progresso o nel declino del mondo. Se il progresso fosse davvero "necessario", se costituisse una legge davvero inevitabile e sovrumana che abbracciasse tutte le epoche della nostra storia e nella cui rete l'umanità fosse fatalmente impigliata, la forza ed il cammino del progresso non potrebbero essere meglio descritti di come ha fatto Walter Benjamin in queste righe delle sue Geschichtsphilosophische Thesen:

"L'angelo della storia [...] ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta."

La migliore dimostrazione che Kafka non appartiene alla schiera dei nuovi indovini è forse il fatto che leggendo le sue storie più terrificanti e più atroci, che nel frattempo hanno trovato riscontro nella realtà se addirittura non ne sono state superate, continua sempre ad assalirci un senso d'irrealtà. Sono i suoi eroi spesso senza nome e contrassegnati da una semplice iniziale. Ma ammettendo pure che la loro seducente anonimità sia dovuta soltanto al caso dell'incompletezza dei suoi racconti, questi personaggi non sono affatto degli uomini, delle persone che noi potremmo ungiorno incontrare nella vita reale. Sebbene siano minuziosamente descritti non possiedono affatto quelle singole e singolari caratteristiche, quei piccoli e spesso superflui tratti del carattere che insieme concorrono a dare la vera immagine di un vero essere umano. Questi personaggi si muovono in una società in cui ognuno ha un ruolo specifico ed in cui ciascuno è, per così dire, definito dalla propria professione; essi si distinguono da quella società ed assumono un ruolo centrale nell'azione in quanto, a differenza di tutti gli altri, non hanno un impiego o un lavoro determinato e il loro ruolo rimane quindi indefinibile. Ne consegue così che neppure gli altri personaggi delle opere di Kafka sono uomini reali. I suoi racconti non hanno niente a che fare con la realtà dei romanzi realisti.

Paul Klee, Angelus Novus, 1920


mercoledì 26 ottobre 2016

Walter Benjamin, precario


Roberto Ciccarelli
Walter Benjamin, la felicità profana degli uomini
«La Politica e altri scritti» di Walter Benjamin, a cura di Dario Gentili

il manifesto, 26 ottobre 2016

Filosofo dei frammenti, e del loro montaggio, Walter Benjamin ha fatto di necessità virtù. La sua esistenza nomade, alla prese con una precarietà che non ha nulla da invidiare alla nostra, si è conclusa in fuga dai nazisti con un tragico suicidio. Un’esistenza costellata di illuminazioni e anticipazioni sulle quali si continua ancora a riflettere. L’ultimo caso è quello della «Politica»: sin da giovane il filosofo aveva concepito un’opera organica di cui si conoscono frammenti notissimi come Sulla critica della violenza, pubblicata nel 1921.
La Politik è al centro di una discussione intensa almeno quanto le discussioni sulla valigetta che Benjamin portava sempre con sé e che si pensa custodisse il suo ultimo lavoro, un libro a cui il filosofo diceva di tenere più che alla sua vita. Oggi non è possibile ricostruirla completamente, ma dai frammenti emergono lampi significativi. È questo il tema de La politica e altri scritti (Mimesis, pp.122, euro 12), un volume per il quale il curatore Dario Gentili ha scelto un filo conduttore che, pur non rispettando la disposizione dei materiali nell’opera completa, permette di organizzarli secondo un ordine tematico e cronologico. Per ricostruire il senso di questa opera incompiuta è decisiva la corrispondenza con l’amico e filosofo Gershom Scholem. In questi scritti Benjamin lega la «verità» all’opera «comune» che gli uomini possono fare insieme. A differenza di una lunga tradizione iniziata con Weber, il politico non è una personalità o individualità, ma si dà nella radicale immanenza dell’opera comune degli uomini. In questo consiste la loro felicità profana.
La politica, nella sua caducità, non aderisce a ciò che esiste, ma adempie a un compito messianico. Accompagnato da visioni materialistiche, il messianesimo comunista di Benjamin procede in senso inverso rispetto alla teologia e alla volontà di rappresentare il Regno di Dio sulla Terra. Tra l’anarchismo giovanile e la stagione marxista della maturità la distanza è notevole, ma esistono alcune costanti.
In questa raccolta di frammenti emergono due idee che Benjamin ha coltivato ancor prima di scoprire il materialismo: la rivoluzione è «innervazione degli organi tecnici della collettività» e «scassinare la teleologia naturale». Concetti che ribaltano molte versioni del materialismo che ha ignorato il fatto che la tecnologia è un fenomeno sociale e incarnato nella forza lavoro. Per non parlare della filosofia della storia che ha legato il comunismo alla teleologia naturale. Per Benjamin nulla è irreversibile, la tecnica è una questione politica, la politica si dà quando l’azione non ha uno scopo finale, ma è l’espressione di una felicità comune.

domenica 11 gennaio 2015

Chi era Walter Benjamin?




Nicola Gardini
Walter Benjamin (1892-1940)
Una vita vissuta nel dettaglio
Un'ottima biografia del pensatore tedesco uscita negli Stati Uniti, il Paese che più di tutti ha alimentato l'interesse per lui

Il Sole 24ore, 11 gennaio 2015 

Chi è Walter Benjamin? Foucaultianamente lo si potrebbe definire un "auteur", cioè uno che ha messo in circolazione idee e modelli culturali, "discours", e che sarebbe sbagliato identificare con un individuo biologico, uno come Freud e Marx, insomma, o, certo, lo stesso Foucault, o il nostro Gramsci. E questo è tanto vero che certi manco sanno pronunciare il suo nome, come se appunto lo si identificasse più propriamente con quello che ha lasciato detto, e neanche tutto, qualche formula memorabile, come «l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica» e «il compito del traduttore», che di Benjamin, comunque si pronunci, hanno fatto un'icona della modernità e un mostro sacro dei "graduate studies".
La domanda, però, andrebbe posta anche al passato, perché non c'è "discours" senza mente e la mente ha le sue occasioni storiche, ricercate o prodotte dalle circostanze. Dunque, chi era Benjamin? Ebreo assimilato, amico di Adorno, di Scholem e di Hannah Arendt, nacque e visse lunghi anni a Berlino, cercò alternative alla metropoli a Capri e a Ibiza, finì esule a Parigi per sfuggire al nazismo e morì suicida nel 1940 in un paesino della Spagna, dalla quale sperava di prendere la via dell'America. Si uccise per paura di essere rispedito in bocca al nemico, e il giorno dopo i suoi compagni poterono varcare il confine e mettersi in salvo. Il suo corpo non si sa bene dove sia finito, e neanche il cruciale manoscritto che pare si portasse dietro durante l'ultima fuga.
Dedicò la sua vita alla critica, mischiando teologia e marxismo, filosofia e storia, teorie del linguaggio e poesia, e si occupò da pioniere di cultura mediatica. L'opera scritta è vastissima. Eccelse nel saggio e nella recensione, ma compose anche poesie, racconti di viaggio e resoconti autobiografici, in particolare uno, Infanzia berlinese, un piccolo capolavoro. Tradusse Baudelaire e Proust. La varietà dei suoi temi è impressionante: il giocattolo, il romanzo giallo, la letteratura francese e non solo, il dramma barocco tedesco, l'arte di Klee, la radio, la fotografia, la droga, Parigi... Su tutto mostrava uguale competenza, e tutto nelle sue mani si benjaminizzava, acquistando valore e densità, fino ad apparire complesso, a risaltare sul comune fondo di una cultura sempre più conformista, cui il suo stile teso e spesso difficile si contrapponeva di per sé con forza di oggetto inconquistabile. Lavorava contemporaneamente a più progetti, e il progetto è certamente la sua "forma" più tipica. I suoi capolavori sono libri mai compiuti, come quello sui passages di Parigi, di cui resta un monumentale abbozzo. Vista dall'alto, tanta opera disegna un paesaggio di approssimazioni, che non sono fallimenti, ma esempi di una nuova rinnovante vitalità e bellezza.
Benjamin insegna a guardare dove l'occhio e l'attenzione meno si provano, a riconoscere la salvezza di una totalità nel residuo, a trasmettere nonostante, anzi proprio in virtù della decurtazione e della costrizione. L'aneddoto vale per la storia; la traduzione per una lingua assoluta e comune. Quello che sembra perdita è sopravvivenza, nel dettaglio di una fotografia sta depositato un tempo.
Quando morì, pochi conoscevano il genio dell'uomo e l'importanza delle sue riflessioni. Oggi esiste una vera e propria industria benjaminiana.
Quasi tutto è edito e pubblicato in numerose lingue. In Italia Benjamin lo conosciamo soprattutto grazie all'editore Einaudi, che da decenni mette a disposizione i saggi fondamentali (ultimamente anche altri si sono dati da fare per averlo in catalogo, da Adelphi a Castelvecchi, che da poco ha pubblicato le trasmissioni radiofoniche). Ma della fortuna internazionale di Benjamin è principalmente responsabile l'America. E dall'America quest'anno è arrivata anche la biografia che mancava: Walter Benjamin. A Critical Life, uscita per Harvard University Press (da noi uscirà per Einaudi). Gli autori sono Howard Eiland e Michael W. Jennings, che per lo stesso editore curano anche le traduzioni dell'opera.
Questa biografia è un capolavoro. Schivando con eleganza qualunque mitologizzazione, ricostruisce passo passo il formarsi dell'opera e i movimenti, la personalità, i rapporti e le ambizioni del personaggio. Molte delle quasi settecento pagine complessive sono dedicate all'illustrazione del pensiero, mettendo in luce nessi tra momenti anche distanti. Il dosaggio tra cronaca, cronologia, commento e documentazione è perfetto.
Il racconto procede vario e sicuro, con chiarezza esemplare, senza gergalità, senza ingorgarsi di citazioni, con fede così integrale al rigore delle premesse filologiche che a lettura ultimata ci si sente consolati. Non era facile, dati i tanti piani dell'indagine.
Ma i piani qui si incastrano tutti a meraviglia, e se qualche fessura rimane, non si ricorre certo al sensazionalismo, al romanzesco, all'illazione psicanalitica, alla smorfia lirica, al giudizio morale, all'ingrandimento bozzettistico o all'osanna per riempirla.
Gli autori, d'altronde, non cedono mai neppure ad alcuna noiosa cautela, non sanno cos'è la freddezza, perché muovono da una conoscenza completa dei materiali e delle fonti (anche inedite, come certe splendide lettere) e dalla semplice consapevolezza di avere a che fare con uno degli intellettuali più alti del secolo passato. Il Benjamin che ci ridanno è il pensatore appassionato, lo scrittore dalle più scritture, il critico della modernità, ma anche il campione della più ermetica riservatezza, l'amico di molti talenti, l'uomo dall'andatura impacciata, l'amante quasi immateriale, il marito difficile, "el miserable", come venne soprannominato a Ibiza dalla gente per la sua aria infelice e malandata. Se un tema accomuna i momenti di una vita così fervida e inquieta sia mentalmente sia geograficamente è proprio il bisogno; e la depressione, le fantasie suicide, che finirono per vincere su qualunque ipotesi di futuro.

Howard Eiland e Michael W. Jennings, Walter Benjamin. A Critical Life, Harvard University Press, pagg. 768, $ 39,95


lunedì 19 maggio 2014

Gli amoreggiamenti di Gretel Karplus

Pierluigi Panza 
Gretel tra Adorno e Benjamin, un triangolo filosofico
Lei scrive: «Ho fame delle tue cose». Walter: «Ti voglio, sembri la Hepburn»
Corriere della Sera, 19 luglio 2007

Vero è che furono amori fatti per lo più solo di parole, come si conviene tra filosofi. Ma dalla lettura delle corrispondenze dei grandi pensatori del Novecento emergono sempre più storie di triangoli filosofici, raramente equilateri. Si sapeva della coppia aperta Sartre-de Beauvoir, si sapeva di Heidegger e la Arendt, delle scorribande di Bertrand Russell... Ad essi si aggiunge ora lo strano triangolo d' ispirazione «francofortese» - consumato in teoria più che in prassi -, tra Walter Benjamin, Gretel Karplus e Theodor Wiesengrund Adorno, di cui la donna fu moglie. Dal 1930 la vita di Gretel Karplus (1902-1993) incomincia ad essere sospesa, come lei stessa scrive, «tra due letterati... entrambi pieni di raccapriccio per tutti i miei passi falsi». Uno è Theodor Adorno, che lei sposerà nel ' 37 dopo 14 anni di fidanzamento; l' altro è Walter Benjamin (1892-1940), a quel tempo un pensatore che vive per l' Europa con sussidi universitari e con il cuore diviso tra Dora Keller (ex moglie, ma che frequenta alla pensione Villa Verde di San Remo da lei gestita), Jula Cohn, sorella del suo amico d' infanzia Alfred e Asja Lacis, una rivoluzionaria marxista.
Gretel è una trentenne berlinese dai capelli corti, sguardo mascolino e deciso, naso e zigomi pronunciati, labbra sottili. L' intonazione delle loro lettere (il Carteggio 1930-1940 è uscito in Germania da Suhrkamp Verlag ed esce ora in Francia da Gallimard suscitando interesse sulle riviste letterarie) non lascia dubbi sull' amicizia amorosa tra i due. Lei lo chiama «Caro Walter» e si firma «Tua Felicita» alludendo a un personaggio di una pièce di Wilhelm Speyer alla quale Benjamin ha collaborato. Lui si firma con lo pseudonimo «Detlef» e dice che lei è «il primo violino della sua orchestra». Una passione più che altro platonica a causa dei vagabondaggi di lui (Ibiza, dove scrive il suo testo sull' infanzia berlinese, Costa Azzurra, San Remo, Parigi...) e per la presenza dell' altro (Adorno). O se vogliamo perché intasata di gigantesco struggimento. Lui, inizialmente, si sente frenato da una «pudica tenerezza». Ma poi, in un florilegio di metafore, le racconta le notti del '33 passate a Ibiza a fumare l' oppio pensando a lei. Lei gli scrive: «Detlef non c' è alcun uomo al quale io mi senta per lettera più vicino di te, da nessuna parte v' è più dolcezza di quella delle parole che tu mi fai anche solo intuire». Adorno, naturalmente, non sa nulla di loro, «non sa nulla del nostro "tu"», scrive Gretel. E mentre lui è impegnato nella stesura di quello che è il suo più attuale contributo teorico, L' opera d' arte nell' epoca della sua riproducibilità tecnica pubblicato nel 1936 (dove per la prima volta si parla di emancipare l' arte dal suo originario «contenuto parassitario basato sul rituale»), lei si dà alla moda e apre una fabbrica di guanti. Lei è un' inquieta, e s' invaghisce anche del cugino di Benjamin, Egon Wissing, un medico morfinomane rimasto vedovo nel ' 33. Ma nemmeno questa amicizia un po' dissimulata la soddisfa. La sua esistenza a Berlino è monotona, e alla fine decide di sposare Adorno nel settembre del ' 37 con l' intenzione di andare a vivere negli Stati Uniti. A quel punto Wissing sposa la sorella di Gretel, Lotte. A bocca asciutta resta sempre Benjamin, che incomincia a incattivirsi e a provare un po' di gelosia nei riguardi di Adorno, che egli considera un semplice discepolo al quale muove critiche sulle «categorie estetiche». A Gretel, invece, non piacciono i lunghi soggiorni del «Caro Walter» in Danimarca ospite di Bertolt Brecht. Lui non cessa di scriverle, parlandole delle categorie del flâneur, dei «passaggi» e aggiungendo osservazioni come «l' arte del XIX secolo non è conoscibile se non nelle circostanze presenti». Lei è più decisa nel trasmettere i suoi sentimenti, ma è preoccupata che quella «amicizia amorosa» possa incrinare la stima tra i due filosofi: «Sarei inconsolabile se la vostra relazione finisse», intendendo finisse per colpa mia. Lei, del resto, vuol bene al suo «Teddie» (Adorno), ma non cessa il flirt a distanza, e scrive a Benjamin frasi come «ho fame delle tue cose,... caro Detlef» (20 luglio 1938). Lui le risponde: «Io voglio ultimamente per la prima volta! Katherine Hepburn. Ella è grandiosa e ti assomiglia molto. Non te l' ho mai detto?». Alla fine lei lo invita a raggiungerla (con Adorno ovviamente) nella loro casa lungo l' Hudson. Lui ci crede: e nell' agosto del ' 39 vende un quadro di Paul Klee per racimolare i fondi necessari per il viaggio. Ma il momento è drammatico. Lui lo intuisce: «Nulla fa presupporre che il momento di rivederci è vicino». Benjamin lascia Parigi per il Sud della Francia. Viene internato in un campo di lavoro volontario a Nevers nel ' 39. Liberato per l'intervento di alcuni amici, scrive ancora a Gretel prima di spostarsi a Lourdes. Bloccato al confine con la Spagna, temendo di venir consegnato ai nazisti, Benjamin si suicida. E Adorno? Fu sensibile per tutta la vita al fascino femminile, ma non lasciò mai Gretel. Nel gennaio del ' 69, maestro indiscusso della Scuola di Francoforte, si trovò a denunciare alcuni studenti per una irruzione in aula. Per punirlo, il Movimento studentesco pensò di attaccarlo su un punto sensibile: il fascino femminile. E così il 22 aprile, mentre teneva una lezione sul pensiero dialettico, gli mandò tre studentesse in lunghi mantelli che salirono sulla sua cattedra e si mostrarono nude. Il 19 luglio, innanzi al tribunale di Francoforte si doveva discutere della denuncia, ma Adorno partì per le vacanze in Svizzera insieme a Gretel. Il 6 agosto, durante un' escursione a Visp, venne stroncato da un infarto a 66 anni. Gretel rimase vedova, ed è morta 14 anni fa.

Gretel Adorno - Walter Benjamin, Correspondance (1930-1940), Gallimard, pp. 424, 26,50 euro. 

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/09/07/il-lungo-addio-di-benjamin.html

lunedì 4 febbraio 2013

Guido Vitiello contro la melanconia

Ho passato la prima metà della mia vita di lettore a leggere libri sulla melanconia, la seconda a scrollarmeli di dosso; perdendone, per quel che conta, ogni fede nei libri e nelle loro promesse. Oggi li trovo tutti ricapitolati in uno, L’encre de la mélancolie (Seuil) di Jean Starobinski. Sono saggi composti nel giro di mezzo secolo, alcuni un poco rimaneggiati, dalla tesi di dottorato in medicina che Starobinski presentò nel 1959 all’Università di Losanna a qualche pagina recente su Baudelaire, Mandelstam e la nostalgia. Non manca nessuno, al nuovo rendez-vous, dei convitati di quelle mie prime letture: i medici antichi e i loro umori atrabiliari, gli asceti fiaccati dal demone meridiano; il furore degli artisti rinascimentali nati sotto Saturno e la neghittosa erudizione dei trattatisti barocchi; Cervantes e Shakespeare, Kierkegaard e Benjamin, il black ink e l’umor nero. E soprattutto quel grande angelo scuro, l’angelaccio sublime e detestabile dell’incisione di Dürer, il volto recline un poco in ombra, quasi appollaiato sulla mano, e quell’aria di bambinone annoiato in mezzo ai troppi balocchi: il compasso e la clessidra, la palla e la stadera, il quadrato magico e la pietra nera, sotto i raggi di un astro bianchissimo nel quale legioni di interpreti, chissà per quale traveggola, si sono illusi di vedere un sole nero.
[...] Smascherare il prestigio della melanconia, questo si deve; riconoscervi, il più delle volte, un odioso strumento di distinzione, di orgoglio spirituale, in ultimo di sopraffazione e di dominio. E farlo non già con l’ottimismo igienico e artificiale dei futuristi, ma con lo scetticismo dei moralisti o dei buffoni. Com’è vezzoso, credersi nati sotto Saturno, scorgere nelle proprie miserie il segno di un’oscura elezione, affiliarsi a un club di sventurati illustri, agganciare i propri umori a una genealogia fantastica che annovera Nerval e Piranesi, Rembrandt e il giovane Goethe. E quanti poseur intellettuali si sono, con il richiamo all’atrabile, conferiti quarti di nobiltà! Sarebbe da farne l’inventario, la galleria di ritratti. C’è il tipo del teorico della decadenza, lo spengleriano che i destini trascinano volente o nolente, [...]. C’è il tardo marxista benjaminiano, a cui la melanconia dona un severo prestigio anche accademico, che ama atteggiarsi ad archeologo divorziato dal tempo, rimesta tra le rovine della storia, medita su una rivoluzione e una redenzione tutte libresche, combina e ricombina all’infinito come un cabalista sillabe di filosofi tedeschi a cui ha avuto cura di fare il vuoto attorno, cancellando con un gesto il mondo: la melanconia cinge il suo esilio come un antico maniero. C’è poi la posa più scoperta, la più arrogante, il melanconico aforistico che fa strage di illusioni, il truffatore spirituale alla Emil Cioran, che stagna nei propri risentimenti e nei propri disgusti per farne moneta splendente – e falsa: e se ha fortuna ne ha in premio, questo misantropo ossessionato dagli altri, di veder riconosciuta una sovranità tutta mondana sul proprio tempo, il posto in balconata del Grande Spregiatore.
Ne ha suggerite, quell’angelo, di pose – e di alibi, e di specchi deformanti. Una disposizione transitoria e finale della Costituzione dello spirito dovrebbe abolire quest’ultimo titolo nobiliare, la melanconia usurpata dei letterati e degli intellettuali, e stabilire per legge che dopo Gérard de Nerval a nessuno più è consentito proclamarsi Principe d’Aquitania dalla torre abolita.

Articolo uscito sul Foglio il 28 novembre 2012 con il titolo Saturno a favore ovvero come smascherare il prestigio della melanconia