Vasilij Grossman
Tutto scorre...
Adelphi, Milano 1987 [1970], pp. 33-35
E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione.
Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori.
Era morto Stalin! Gli uni furono presi da un sentimento di dolore: in alcune scuole gli insegnanti fecero inginocchiare gli alunni e, postisi loro stessi in ginocchio, spargendo lacrime diedero lettura del comunicato ufficiale sul decesso del Capo. Durante le assemblee funebri, nei ministeri e nelle fabbriche, molti furono presi da attacchi isterici, si udivano pianti convulsi e grida terrificanti di donne, alcune cadevano svenute. Era morto il grande Dio, l’idolo del ventesimo secolo, e le donne singhiozzavano…
Altri vennero presi da un senso di felicità. Le campagne, che soffocavano sotto il peso di piombo del pugno staliniano, tirarono un sospiro di sollievo.
Il giubilo invase milioni e milioni di persone rinchiuse nei lager.
Colonne di detenuti stavano andando al lavoro nel buio profondo. L’abbaiare dei cani poliziotto copriva il ruggito dell’oceano. E all’improvviso, come la luce dell’aurora boreale, cominciò a filtrare tra i ranghi: «È morto Stalin!». Decine di migliaia di persone sotto scorta si passavano l’un l’altro la notizia, sussurrando: «è crepato… è crepato», e quel sussurrare di migliaia e migliaia cominciò a fischiare come un vento. La nera notte regnava sulla terra polare. Ma il ghiaccio sul mare Artico si era rotto, e l’oceano ruggiva.
Non furono pochi, tra i dotti così come tra gli operai, coloro che a quella notizia mescolarono al dolore il desiderio di ballare dalla gioia.
Un turbamento si produsse nell’attimo in cui la radio trasmise il bollettino della salute di Stalin: «respirazione Cheyne-Stokes… urine… polso… pressione sanguigna…». Il capo divinizzato svelava d’un tratto la sua vecchia carne impotente.
Stalin è morto! V’era in quella morte un elemento di libertà repentina, infinitamente estranea alla natura dello Stato staliniano.
Quella repentinità fece tremare lo Stato, come lo aveva fatto tremare l’altra, piombatale addosso il 22 giugno 1941.
Milioni di persone vollero vedere il defunto. Il giorno dei funerali di Stalin non solo Mosca ma anche le province, le regioni, si precipitarono alla Casa dei Sindacati. La fila dei camion provenienti dalla provincia si allungava per molti chilometri. L’ingorgo del traffico raggiunse Serpuchov, dopodiché la paralisi bloccò l’autostrada tra Serpuchov e Tula.
A milioni si recarono a piedi verso il centro di Mosca. Torrenti di persone, quasi neri fiumi scricchiolanti nel disgelo, si urtavano, si schiacciavano sopra le pietre, torcevano, spaccavano le macchine, scardinavano portoni di ferro. Quel giorno morirono a migliaia. Il giorno dell’incoronazione dello zar sulla Chodynka sbiadisce se paragonato al giorno della morte del russo dio terreno: il butterato figlio di un ciabattino della città di Gori.
Sembrava che la gente andasse a morire sotto la spinta di un incantesimo, votata al sacrificio da una mistica cristiana o buddhista. Come se Stalin, il grande pastore, finisse di sterminare le pecorelle – che non gli era riuscito di acciuffare -, postumamente eliminando l’elemento della casualità dal suo minaccioso piano generale.
Radunatisi in seduta, i compagni e collaboratori di Stalin lessero mostruosi comunicati delle milizie moscovite, degli obitori – e si scambiarono occhiate. Il loro smarrimento si fondeva con la sensazione, nuova per loro, di non provare più paura dinanzi all’ira inevitabile del grande Stalin. Il padrone era morto.
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