venerdì 2 settembre 2016
Quel che resta di un amore
Cees Noteboom, Le volpi vengono di notte, Milano Iperborea 2009, trad. di Fulvio Ferrari
GONDOLE
Le gondole sono ataviche: non ricordava dove l'avesse letto e non voleva nemmeno starci a pensare, perché altrimenti, ne era convinto, il pathos dell'istante si sarebbe in parte dissolto. Un sole basso, la nera forma d'uccello di una gondola nella nebbia sulla laguna, le pesanti briccole, solitaria falange in marcia che si perdeva in lontananza nella sua missione di morte e distruzione sull'invisibile riva opposta, e lui lì, sulla Riva degli Schiavoni, con una foto ingiallita e mezzo strappata tra le mani: se non era pathos quello... Lì, più o meno, aveva attraccato la gondola, lì, a quella scala o a quella successiva, più vicina alla statua della partigiana fucilata semi immersa nell'acqua, erano scesi. Il tempo era più o meno lo stesso, lo si capiva ancora dalla foto. Si erano seduti sui gradini e quasi all'istante era arrivato un giovane ufficiale a dire che la scala doveva restare libera per la polizia portuale, e aveva indicato un cartello. Dunque adesso doveva cercare quel cartello, non doveva essere difficile. E se lo trovo? Mi troverò esattamente nello stesso punto dove mi trovavo quarant'anni fa, e allora? Si strinse nelle spalle, come se fosse stato qualcun altro a fargli quella domanda. E allora niente. E proprio questo, pensò, era il punto.
Aveva accettato l'incarico di scrivere qualcosa sulla mostra di Palazzo Grassi per poter compiere quello strano pellegrinaggio. Pellegrinaggio a un'ombra, no, nemmeno: a un'assenza. La scala l'aveva trovata subito, nelle città eterne le cose hanno la tendenza a non cambiare, e lì attraccava ancora la polizia portuale. Il cartello c'era ancora, attaccato al muro di mattoni di fianco. Ridipinto, questo sì. Si sedette sul gradino più in alto. Il giovane ufficiale di allora doveva essere in pensione da un pezzo, ma anche se in quei quarant'anni avesse conservato la sua giovinezza, non avrebbe riconosciuto l'uomo anziano che se ne stava lì seduto. La foto era stata scattata da uno sconosciuto che si era messo un po' più avanti, sul bordo della banchina, le spalle alla laguna.
Un angolo di trenta gradi, così in lontananza si vedeva anche il Palazzo Ducale. Osservò la foto, e come sempre si stupì della sua inaffidabilità. Non solo una foto poteva raffigurare una morta, ma poteva anche metterti sul piatto una versione fuori corso di te stesso, un giovane irriconoscibile con i capelli lunghi, in così perfetto stile con la sua epoca da dare alla foto l'aroma ammuffito di un tempo passato per sempre.
Che avesse ancora lo stesso corpo, questo era in realtà il miracolo. Ma naturalmente non era lo stesso corpo. Il suo proprietario portava ancora lo stesso nome, tutto qui.
Quel che voleva davvero dire quella foto, pensò più come una constatazione che come una forma di tragicità o di autocommiserazione, era che cominciava ormai a essere tempo che sparisse anche lui. Sedeva alla sua sinistra, allora. Lei teneva la testa alta, sorridendo all'ignoto fotografo, i capelli rossi erano tirati un po' indietro e anche il suo corpo leggero si piegava un po' all'indietro, appoggiandosi al muro che costeggiava la scala e coprendo in parte il cartello. Guardò l'acqua grigiastra che si muoveva piano in fondo alla scala. Era sorprendente che tutto fosse rimasto uguale! L'acqua, la forma delle gondole, il gradino di marmo su cui stava seduto. Solo noi scivoliamo via, pensò, lasciandoci dietro la scenografia della nostra vita. Passò la mano sulla superficie di pietra granulosa accanto a sé, come per sentire la sua assenza. Sapeva bene che tutti i pensieri che si potevano avere al riguardo erano cliché, solo che nessuno aveva mai risolto quegli enigmi. "Realtà e perfezione sono per me la stessa cosa": di chi era quella frase se lo ricordava. Si poteva dubitare che Hegel si riferisse alla situazione in cui si trovava lui, comunque sembrava adattarsi bene. Provava uno strano entusiasmo perché le cose erano quelle che erano, perché non c'era pensiero che le potesse dissolvere. La morte era qualcosa di naturale, ma si accompagnava a forme quasi intollerabili di dolore, tanto immense da desiderare di perdersi dentro per abbandonarsi alla perfetta realtà del mistero.
L'inizio era stato semplicissimo. Un'isola greca, la casa di amici di amici, tutto organizzato da loro perché faceva così pena dopo la sua separazione. Non era abituato a essere solo, era affamato di tutto ciò che sapeva di donna. Una stradina di pietra lungo il mare, dove camminavano o passeggiavano tutte quelle figure femminili cui avrebbe voluto rivolgere la parola, ma non osava farlo per paura di essere cacciato via tra le risa come un imbecille.
«Aggattarle» diceva il suo amico Wintrop. La parola era bella, ma non ne era mai stato capace. Com'era quel verso di Lucebert? "Vagabondo la sera lungo scafi di donna". Era così, in ogni caso. La passeggiata, avanti e indietro, e poi di nuovo. Passeggiare, vagare, guardare. Hydra, barche di pescatori bianche nella notte che si faceva scura, dolcemente cullate, illuminate dalle luci al neon. Rondini, cipressi, o se lo stava inventando adesso? C'erano già le luci al neon? Ma perché i suoi ricordi avrebbero dovuto essere veritieri? Mettici una luce gialla di lampioni, ascolta il richiamo di una civetta, guarda le forme nere dei pini. Il mare rimane lo stesso e batte piano contro la banchina. Tutto il resto è intercambiabile, l'arsenale con cui si arreda la memoria.
Non assomigliava a una nave quando gli passò davanti. O forse sì: molto leggera, con una sola piccola vela, pareva librarsi al di sopra dell'acqua. Doveva essere stato così ridicolo il modo in cui si era alzato di scatto dal molo facendo il gesto di un agente che vuoi fermare il traffico. E fu addirittura quel che disse: STOP! Ancora adesso ne provava imbarazzo. Anche se anni dopo, in California, quando tutto era ormai finito da tempo, ne avevano riso tante volte. Fu così sorpresa che si fermò immediatamente. Strano, non ricordava più se erano usciti insieme già quella prima sera. Rimasero a parlare a lungo in un bar sul porto. Americana, con un nome italiano. Sedici anni, diciotto, avrebbe voluto saperlo, ma non osò chiederlo. Aveva visto allora i segni che si era disegnata sulle mani e sulle braccia, i segni dello zodiaco, non tatuati, come se ne vedono parecchi oggi, ma tracciati con l'inchiostro nero sulla pelle bruna. Le aveva chiesto che cosa fossero, e lei aveva risposto soltanto: oh, io sono una strega. Anche di questo avrebbero riso in seguito, ma lui aveva conservato le sue lettere di quell'epoca, piene di chiacchiere su magia e incantesimi: fantasie che, come capì presto, non avevano alcun significato, ma che sul momento lo eccitavano. Si adattavano bene al periodo, ma soprattutto a quei capelli rossi, a quegli occhi color ardesia, alla voce sorprendentemente profonda, un po' roca. Nei giorni successivi aveva dormito da lui nella grande casa bianca. Da lui, ma non con lui. Era la condizione. Si lasciava accarezzare guardando dall'altra parte, poi scivolava in un sonno profondissimo, con l'assenza di un animale per cui il mondo non esiste più. Lui si sentiva un po' ridicolo e superfluo, ma la fiducia che gli dimostrava lo commuoveva. Meglio la compagnia dell'amore: aveva scritto qualcosa del genere nel suo diario. In seguito quel diario l'aveva buttato via e ora gli dispiaceva, quella frase comunque non l'aveva dimenticata. Qualche giorno dopo tutto era cambiato. Forse se lo stava inventando adesso, ma gli sembrava che lei avesse indicato uno di quegli strani segni che si era disegnata anche su altre parti del corpo e avesse detto qualcosa del tipo che era giunto il momento. Qualcosa che aveva a che fare con i pianeti, tutte storie che già allora gli sembravano idiozie.
In amore era astuta e infantile insieme, altre parole non gli venivano in mente. «Astuta» non l'aveva mai convinto, era la parola sbagliata, qualcosa di consapevole e forse anche di calcolato, ma neppure queste erano le parole giuste. Lui ne era eccitato perché attraverso quel voluto infantilismo si infiltrava un elemento di gioco proibito, come se lei volesse insinuargli che andava a letto con una bambina, una sensazione che non aveva mai più provato, né prima né dopo.
Tornò indietro in direzione della città. La mostra di Piero della Francesca l'aveva toccato nel profondo. Perché dovesse trovarci un parallelo con quella storia così lontana non lo capiva, forse solo perché sia il pittore che il ricordo gli occupavano la mente in quel momento, o forse perché in quei quadri c'era qualcosa di inaccessibile, qualcosa che corrispondeva alle brevi settimane in cui erano stati insieme. Non si poteva dire che fosse misteriosa, la storia della stregoneria era pura idiozia, ma la sua presente assenza di allora al suo fianco gli faceva pensare alle ieratiche figure dei quadri. Si era davanti, si desiderava penetrarvi con tutte le proprie forze, ma era un mondo a cui non c'era accesso. Non aveva la minima idea di cosa scrivere nel suo pezzo, come non sapeva che fare dei suoi ricordi.
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