venerdì 18 luglio 2014

Indigeni e immigrati al tempo della seconda internazionale

Michele Nani
«L’Internazionale degli operai» di Maria Grazia Meriggi per Franco Angeli. L’analisi di una ricca esperienza politica interrotta dalla Grande Guerra, ma che rivela una inedita attualità
il manifesto, 18 luglio 2014

Un secolo fa, nell’estate del 1914 il «man­cato con­gresso» dell’Internazionale sancì il «fal­li­mento» del movi­mento ope­raio dinanzi ai venti di guerra: le espres­sioni si devono a Geor­ges Haupt, che in un tut­tora indi­spen­sa­bile volu­metto edito nel lon­tano 1965 cercò di inda­gare sulle ragioni della «tra­gica fine di tutta un’epoca del socia­li­smo», con i lavo­ra­tori euro­pei con­trap­po­sti sui campi di bat­ta­glia, a pagare il prezzo di una guerra decisa da ristretti cir­coli politico-militari e cele­brata da intel­let­tuali di ogni ten­denza (tra­dotto in ita­liano da Samonà e Savelli nel 1970; una mira­bile sin­tesi si trova nella rac­colta postuma L’Internazionale socia­li­sta dalla Comune a Lenin, Einaudi ).

Oltre le divi­sioni nazionali

Dalla lezione di Haupt prende le mosse l’ultima ricerca di Maria Gra­zia Meriggi, che affronta in un’ottica di medio periodo e da mol­te­plici punti di osser­va­zione il pro­blema delle forme e dei limiti dell’internazionalismo dei lavo­ra­tori (L’Internazionale degli ope­rai. Le rela­zioni inter­na­zio­nali dei lavo­ra­tori fra la caduta della Comune e gli anni ’30, Franco Angeli, pp. 224, euro 30). Fedele alla tra­di­zione della sto­ria sociale clas­sica, Meriggi va alla ricerca non solo della docu­men­ta­zione politico-ideologica, il «dover-essere» inter­na­zio­na­li­sta che rie­cheg­gia nei con­gressi, nella stampa e nella pro­pa­ganda, ma delle rela­zioni con­crete fra lavo­ra­tori. Con la nazio­na­liz­za­zione della società pro­dotta lungo il XIX secolo, anche i lavo­ra­tori si ritro­vano seg­men­tati in appar­te­nenze che emer­gono soprat­tutto quando attra­ver­sano con­fini e si pon­gono come mano­do­pera «stra­niera». L’assunto di fondo che anima que­ste pagine è che il «mer­cato del lavoro», cioè le forme di reclu­ta­mento della mano­do­pera, pro­duce fri­zioni, ma che que­ste pos­sono essere ricom­po­ste a par­tire dai «luo­ghi di lavoro», orga­niz­zando il con­flitto di classe, che sug­ge­ri­sce linee di divi­sione «ver­ti­cali» e non «oriz­zon­tali», «sociali» e non «etni­che». Fra 1870 e 1940 — ma la perio­diz­za­zione potrebbe essere ovvia­mente estesa — una «ten­sione con­ti­nua» spinge i lavo­ra­tori ai poli oppo­sti della xeno­fo­bia ope­raia e della soli­da­rietà inter­na­zio­na­li­sta: le due rispo­ste, esclu­dere o inte­grare, pog­giano tut­ta­via sulla mede­sima domanda, come «gover­nare» il mer­cato del lavoro e impe­dire l’erosione di diritti, garan­zie e salari?
I con­gressi ope­rai otto­cen­te­schi affron­tano spesso la «fac­cia nasco­sta» dell’internazionalismo, le rela­zioni con gli ope­rai stra­nieri. I loro atteg­gia­menti si inne­stano su forme pre­ce­denti di estra­neità, non carat­te­riz­zate in ter­mini «etnico-nazionali», ma che ave­vano svolto e con­ti­nua­vano a svol­gere fun­zioni ana­lo­ghe sul mer­cato del lavoro, come quelle della mano­do­pera rurale immessa negli impie­ghi urbani, della migra­zione col­let­tiva di ope­rai spe­cia­liz­zati da una città all’altra o dell’afflusso di brac­cianti «fore­stieri» in occa­sione dei lavori agri­coli. Ma occorre spe­ci­fi­care — ed è un’altra con­ti­nuità con la lunga sta­gione delle cor­po­ra­zioni di mestiere di antico regime (al cen­tro di un capi­tolo dell’ultimo libro di Simona Cerutti, Étran­gers, 2012) — che il discri­mine non era tanto fra indi­geni e fore­stieri, quanto fra lavo­ra­tori orga­niz­zati e non, fra regole o comun­que forme di «eco­no­mia morale» nella gestione del mer­cato del lavoro e loro rot­tura con­sa­pe­vole da parte del padro­nato. Impe­dire quel che oggi chia­me­remmo il «dum­ping sala­riale» è la radice ultima dell’internazionalismo ope­raio, ma anche la matrice delle scor­cia­toie che mirano a «pro­teg­gere il lavoro nazionale».

Le fonti della ricerca

Meriggi mobi­lita uno spet­tro di fonti che va dalla docu­men­ta­zione del movi­mento ope­raio alle carte di pub­blica sicu­rezza. I car­teggi primo-novecenteschi del Bureau socia­li­ste inter­na­tio­nale, la strut­tura di coor­di­na­mento della Seconda inter­na­zio­nale, con­fer­mano il rilievo delle migra­zioni nella defi­ni­zione dell’internazionalismo ope­raio, che agi­sce lungo linee con­ver­genti: lot­tare con­tro il raz­zi­smo e il nazio­na­li­smo, fonti di peri­co­lose divi­sioni in seno al movi­mento ope­raio; man­te­nere la libertà di movi­mento ed esten­dere agli immi­grati i diritti dei nativi; orga­niz­zare i migranti, prima e dopo la migra­zione, in modo che sfug­gano alle mani­po­la­zioni padro­nali e non siano uti­liz­zati con­tro gli scio­peri o per com­pri­mere salari e garan­zie, andando ad ali­men­tare così le divi­sioni in seno alla classe lavo­ra­trice. Non tutto il movi­mento ope­raio si rico­no­sceva in que­ste indi­ca­zioni e, ad esem­pio, dagli Stati Uniti giun­ge­vano richie­ste di blocco dell’immigrazione cinese, men­tre in Europa si sol­le­va­vano distin­zioni ana­lo­ghe in merito al grado di civi­liz­za­zione e cul­tura dei diversi gruppi di migranti, oltre che sguardi ambi­gui sul lavoro nei ter­ri­tori colo­niali. Al di fuori delle orga­niz­za­zioni socia­li­ste le posi­zioni pote­vano essere ancora più recise, come nel caso dei Jau­nes fran­cesi, un’effimera ma ori­gi­nale espe­rienza di orga­niz­za­zione dei lavo­ra­tori che tentò di fare della xeno­fo­bia ope­raia — ten­ta­zione ricor­rente nei periodi di crisi, ma loca­liz­zata e oscil­lante — una vera e pro­pria ideo­lo­gia: la «pre­fe­renza» nazio­nale, che i Jau­nes asso­cia­vano all’antisemitismo mili­tante e che poi avrebbe cono­sciuto perio­di­che ricor­renze nel Nove­cento.
Con­tro le posi­zioni filo­pa­dro­nali dei «gialli» e dei loro eredi, con­sa­pe­voli dal ruolo nefa­sto della divi­sione dei lavo­ra­tori i «rossi» oppo­sero siste­ma­ti­che cam­pa­gne, cen­trate sull’autonomia dell’organizzazione ope­raia e sul con­flitto di classe. Que­sto approc­cio, almeno in Fran­cia, paese strut­tu­ral­mente inte­res­sato, per ragioni demo­gra­fi­che da impor­ta­zioni mas­sicce di mano­do­pera, ebbe la meglio, come evi­den­zia l’azione sin­da­cale di orga­niz­za­zione della «mano­do­pera immi­grata» e gli scio­peri uni­tari che pre­ce­det­tero e accom­pa­gna­rono la breve sta­gione del Front popu­laire. Ma su scala euro­pea il sin­da­cato, talora diviso per le scis­sioni delle com­po­nenti comu­ni­ste, dovette attra­ver­sare la dif­fi­cile inter­pre­ta­zione della grande crisi del 1929, che lo colse ancora attar­dato a discu­tere di alti salari, pro­dut­ti­vità e difesa delle qua­li­fi­che. Solo negli anni Trenta si impose la con­vin­zione della neces­sità di poli­ti­che eco­no­mi­che alter­na­tive, di una rispo­sta non mera­mente assi­cu­ra­tiva alla disoc­cu­pa­zione e della ripro­po­si­zione di un ruolo cen­trale del sin­da­cato nella gestione del mer­cato del lavoro e delle rela­zioni inter­sin­da­cali nella rego­la­zione dei flussi migra­tori, due com­piti da non dele­gare agli Stati.

Un pro­blema del presente

L’Inter­na­zio­nale degli ope­rai è dun­que un sug­ge­ri­mento di metodo, che invita allo stu­dio «sul campo» delle «reali rela­zioni» fra lavo­ra­tori indi­geni e immi­grati e con­si­dera cen­trali per la defi­ni­zione di que­sti rap­porti i luo­ghi della pro­du­zione e i mer­cati del lavoro: lì va cer­cata l’origine delle frat­ture e delle dif­fi­coltà, poi ampli­fi­cate nei quar­tieri di abi­ta­zione e nel tempo libero, dalle reti di rela­zione comu­ni­ta­rie e dal rap­porto con le isti­tu­zioni (come scuole e chiese). Al di là dell’interesse sto­rio­gra­fico, i pro­blemi dei lavo­ra­tori e delle loro orga­niz­za­zioni fra Otto e Nove­cento sono ancora ben vivi nel nostro pre­sente: cono­scerne la lunga vicenda è impor­tante non solo per gli stu­diosi e ine­vi­ta­bil­mente (e per for­tuna) libri come que­sto hanno anche un signi­fi­cato civile.

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