Gian Antonio Stella
Corriere della Sera, 29 novembre 2014
«Sono un po’ stanchino», ha scritto sul suo blog citando Forrest Gump. C’è da credergli: come Tom Hanks nel film di Robert Zemeckis era partito così, senza una meta precisa («Quel giorno, non so proprio perché decisi di andare a correre un po’») e si era ritrovato con l’illusione di avere in pugno il Paese. Dove abbia cominciato, Beppe Grillo, a sprecare l’immenso patrimonio che di colpo si era ritrovato in dote alle elezioni del 2013 non si sa. Forse il giorno in cui apparve sulla spiaggia davanti alla sua villa con quella specie di scafandro, misterioso e inaccessibile come un’afghana sotto il burka. Forse quando, avvinazzato dai titoli dei giornali di tutto il mondo, rifiutò per settimane ogni contatto con la «vil razza dannata» dei giornalisti nostrani compresi quelli corteggiati nei tempi di vacche magre. Forse quando, scartando a priori ogni accordo, plaudì ai suoi che rifiutavano perfino di dire buongiorno agli appestati della vecchia politica o si disinfettavano se per sbaglio avevano allungato la mano a Rosy Bindi. O piuttosto la sera in cui strillò al golpe e si precipitò verso Roma invocando onde oceaniche di «indignados»: «Sarò davanti a Montecitorio stasera. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Qui si fa la democrazia o si muore!». Dopo di che, avuta notizia di un’atmosfera tiepidina, pubblicò un post scriptum immortale: «P.s. Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...». E le barricate contro i golpisti? Uffa...
Certo è che mai ora, dopo aver perso tra abbandoni ed espulsioni 15 senatori e 7 deputati con la prospettiva di perderne altri ed essere uscito a pezzi dalle ultime regionali che aveva solennemente annunciato di stravincere («Ci dobbiamo prendere Calabria ed Emilia-Romagna. Sarà un successo, mai stato così sicuro») Grillo si ritrova a fare i conti con un dubbio: non avrà perso il biglietto della lotteria? Non sarebbe il primo. Smarrì il suo biglietto vincente Guglielmo Giannini, dopo aver portato con l’Uomo Qualunque trenta deputati (tantissimi: il quadruplo degli azionisti) all’Assemblea costituente. Lo smarrì Mario Segni, che dopo il referendum pareva destinato a raccogliere l’eredità della Dc. Lo ha smarrito Antonio Di Pietro, del quale Romano Prodi disse «quello si porta dietro i voti come la lumaca il guscio».
I voti perduti
Il guaio è che lui stesso sembra sempre meno convinto di esser
ineluttabilmente destinato a vincere. E fa sempre più fatica a spacciare
per vittorie certe batoste. E in ogni caso, ecco il problema
principale, sono sempre meno convinti di vincere quanti avevano visto in
lui l’occasione per ribaltare tutto. Non ripassano, certi autobus. Una
volta andati, ciao. Prendete la Calabria: conquistò 233 mila voti (quasi
il 25%), alle politiche del 2013. Ne ha persi l’altra settimana
duecentomila. E quando mai li recupererà più? Con questa strategia, poi!
«Non ci sono più parole per descrivere il lento e inesorabile, ma
tutt’altro che inevitabile, suicidio del Movimento 5 Stelle», ha scritto
ieri Marco Travaglio, che pure non faceva mistero di averlo votato. «Un
suicidio di massa che ricorda, per dimensioni e follia, quello dei 912
adepti della setta Tempio del Popolo, che nel 1978 obbedirono all’ultimo
ordine del guru, il reverendo Jim Jones, e si tolsero la vita tutti
insieme nella giungla della Guyana».
Citazione curiosamente appropriata.
Basti riprendere un numero di «Sette» del 1995. Il titolo di
un’intervista all’allora comico diceva tutto: «Quasi quasi mi faccio una
setta». Beppe Grillo non era già più «soltanto» un istrione da teatro.
Girava l’Italia in 60 tappe con lo show «Energia e informazione»,
irrompeva all’assemblea della Stet rinfacciando all’azienda telefonica i
numeri hot a pagamento, attaccava le multinazionali, incitava ad
«accelerare la catastrofe economica. Per l’esplosione del consumismo.
Potremmo comprare cose inesistenti: elettroseghe per il burro,
spazzolini da due chili monouso che dopo esserti lavato una volta li
butti in mare per ammazzare i pesci...». Faceva ridere. E spiegava che
proprio per quello gli andavano dietro: «Perché sono un comico. Perché
non fabbrico niente. Perché chi parla contro i gas fabbrica le maschere
antigas. Invece io, non vendendo né gas né maschere antigas, sono
credibile. Che ci guadagno?». Ed è su questa domanda che è andato a
sbattere. Brutta bestia, il potere. Guadagnato quello, il bottino più
ambito di chi fa politica, è andato avanti sparandola sempre più grossa.
Nella convinzione che ogni urlo, ogni invettiva, ogni insulto portasse
ancora voti, voti, voti...«Ogni voto un calcio in culo ai parassiti che
hanno distrutto il Paese». «Facendo a modo nostro saremo più poveri per i
prossimi 4-5 anni, ma senza dubbio più felici». «Apriremo il Parlamento
come una scatola di tonno». «Il Parlamento potrebbe chiudere domani. È
un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della
Seconda Repubblica». «Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le
stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi
deviati dall’eroe».
Parole pesanti
E poi barriti contro le tasse: «Siete sicuri che se pagassimo tutti le tasse questo Paese sarebbe governato meglio? Ruberebbero il doppio». Contro l’ultimo espulso: «Un pezzo di merda». Contro Equitalia: «È un rapporto criminogeno tra Stato e cittadini». Contro l’inceneritore di Parma: «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?» Contro gli immigrati: «Portano la tubercolosi». Sempre nella convinzione che il «suo» movimento potesse prendere voti a destra e a sinistra, tra i padani e i terroni, tra i qualunquisti e i politicizzati democrazia cubo. Un «partito-tutto» contro tutto e tutti. Finché, di sconfitta in sconfitta, non si è accorto che qualcosa, nel rapporto col «suo» popolo, si stava incrinando. Che lui stesso stava smarrendo l’arte superba di saper mischiare insieme la potenza della denuncia e la leggerezza dei toni. Finché arrivò il momento che, in una piazza qualsiasi, si accorse che la solita battuta non tirava più. Capita anche ai clown più ricchi di genio. Ma loro, se vogliono, possono inventarsi un altro numero.
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