mercoledì 28 ottobre 2015

Pasolini senza eredi

Alberto Asor Rosa 

Quando Pasolini mi disse: “Sei l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”
Pier Paolo sapeva che rischiava di essere ammazzato. E tutto ciò che scrive e fa negli ultimi due o tre anni va in quella direzione

intervista di Simonetta Fiori

la Repubblica, 28 ottobre 2015










«Vorrei dirlo proprio ai suoi più accaniti ammiratori: per carità non fatene un santino. Un destino che Pier Paolo non si merita». Cinquant’anni fa lo stroncò ferocemente in Scrittori e popolo come un piccolo-borghese piagnucoloso, romanziere fallito e refrattario all’avanguardia. Oggi rivede (ma solo in parte) le sue critiche e del polemista corsaro rimpiange la capacità profetica, seppure mossa da premesse reazionarie. Alberto Asor Rosa ripercorre il suo inquieto rapporto con Pasolini, mettendo in guardia dalla nuvola di incenso che rischia di neutralizzarne la carica dialettica.
Dallo “scandalo del contraddirsi” all’“icona pop” di oggi: il percorso di Pasolini risulta quasi paradossale. «Basta fare il raffronto con l’anniversario di Calvino, di cui ricorre il trentennale. Il clamore per Pasolini è enormemente più forte».
Come lo spiega?
«Calvino ha battuto una strada coerente con la sua natura di scrittore e intellettuale: il discorso razionale non intriso di passionalità e polemica. Pasolini evidentemente ha battuto la strada opposta. E la sua passionalità finisce per incontrarsi di più con gli strumenti della civiltà massmediatica».
Sta dunque dicendo che l’intellettuale che ci aveva messo in guardia dalla dittatura dei consumi rischia di essere il più consonante a questa civiltà?
«Entra di più nei suoi circuiti di comunicazione. La mia non vuole essere una critica postuma. La forza polemica di Pasolini consiste in una peculiarità: nell’atto di formulare giudizi e valori esibisce totalmente se stesso. Calvino fa l’operazione opposta: svolge la sua polemica politico-civile rifiutando di esibirsi. L’esibizione di se stessi è uno dei tratti fondamentali della nostra era massmediatica».
La corporeità di Pasolini è centrale in questo discorso.
«Mi viene in mente quella serie di fotografie che si fece scattare nel suo ritiro del Cimino mentre scrive nudo. Se lo immagina Calvino in mutande? Ma non è un giudizio di valore, è pura descrizione».
Perché si preoccupa tanto di non apparire critico? Cinquant’anni fa lo fece a pezzetti.
«No, io rifiuto questa vulgata. La mise in giro il medesimo Pier Paolo, ma non era così».
Lui ci rimase molto male.
«Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”».
Perché l’aveva stroncato?
«Io però vorrei correggere questo stereotipo. Nel saggio apparso su Scrittori e Popolo ci sono due Pasolini. Uno è quello che punta a scavarsi un posto di rilievo nella cultura contemporanea ammiccando alla linea progressista ufficiale: il verbo comunista. E di questa spinta sono il frutto i romanzi romani, che io trovo intollerabili proprio perché mescolano le sue pulsioni naturali con il quadro ideologico populista del canone ufficiale».
Ma i critici comunisti lo accolsero con sospetto.
«E lui reagì con stupore: ma come è possibile? Ho scritto quei romanzi proprio tenendo conto della vostra linea…» Questo Pasolini non le piaceva.
«E continua a non piacermi. Ma in quel mio saggio c’era anche un altro Pasolini, l’autore delle poesie e dei romanzi friulani, espressione autentica del suo rapporto elegiaco con il mondo popolare.
E c’era anche il Pasolini delle Ceneri di Gramsci , dove lui riflette criticamente e autocriticamente sul suo stare al mondo e sul suo rapporto con l’Italia contemporanea. Il mio giudizio era già allora articolato e lo sarebbe diventato ancor di più nei passati decenni».
Sì, certo, non fu solo stroncatura.
Ma nella parte critica non mancano passaggi molto aspri. Soprattutto quando lei lo rimprovera atteggiarsi a «povero martire che invoca grazia e pietà», che «pretende tregua e dunque confessa inferiorità», che in sostanza «chiede di essere amato anche dal nemico».
«Ma su questo non ho dubbi. Anche qui il parallelo con Calvino è utile: Calvino non ha alcun bisogno di essere amato perché la sua intellettualità e la sua natura sono autonome. Pasolini aveva un urgente bisogno di essere riconosciuto. Prima accennavo alla richiesta di comprensione e di aiuto che avanzò alla cultura progressista: comprensione e aiuto che i critici comunisti si guardarono bene dal concedergli. In sostanza il bisogno di riconoscimento gli venne negato non solo dal ceto dominante conservatore e democristiano, ma anche da quella cultura comunista che sarebbe dovuta essere la interlocutrice privilegiata. Questo accentua il suo conflitto con il mondo fino agli esiti tragici finali».
Gli negherebbe ancora il ruolo di sperimentatore? In “Scrittori e Popolo” lo ritrae come un letterato conservatore nemico dell’avanguardia.
«Negare oggi il ruolo di sperimentatore a Pasolini sarebbe francamente assurdo, però letterariamente la sua è una sperimentazione che si muove molto nei solchi della tradizione. E io all’epoca mi concentravo sulla sua opera letteraria».
E quell’accusa di piccolo-borghese? A sinistra suonava come un insulto.
«Sì, un’accusa che ci siamo rinfacciati a vicenda. È una terminologia di quegli anni e oggi non mi verrebbe in mente ritirarla fuori. Decisamente datata».
I vostri rapporti si interruppero?
«No, tra noi non c’erano mai stati rapporti personali. Quando uscì Scrittori e Popolo io avevo 32 anni ed ero uno sconosciuto, sideralmente lontano dalla società culturale romana che aveva una struttura monocratica e chiusa. Il gruppo Moravia-Pasolini-Betti-Siciliano viveva in una sua realtà impermeabile. E io ai salotti romani bene preferivo il volantinaggio in fabbrica».
Oggi rimpiange il Pasolini profetico.
«Sì, partendo da premesse totalmente sbagliate riuscì a cogliere meglio di chiunque altro le aberrazioni del progresso. Una forza di denuncia e di previsione impressionante».
Però allora a sinistra era considerato reazionario e antiprogressista.
«Lo era, indubitabilmente. Era assetato di passato. Rimpiangeva un mondo incontaminato senza cogliere gli elementi di progresso che pure tra gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono la crescita del nostro Paese. Ma il prevalere di questo elemento primigenio ha finito per rendere la sua denuncia più violenta e profetica».
Crede che la sua morte fu dovuta a un complotto?
«No, non ci credo. La sua morte fu coerente allo stile di vita. Non voglio dire che cercasse di essere ammazzato, ma se uno fa la vita che faceva Pier Paolo non può non sapere che rischia di essere ammazzato. E tutto quello che scrive e fa negli ultimi due o tre anni muove in quella direzione».
Cosa le dà fastidio delle celebrazioni di oggi?
«Invece di capirlo e interpretarlo si tende a farne un santino spegnendone la carica critica pungente. Il profeta dell’omologazione rischia di essere consumato come un prodotto di massa».
Walter Siti sostiene che intorno a Pasolini è tutto un pigolio, ma in realtà non ci sono eredi: nessuno si è confrontato davvero con la sua ricerca.
«Sì, ha ragione. L’unico è Saviano, che lo cita in Gomorra come oggetto di pellegrinaggio alla tomba di Casarsa e ne tiene un po' conto nella descrizione della società camorristica. Per il resto non vedo eredi pasoliniani come non vedo né fortiniani né calviniani. Non ci sono eredi e basta».

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