L'estate di Clinton. Il trionfo della vita sull'ipocrisia
L’euforico e generalizzato atteggiamento di condanna che, sul finire
degli anni novanta, la società americana riserva allo scandalo
Clinton-Lewinsky è il medesimo con cui la comunità di Athena –
immaginaria cittadina universitaria del Berkshire, nel New England –
censura l’ultima, straordinaria, storia d’amore di Coleman Silk. Non
sembra ammissibile che, alla sua età e con la sua ragguardevole cultura,
l’ex docente di lettere possa avere una relazione con una donna incolta e tanto più giovane di lui. (Luca Alvino, Minima & Moralia)
Philip Roth
La macchia umana
traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi, Torino 2005
Capitolo primo
Tutti sanno
Fu nell’estate del 1998 che il
mio vicino Coleman Silk – che
prima di andare in pensione, due
anni addietro, era stato per una
ventina d’anni professore di
lettere classiche al vicino Athena
College, dove per altri sedici
aveva fatto il preside di facoltà –
mi confidò che all’età di
settantun anni aveva una relazione
con una donna delle pulizie
trentaquattrenne che lavorava al
college. Due volte la settimana
questa donna puliva anche l’ufficio
postale, una piccola baracca
rivestita di scandole grigie che
pareva aver protetto una famiglia
di braccianti dai venti della
Dust Bowl negli anni trenta e
che, piantata solinga e derelitta a
metà strada tra la pompa di
benzina e l’emporio, fa sventolare
la bandiera americana
all’incrocio delle due strade che
caratterizzano il centro
commerciale di questa cittadina di
montagna.
Coleman l’aveva vista per la
prima volta mentre lei lavava il
pavimento dell’ufficio postale
nel tardo pomeriggio di un giorno
in cui, qualche minuto prima
della chiusura, era andato a ritirare
la corrispondenza: una donna
esile, alta e angolosa con i
capelli tra il biondo e il grigio
raccolti in una coda di cavallo e
quei tratti del viso severamente
scolpiti, associati di solito alle
devote e laboriose massaie del
New England che hanno dovuto
sopportare gli stenti della vita
coloniale, austere donne prigioniere
della moralità dominante e di
questa stessa moralità rispettose.
Si chiamava Faunia Farley, e
qualunque fosse la sua infelicità,
la teneva nascosta dietro uno di
quegli inespressivi volti ossuti
che, senza nulla celare,
tradiscono un’immensa solitudine. Faunia
abitava in una stanza di una
fattoria del posto dove, per pagare
l’affitto, collaborava alla
mungitura. Aveva fatto due anni di
scuole superiori.
L’estate in cui Coleman mi fece
le sue confidenze su Faunia
Farley e il loro segreto fu, in
modo abbastanza appropriato,
l’estate in cui il segreto di
Bill Clinton venne a galla in ogni suo
minimo e mortificante dettaglio:
in ogni suo minimo e vivido
dettaglio, là dove la vita, come
la mortificazione, stillava
dall’asprezza dei dati
specifici. Non avevamo avuto una stagione
come quella da quando qualcuno
era incappato nella nuova Miss
America nuda in un vecchio numero
di «Penthouse», foto di
lei elegantemente in posa in
ginocchio e sdraiata sulla schiena
che costrinsero la ragazza, piena
di vergogna, a restituire la
corona per diventare, in un
secondo tempo, una celebre pop star.
Quella del novantotto nel New
England fu un’estate di sole e
di uno squisito tepore; l’estate
– nel baseball – di una mitica
battaglia tra un dio degli home
run bianco e un dio degli home
run di pelle scura; e, in
America, l’estate di un’orgia colossale di
bacchettoneria, un’orgia di
purezza nella quale al terrorismo –
che aveva rimpiazzato il
comunismo come minaccia prevalente
alla sicurezza del paese –
subentrò, come dire, il pompinismo, e
un maschio e giovanile presidente
di mezza età e un’impiegata
ventunenne impulsiva e
innamorata, comportandosi nell’Ufficio
Ovale come due adolescenti in un
parcheggio, ravvivarono la piú
antica passione collettiva
americana, storicamente forse il suo
piacere piú sleale e sovversivo:
l’estasi dell’ipocrisia. Nell’aula
del Congresso, sulla stampa e
alla televisione, i cialtroni tronfi
e morigerati, smaniosi
d’incolpare, deplorare e punire, facevano
i moralisti a piú non posso:
tutti in un parossismo calcolato di
quello che Hawthorne (il quale,
negli anni tra il 1860 e il 1870,
abitava a non molte miglia dalla
porta di casa mia) identificò, nel
paese nascente di tanto tempo fa,
come «lo spirito di persecuzione»; tutti ansiosi di celebrare gli
astringenti riti purificatori che avrebbero estirpato l’erezione
dall’esecutivo, rendendo cosí la situazione abbastanza
confortevole e sicura
perché la figlia decenne del
senatore Lieberman potesse riprendere a guardare la tivú col suo
imbarazzato paparino. No, se non siete vissuti nel 1998 non sapete
cos’è l’ipocrisia. Il columnist conservatoreWilliam F. Buckley
scrisse nella sua rubrica:
«Quando lo fece Abelardo, fu
possibile evitare che si ripetesse», insinuando che il modo migliore
di rimediare all’illecito presidenziale – quella che Buckley
definiva, altrove, l’«incontinente carnalità di Clinton» –
forse non era una cosa incruenta come l’impeachment ma, piuttosto,
il castigo che nel dodicesimo secolo venne inflitto al canonico
Abelardo dal coltello dei compari del collega ecclesiastico di
Abelardo, il canonico Fulberto, per vendicare la seduzione e il
matrimonio segreto con la nipote di Fulberto, la vergine Eloisa.
Diversamente dalla fatwa di Khomeini che condannava a morte Salman
Rushdie, l’intenso desiderio nutrito da Buckley per la pena
correttiva della castrazione non comportava incentivi finanziari per
il possibile esecutore. Questa era suggerita, tuttavia, da uno
spirito non meno severo di quello dell’ayatollah, e in nome di
ideali non meno elevati.
Era estate, in America, quando
tornò la nausea, quando non
cessarono gli scherzi, quando non
cessarono le congetture e le
teorie e le iperboli, quando
l’obbligo morale di spiegare ai propri
figli la vita degli adulti fu
abrogato per tenere viva in loro ogni
illusione sulla vita degli
adulti, quando la meschinità della
gente apparve semplicemente
schiacciante, quando una specie
di demone era stato sguinzagliato
nel paese e, da ambo le parti,
la gente si chiedeva: «Perché
siamo cosí pazzi?», quando uomini
e donne, svegliandosi al mattino,
scoprivano che durante la notte,
in un sonno che li aveva
trasportati oltre l’invidia o il ribrezzo,
avevano sognato la spudoratezza
di Bill Clinton. Sognai io
stesso un gigantesco striscione,
dadaisticamente teso come uno
degli involucri di Christo da un
capo all’altro della Casa Bianca,
con la scritta qui abita un
essere umano. Era l’estate in cui – per
la miliardesima volta – il
casino, il pasticcio, il guazzabuglio si
dimostrò piú sottile
dell’ideologia di questo e della moralità di
quello. Era l’estate in cui il
pene di un presidente invase la mente
di tutti e la vita, in tutta la
sua invereconda sconcezza, ancora
una volta disorientò l’America.
versione cinematografica con lo stesso titolo (The Human Stain), regia di Robert Benton, interpreti: Anthony Hopkins, Nicole Kidman, Ed Harris e altri, USA 2003, durata h 1.46
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