domenica 17 agosto 2014

La DC non è destinata a rinascere

Paolo Pombeni
Perché non avremo più una DC
Reset, 12 giugno 2014
 
Se si vuole valutare in maniera appropriata il tema della presenza dei cattolici (o più genericamente dei cristiani) nella sfera politica bisogna ragionare in maniera appropriata sulla specificità dell’evoluzione del sistema politico in senso costituzionale nell’Europa del XIX e XX secolo, e del problema che esso ha costituito per le comunità ecclesiali da un lato e per il vertice gerarchico della Santa Sede dall’altro. Senza voler esser provocatorio, affermo che non ha senso porre il tema sotto l’etichetta del rapporto fra religione e politica: da questo punto di vista il tema esiste sin dalle origini del cristianesimo, ed ha avuto varie risposte a seconda dei diversi tempi storici, anche quando i sistemi politici e culturali erano ben diversi.
Il fatto è che ciò di cui oggi ci si occupa è un aspetto peculiare, e a mio parere ormai circoscritto e tramontato: la lotta per salvare spazio e ruolo di una tradizione culturale sviluppatasi sotto l’egida di una confessione religiosa all’interno di un sistema costituzionale – il liberalismo occidentale con le sue evoluzioni e variazioni – che all’origine e per un certo tempo si era opposto al riconoscimento di appartenenze culturali diverse da quella “laica” dello Stato. Ciò aveva portato a due fenomeni cui debbo accennare sinteticamente, perché altrimenti non si coglie il nodo che alla fine è venuto al pettine.
Il primo è stato la lunga opposizione della Chiesa gerarchica al liberalismo costituzionale, che essendo fondato sul sistema della rappresentanza a base elettorale non riconosce altra autorità che quella che deriva da tale percorso, e che fonda il government by discussion. Per la Santa Sede accettare quel principio significava mettere in crisi il principio della primazia gerarchica non contestabile, ormai interpretata come una forma di monarchia sacralizzata. Solo quando si capì – ma tutto sommato si dovette attendere il tornante della seconda guerra mondiale – che si sarebbe potuto affermare che una cosa erano i principi nel campo politico-profano, altra cosa quelli in materia di governo della Chiesa, la faccenda si stemperò (ma vorrei ricordare che i vescovi italiani ancora negli anni ’50 e primi ’60 del secolo scorso si opposero alla cosiddetta apertura a sinistra sulla base del principio che non potevano accettare che fossero dei laici a decidere cosa era bene e cosa male in politica).
Il secondo fenomeno è la volontà di una ampia fetta di classe dirigente cristiana in alcuni paesi (Italia, Francia, Germania, Belgio) di non essere tagliata fuori dalla vita costituzionale dei rispettivi Stati. Furono gli uomini di queste classi dirigenti (in cui erano da annoverare sia laici che sacerdoti) a comprendere che il sistema basato sull’elettorato di massa (sempre più esteso) apriva ampi spazi per lo sfruttamento delle capacità aggregative del “mondo cattolico”, grazie a quella “forma partito” che dagli anni 70 dell’Ottocento in poi diveniva sempre più l’articolazione portante del governo dei sistemi parlamentari. È chiaro che in questo contesto basato sul mantenimento di identità subculturali l’inserzione dei cattolici in un sistema giudicato dalle loro gerarchie “sbagliato” poteva avvenire solo sulla base dell’affermazione che quel sistema poteva essere “convertito” ad una dimensione accettabile dalla dottrina della Chiesa. Per dirla con una battuta: democrazia non andava bene, a meno che non la si potesse far diventare “cristiana”.
In realtà questa risorsa si sarebbe rivelata come pienamente spendibile solo con la crisi della seconda guerra mondiale, che veniva dopo la prima, e che sembrava far toccare con mano l’avverarsi della profezia apocalittica delle gerarchie cattoliche sul naufragio della civiltà moderna. Allora si sarebbero aperte per il Papa e i vescovi occasioni di leadership sino a quel momento impensabili. Quando nel famoso radiomessaggio del Natale 1942 Pio XII lanciò il motto “non lamento, ma azione è il precetto dell’ora”, si intendeva proprio la necessità di cogliere l’opportunità di costruire un sistema politico alternativo al vecchio liberalismo.
Intendiamoci: non si trattava più di negare la centralità di un sistema fondato su rappresentanza, sovranità popolare, sistema dei diritti, e via elencando (fra l’altro negare quello avrebbe esposto al rischio di dare ragione alla critica comunista). Si trattava di avanzare la pretesa che “l’anima” del sistema politico che doveva uscire dalle macerie della guerra fosse l’anima “cristiana”. È importante notare questo aspetto, perché il cattolicesimo tese a presentarsi come coincidente tout court col cristianesimo, accettando alcune eccezioni di multiconfessionalità solo laddove questo sarebbe stato un indebolimento della stessa presenza cattolica, come era il caso della Germania Occidentale.
È questa la dinamica che ha portato i frutti notevoli della “democrazia cristiana” nel costituzionalismo occidentale. Infatti i “partiti cattolici” guadagnarono in molti paesi posizioni di leadership nella ricostruzione grazie al combinarsi nel cattolicesimo della presenza di classi dirigenti selezionate in vario modo (non necessariamente eroico) dalla temperie dell’antifascismo e delle resistenze con il bisogno di interpretazioni evolutive del sistema costituzionale classico (interpretazioni che erano maggiormente alla portata di quelle classi dirigenti che avevano, per vari percorsi, condiviso il travaglio della cultura europea degli anni fra le due guerre).
Qualche riflessione andrebbe spesa su due aspetti. Il primo è che in parallelo alla crescita di capacità politica delle diverse classi dirigenti “democratico-cristiane” si assistette ad un progressivo tramonto della capacità di leadership delle strutture legate alla Santa Sede (si pensi alla modesta prova che in questi decenni diede quello che avrebbe dovuto essere un foyer intellettuale come La Civiltà Cattolica). Il secondo è che a livello nazionale le vicende di quelle classi dirigenti furono fortemente condizionate dagli specifici contesti di riferimento. Se in Italia la Dc poté rimanere a lungo un partito cardine della costruzione del consenso nazionale senza avere veri sfidanti alla sua egemonia, in Germania la Cdu-Csu perse la sua insostituibilità già a metà degli anni Sessanta per la capacità della Spd di attrarre anch’essa movimenti di “rinascita morale” (se mi si consente questa formula sbrigativa), mentre in Francia l’Mrp era in crisi già a metà degli anni Cinquanta, perché quel paese disponeva di una ideologia “nazionale” radicata di cui il movimento cattolico non aveva potuto impossessarsi (De Gaulle, che era personalmente cattolico, si rifece all’ideologia nazionale non a quella “cristiana”). Del resto, se si pensa al caso della Gran Bretagna, si vede bene come in presenza di una ideologia di coesione nazionale solidamente presente fuori dei riferimenti confessionali non ci sia mai stato spazio per partiti “cristiani”, nonostante vari leader, a cominciare da Gladstone, avessero avuto posizioni di credenti impegnati.
Perché bisogna rifarsi a questa storia? Per la semplice ragione che se non la si conosce non si capisce che oggi qualsiasi discorso di “democrazia cristiana” è diventato impossibile. Il costituzionalismo liberaldemocratico fa parte della struttura della politica comunemente accettata, per quanto essa possa essere in crisi nel suo funzionamento. Il pluralismo è ormai rafforzato dalle trasformazioni sociali intercorse nell’ultimo ventennio, trasformazioni che hanno portato a nuove mescolanze di popoli e religioni: sicché non c’è più bisogno di un partito “dedicato” perché le varie componenti subculturali della società possano difendere i loro spazi. Le vecchie sfide “totalitarie” al sistema di valori “occidentale” (che riconosceva se stesso come una forma laicizzata e razionalizzata della cultura cristiana) sono scomparse. Certo ne stanno nascendo altre, ma sono di natura più sfuggente, basate su esaltazioni dell’irrazionalità che sono più difficili da contenere sul piano di una lotta di tipo culturale-ideologico.
Ovviamente rimane in campo il problema della presenza nella sfera politica dei credenti. Preferisco questo termine a quello generico di “cristiani”, perché oggi mi pare assai debole la identificazione delle comunità ecclesiali con una peculiare forma di inquadramento subculturale valido indistintamente per tutti i loro membri (più o meno stabili che siano). Per il credente, cioè per colui che consapevolmente intende spendere la sua “chiamata” (specifica) nella sfera del politico, c’è oggi un problema di impegno e di testimonianza, non un problema di inquadramento in un partito o movimento predeterminato.
Quel che poteva dare sul piano politico il cristianesimo come sistema culturale diffuso (e costituente la base del “comune sentire” anche presso coloro che non erano credenti in senso proprio), l’ha già dato nel ventennio ricostruttivo dopo il 1945. Non è fuori luogo dire che esso ha quanto meno concorso in maniera determinante all’impianto solidaristico e fondato sulla tutela delle opportunità di sviluppo delle persone e delle comunità, impianto che è proprio del costituzionalismo europeo della seconda metà del Novecento. Oggi quel ruolo non può più essere esercitato perché non esiste più quel contesto sociale che chiedeva le affermazioni sopra riportate come necessità di tutela del proprio sviluppo futuro. Ormai si ritiene che quell’impianto abbia dato origine a dei “diritti” nel senso privatistico del termine e questo ne ha minato la forza “costituente”.
Certamente vi è ancora spazio per il messaggio religioso, ma quando questo torni ad essere esercitato in senso proprio: le domande sul fine ultimo di ciascuna vicenda umana, sulla possibilità di “redenzione” della storia individuale e collettiva, sulla sfida al ridimensionamento di se stessi rispetto alla responsabilità collettiva a cui ciascuno è chiamato, sul rapporto fra sacrificio individuale e sua efficacia nel contesto storico dato. Naturalmente sono domande che non si pone solo la religione cristiana, anche se i cristiani pensano che la loro risposta abbia una forza particolare perché particolarmente forgiata da un rapporto col razionalismo greco-romano, all’origine del razionalismo occidentale.
In un mondo che affronta una formidabile crisi di transizione come è sotto gli occhi di tutti, per i cristiani c’è da evitare la trappola della religione come consolazione a buon mercato o come creatrice di tabù morali in grado di tenere sotto controllo le deviazioni di onnipotenza che assillano l’uomo d’oggi ed anche i sistemi culturali in cui è coinvolto. Si può ben capire che talora le chiese, specie una particolarmente strutturata come è quella cattolico-romana, possano subire la fascinazione delle sirene che offrono loro i ruoli del “rassicuratore sociale”, oppure del suo opposto speculare, il “profeta a buon mercato”.
Questo sarebbe comunque deleterio per il ruolo delle chiese e dei credenti: ma se si soggiacesse all’illusione di trasformare tutto ciò in una presenza politica organizzata, sarebbe ulteriormente distruttivo.

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