giovedì 28 agosto 2014

Le stelle, le strisce, la democrazia

Nadia Urbinati
Quanti errori e pregiudizi in quel viaggio di Tocqueville
Il saggio di Massimo Salvadori svela le inasattezze alla base del classico “La democrazia in America”. Senza offuscarne le geniali intuizioni 

la Repubblica, 28 agosto 2014

La democrazia in America, uscito in due volumi nel 1835 e 1840, fu uno dei primi bestseller: il primo volume ebbe varie ristampe in pochissimi mesi. È ancora oggi uno dei libri più venduti, letti e citati. La sua audience è trasversale. Albert Hirschman incluse Tocqueville tra i retori della reazione per la sua teoria della futilità della Rivoluzione francese, dannosa perché scoppiò quando l’ancien régime era già moribondo. Autore molto amato dai liberali della Guerra fredda, a Tocqueville Hannah Arendt si ispirò nel delineare i due modelli di rivoluzione, quello francese e quello americano, che hanno segnato nel male e nel bene la storia contemporanea fino al totalitarismo. La democrazia in America fa parte del bagaglio culturale di conservatori (è stato pochi anni fa ristampato in inglese con una nuovissima edizione a firma di Harvey Mansfield) e progressisti (la sua tesi sul ruolo delle associazioni civili ha guidato Robert Putnam nella ricerca sul civismo in Italia, debole o assente in quelle aree che non ebbero una storia repubblicana).
Tanto successo e tanta ammirazione corrispondono a quanto Tocqueville si era proposto di fare? Quanto corretta è la rappresentazione che ci ha lasciato della società americana del 1831, quando intraprese il suo viaggio con l’amico Gustave de Beaumont? A queste domande si ispira Massimo L. Salvadori nel suo Le stelle, le strisce, la democrazia uscito da Donzelli. E la risposta è tranchant (e molto ben documentata): la ricostruzione è pochissimo corretta. Tocqueville non vide o non capì o fraintese molte cose importanti. La sua immagine della democrazia fu certo il frutto di quel che vide,  ma il suo sguardo era guidato da una «sorta di pregiudizio » che divenne il suo punto di partenza ancora prima dei fatti osservati. Questi i limiti che Salvadori documenta: la sua concezione dell’eguaglianza delle condizioni sociali era immaginifica e ignorava l’esistenza di un’oligarchia potente, mentre vedeva una larga classe media che non c’era; la struttura e l’importanza della “macchina” dei partiti politici gli sfuggì completamente; la sua diagnosi della centralità degli stati dell’Unione sulla presidenza federale era sbagliata; l’analisi, toccante, dei rapporti tra neri e bianchi nel Sud produsse in lui la diagnosi, errata, di una rivolta spartachista degli schiavi; infine, la sua idea che le masse di poveri dominassero la politica e i rappresentanti eletti era a dir poco fantasiosa.
Il messaggio di Tocqueville sui rischi dispotici della democrazia, sui pericoli dell’apatia, sull’egemonia dei molti contro i pochi, sull’uguaglianza come passione che livella, è stato dunque più il frutto delle sue letture classiche (Platone, Aristotele, Pascal, e poi naturalmente Rousseau) e dei traumi subiti dalla sua famiglia e dalla società francese con il Terrore che delle  osservazioni raccolte durante il viaggio in America. Tocqueville non fu uno scienziato politico. Ma il raffinato esame che ci propone delle emozioni collettive, della funzione razionale delle passioni, delle conseguenze inattese che le scelte individuali hanno sulla società resta fondamentale per chi voglia capire i comportamenti sociali moderni. E la sua analisi innovativa sulla natura dell’individualismo, la formazione di una religiosità panteistica mossa dalla fede della scienza e nella tecnologia, la natura contraddittoria di molti beni sociali moderni come la stampa, l’informazione, l’associazione degli interessi resta un punto fondamentale di ispirazione. Tocqueville vide una democrazia nelle relazioni sociali: per esempio, il fatto che la cultura dei diritti induca a volere eguaglianza di considerazione e riconoscimento o che i rapporti di eguaglianza erodano l’autorià dei padri e dei mariti, cambiando la struttura della famiglia. Con Salvadori si può allora dire che non è l’America del suo tempo che dobbiamo cercare nel libro di Tocqueville. Ma forse è proprio questo anacronismo che ha reso La democrazia in America capace di resistere al tempo.

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