Andrea Colombo
Follett, il secolo breve finisce nel
bestseller cult
il manifesto, Alias, 26 ottobre 2014
Prendete un paio di ragazzi che si amano,
contrastati e ostacolati da traversie di ogni genere: guerre, crisi e cataclismi
ma anche diversa appartenenza di classe, trame subdole, orgogli e pregiudizi.
È la struttura eterna del romanzo rosa, e prima di storcere
l’aristocratico nasino ricordate che precisamente a partire da questa
popolarissima struttura hanno scritto e creato ragazze dotate come
Jane Austen o Edith Wharton. Se poi i contrastati amori sono
tanti, scaglionati nelle vicissitudini di cinque famiglie sparse in quattro
Paesi (Usa, Russia, Germania e Inghilterra) le cui storie, nell’arco
di tre generazioni, si incontrano, si sfiorano e spesso si intrecciano;
se infine le peripezie in questione derivano tutte dagli sconvolgimenti
susseguitisi senza posa nel secolo che inizia con un colpo di pistola
a Sarajevo e termina sotto le macerie di un Muro, allora il fumettone
rosa lievita sino a diventare romanzo storico. Più precisamente il
primo e ambizioso tentativo di tradurre in letteratura popolare
e di vasto consumo il Secolo breve di Eric Hobsbawm. Nello specifico
la Century Trilogy di Ken Follett.
La formula può sembrare elementare, ma si
sa che per fare bene le cose che paiono semplici bisogna essere maestri. Nel
suo genere Ken Follett indiscutibilmente lo è, e la sua trilogia
funziona. Ipnotizza a dovere il lettore e fornisce un quadro
storico più che adeguato, a tratti approfondito e anticonvenzionale,
come quando spiega le ragioni della Germania nella prima guerra mondiale
e del Giappone nella seconda, oppure parzialmente rivaluta un presidente
americano tanto meritorio nella politica interna quanto disdicevole in
quella estera, Lyndon Johnson, e ne demolisce invece uno assurdamente
sopravvalutato, Ronald Reagan.
Follett ha consapevolmente deciso di
sacrificare lo spessore dei suoi personaggi alla precisione della ricostruzione
storica. In ciascuno dei tre romanzi i personaggi principali cambiano,
perché lo scrittore sceglie il ricambio generazionale, seguendo di volta
in volta le nuove leve e relegando sullo sfondo i genitori e i
nonni, già protagonisti dei romanzi precedenti. Difficile pensare che
un autore tanto esperto e smagato non si rendesse conto di togliere,
così, molto ai suoi protagonisti, abbandonati appena varcata la soglia
della giovinezza. Però altra strada per raccontare il Novecento non solo
negli eventi storici ma anche nelle trasformazioni profonde, quelle culturali
e delle mentalità, non c’era. Perché sono i giovani a incarnare,
vivere sulla pelle, veicolare e imporre quei cambiamenti radicali: da
una società vittoriana alla liberazione sessuale degli anni sessanta, da
una società che alle donne negava tutto alla rivoluzione femminile, da un
assetto sociale ancora centrato sul potere dell’ancien régime, sulle
barriere di classe e su quelle razziali, al loro abbattimento, sia pur
non ancora completato. E sono stati i giovani, anzi i giovanissimi,
a combattere quando le guerre sono diventate incandescenti: nei due
conflitti mondiali, in Spagna, in Vietnam.
I giorni dell’eternità (Mondadori, pp. 1218, euro 20,00), il volume che completa
la trilogia e che ha sùbito spopolato anche nelle classifiche italiane,
inizia con la costruzione del Muro, finisce con la sua distruzione. In
mezzo c’è di tutto: la crisi di Cuba, la lotta dei neri per i diritti
civili, il rock e gli hippies, il Vietnam e l’invasione della Cecoslovacchia,
Watergate e le sporche guerre della Cia, Solidarnosc e la Glasnost.
Probabilmente è il migliore dei tre romanzi, forse perché qui Follett,
classe 1949, nato nel Galles ma trasferitosi nella capitale a dieci
anni, proprio quando le tinte sfolgoranti della Swinging London
sostituivano il grigiore di un lunghissimo dopoguerra, parla per esperienza
diretta e si può basare su un materiale più vivace e dettagliato
per tratteggiare le figure storiche reali.
Nei volumi precedenti i personaggi
storici, da Churchill a Lenin e Stalin, avevano fatto fugaci apparizioni.
Qui invece campeggiano, grazie a un ovvio espediente: molti dei personaggi
sono collaboratori diretti dei fratelli Kennedy, di Luther King, Chruscev,
Kosygin, Gorbaciov. La guerra fredda è così descritta dall’interno
delle tolde di comando, e il risultato è tanto avvincente quanto il
thriller meglio congegnato, forse di più. Un altro gruppo di protagonisti
abita invece palcoscenici di altra natura: quelli delle diverse scene rock
dell’epoca, dai club londinesi dei primi anni sessanta alla Haight-Ashbury
hippe fino ai grandi concerti da stadio degli ottanta. Per quanto le due
realtà si incrocino frequentemente, Follett le adopera per scopi
distinti: i politici per mettere in scena gli eventi storici, le rockstar
per descrivere la cultura ribelle degli anni sessanta e settanta.
C’è una seconda differenza sostanziale,
oltre alla centralità dei personaggi storici, tra l’ultimo tassello della
trilogia e i precedenti: l’arco cronologico è molto più ampio.
La caduta dei giganti abbracciava un decennio, dal 1914 al 1924. L’inverno
del mondo copriva gli anni bui dei totalitarismi, dalla presa del
potere di Hitler nel 1933 all’inizio della guerra fredda nel 1947. Il terzo
libro si estende lungo ben 29 anni: dal 1960 al 1989. Il risultato è una
sproporzione che l’autore riesce a risolvere bene sul piano narrativo,
non altrettanto su quello storico. La prima metà del trentennio in questione,
dalla edificazione del Muro alle dimissioni di Nixon, occupa 1068 pagine
e mantiene inalterato lo sguardo a tutto campo con cui Follett
aveva affrontato le due guerre mondiali, la rivoluzione russa, i totalitarismi.
L’ultimo scorcio del secolo breve è invece una ricognizione a volo
d’uccello, con l’obiettivo ristretto solo sul crollo dei regimi dell’est. Resta
così tagliata fuori dalla storia del Novecento l’offensiva vincente neoliberista,
la sterzata storica che ha letteralmente dato forma all’assetto sociale
nel quale siamo a tutt’oggi infelicemente immersi. Basti dire che non
una sola volta, nel libro, è nominata la signora Margaret Thatcher,
che pure sta a quella controrivoluzione come Lenin alla rivoluzione
del 1917 ed è senza dubbio una delle principali protagoniste della
storia del secolo scorso.
Forse non si tratta solo di una cancellazione
dovuta a esigenze di spazio. Lo sguardo di Follett non è, né pretende
di essere, al di sopra delle parti. Militante laburista sin da giovanissimo,
lo scrittore è sposato con una dirigente del Labour tre volte
eletta in parlamento, Barbara Broer, ed è da sempre uno dei più attivi
sostenitori del partito. È stato ed è ancora un blairiano convinto.
La parabola del Novecento, nella sua trilogia, è un percorso tragico
e contrastato ma ineluttabile verso la luce e il progresso. Da
un’Europa tiranneggiata dall’ancien régime e poi dalle dittature
alla festa democratica del Muro abbattuto; da una condizione femminile
relegata nell’angolo dell’inferiorità permanente alla conquista progressiva
della parità; dalla discriminazione razziale all’elezione del primo presidente
nero degli Usa, citata in un «Epilogo» appositamente aggiunto. I guasti
delle società democratiche ci sono, ma derivano dall’inquinamento di componenti
che di democratico hanno ben poco, come la Cia con le sue perenni trame,
e non ne intaccano l’essenza. La Century Trilogy è una storia
a lieto fine: le ombre del presente non potevano trovare spazio.
E neppure la loro genealogia, che nei conflitti del secolo breve
e nel loro esito finale affonda invece le radici.
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