martedì 11 novembre 2014

Un testimone della Grande Guerra: Maurice Genevoix







                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            Esiste un famoso repertorio critico dei testi pubblicati da quanti hanno vissuto l’esperienza della guerra tra il 1914 e il 1918: Jean-Norton Cru, Témoins, Presses Universitaires de Nancy 1993 [ed. or. Les Etincelles, Paris 1929, il corpus dei testi esaminati si ferma al 1928]. Dopo un attento esame critico, i diversi autori erano classificati lungo una scala da uno a sei in base al valore di verità riscontrabile nei loro testi: nullo (VI), molto debole (V), mediocre (IV), abbastanza buono (III), buono (II), eccellente (I). Maurice Genevoix stava, con altri 28, tra gli eccellenti e si lasciava indietro nomi famosi della letteratura di guerra come Barbusse e Dorgelès (tutti relegati al livello IV). Non basta: a parte, nelle pagine a lui dedicate era visto come il migliore in assoluto: “Tra tutti gli autori di guerra Genevoix occupa il primo posto, indubbiamente”.
Qualcuno di recente ha ancora sostenuto che l’opera di questo scrittore recava il segno di un “realismo documentario, quasi naturalista” (B. Fayet). Non per nulla Genevoix aveva presentato alla fine dei suoi studi una tesi sul realismo dei romanzi di Maupassant. E Norton Cru, a suo tempo, precisava: “Quali sono dunque le qualità di narratore che non ho temuto di chiamare il genio di Genevoix? Ha saputo raccontare la sua campagna di otto mesi con la più scrupolosa esattezza, vietandosi ogni abbellimento dovuto all’immaginazione”… 
Tuttavia, se gli abbellimenti sono esclusi, non manca però nella scrittura di Genevoix una tendenza marcata all’amplificazione cosmica dei sentimenti. Niente di nuovo, per carità. Anche Zola non aveva uno stile così asciutto come la formula del naturalismo farebbe supporre, il ricorso alle metafore da parte sua porta molto lontano dalla semplice e minuta osservazione dei fatti oggettivi.
Per Genevoix ci limiteremo a due esempi, la vittoria della Marna e la morte del suo caro amico Porchon. La Marna prima di tutto. E’ un evento di
grande rilevanza per la massa dei soldati schierati al fronte. In Genevoix diventa un fatto individuale, una esplosione del sentimento che trova conferma in una vera metamorfosi del mondo percepito dai sensi dello scrittore. L’evento è nell’aria, prima ancora di essere distintamente avvertito. “Arrivo in mezzo ad artiglieri letteralmente sollevati dalla gioia. Manovrano con una velocità, una precisione, una lena che mi colpiscono. […] Tutti si divertono, scherzano, ridono fragorosamente. […] Ma questa generale gaiezza a poco a poco si insinua in me come un contagio benefico. Ho l’impressione che proprio in questo momento qualcosa accada di assai felice, di assai esaltante. E chiedo a un tenente, che scruta al binocolo fremendo con tutto il corpo:
“Va tutto bene?”
 Si gira verso di me. La gioia che gli riempie il petto illumina il suo volto. Ha un riso di felicità esuberante:
“Certo che va! Ma quelli non reggono più! Scappano come lepri”
[…] Un’ondata di gioia mi sconvolge, uno slancio fortissimo e dolcissimo, fervente, religioso. Fosse vero! Fosse vero! La spaventevole tensione nervosa che mi stringeva da ore si è rotta di colpo. Mi sento molto piccolo, molto debole, con un grande desiderio di piangere a lungo, senza ritegno.”
Veniamo ora alla morte dell’amico. La notizia viene appresa per caso da un soldato che racconta a un altro l’accaduto. Sul momento lo sconcerto viene meno e di fronte allo sguardo fraterno di Rolland, involontario messaggero di sventura, la rivolta che assorbiva ogni forza si era tramutata in sottomissione: “mi era sembrato di inginocchiarmi davanti a questa morte del mio amico”.
Subito dopo si va a capo, come stiamo facendo qui, e parte un altro discorso: “La cosa mi ha afferrato solo molto tempo dopo, nell’incavo di
argilla umida dove ero tornato a sedermi, tra Lardin e Bouaré:  una freddezza dura, una indifferenza disgustata per tutte le cose che vedevo, per l’ignominia del fango e la miseria dei cadaveri, per il giorno triste sul crinale, per l’accanimento delle granate… Non sento nemmeno più la mia
stanchezza; non ho più timore per nulla, nemmeno per lo schiacciamento delle mie ossa sotto uno di questi enormi crolli, né per la lacerazione della mia carne sotto il morso delle schegge d’acciaio. Non ho più pietà dei vivi […] E’ solo questo: una  freddezza dura, una indifferenza disseccata, simile a una contrattura dell’anima. Cadete ancora, ancora finché vorrete, grosse granate, torpedini e bombe! Schiacciate, tuonate, sollevate la terra in zolle mostruose! Ancora più in alto! Più in alto! Come è grottesco, mio Dio, tutto ciò…” La lunga maledizione partecipata che si riverbera su tutta la scena, sugli uomini e sulle cose non finisce qui e poi si passa a un richiamo della terra da cui proveniva Porchon, la Beauce, e poi c’è la caduta di una granata e si innesca un’altra riflessione su quanto è facile morire. La vita è assurda, tutto è assurdo. E la vita al fronte riprende con il suo strascico abituale di morte.Allora il realismo documentario non è una formula atta a coprire queste esplosioni congiunte di passioni e di proiettili. Genevoix è all’altezza della guerra anche quando sovrappone il dato esterno al sentimento. In un caso come il suo l’efficacia documentaria del testo proviene dalla densità semantica della scrittura. L’arte aggiunge e non sottrae verità. 


Le citazioni sono tratte da Maurice Genevoix, Ceux de 14, Seuil, Paris 1984 

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