sabato 30 dicembre 2017

Il dolore del mondo

 
 
 
Sunt lacrimae rerum
sono le lacrime delle cose
 
Eneide, verso 462 del primo libro, Enea parla ad Acate e dice: “Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt” (alla lettera: “Sono le lacrime delle cose, e le cose mortali toccano la mente”); Augusto Rostagni traduce: “la storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente”
… il concetto di “musica del senso” … definisce l’eccesso percepito in poesia nel momento in cui la si ascolta. È importantissimo per un traduttore tener conto di questo fattore. Infatti, la musicalità del testo suscita sensazioni di cui si deve dare conto anche nella traduzione. Per questo, alla domanda: “a Lei cosa è successo al suono dell’Eneide?”, Sermonti risponde semplicemente: “al suono dell’Eneide mi succede quello che testimonio in questa traduzione”. Al riguardo, l’esempio più chiaro e allo stesso tempo più sintetico è quello fornito dal v. 462 del I libro dell’Eneide: “sunt lacrimae rerum”, letteralmente traducibile con “sono le lacrime delle cose”. Tuttavia questa traduzione letterale, ha spiegato Sermonti, non assomiglia alla percezione che si ha leggendo il verso latino. Infatti, l’espressione originaria latina rimane molto più drammatica, familiare, radicale e tuttavia inestricabile. Ecco dunque che subentra la sensibilità del traduttore Sermonti, il quale esplica il concetto sintetico di tale verso virgiliano con la traduzione: “piange la storia”. “Piange la storia” sottintende l’irreparabilità della sofferenza delle cose, della storia. La traduzione musicale, in questo senso, evoca proprio l’impressione che di fronte a certi eventi le cose piangono. 
https://web.sacrocuore.org/Istituto/News/tabid/63/articleType/ArticleView/articleId/1374/sunt-lacrimae-rerum-Vittorio-Sermonti-traduce-lEneide.aspx ———————————————————————–
Deux interprétations sont possibles, selon que l’on considère rerum comme un génitif objectif ou un génitif subjectif :
•  génitif objectif : il y a des larmes pour les choses qui en valent la peine ; les larmes rendent justice à la souffrance et au malheur des hommes
• génitif subjectif (ou possessif ici) : « les choses ont des larmes», « les objets pleurent », comme si, ayant une âme, ils pouvaient s’associer à la douleur des hommes. (Jean Schumacher)
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Robert Fagles traduce, in inglese: “The world is a world of tears, and the burdens of mortality touch the heart”. E Robert Fitzgerald: “They weep here \ For how the world goes, and our life that passes \ Touches their hearts”.
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Guido Ceronetti
Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt
Nulla c’è che non pianga. La vista
delle miserie umane si fa pensiero
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Una traduzione più letterale e non priva di spessore poetico è: “Trasudano lacrime le cose e la finitezza insidia la mente”.

Una voce di silenzio sottile




«Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti... ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, una voce di silenzio sottile [il mormorio di in vento leggero]. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna». (Re, 19, 11-13)

Come si può evocare la presenza di Dio? Una domanda simile presuppone che Dio ci sia, esista. Prima ancora: cosa vuol dire esistere per una figura come Dio? Vuol dire forse stare lì, da qualche parte? In questo senso Dio non c'è, anche se si manifesta molte volte nella Bibbia e nel Corano. Non c'è perché non è un dato reale, è una istanza che si trova dappertutto e in nessun luogo. Si può trovare nella nostra coscienza, che non è un luogo, ma una modalità dell'essere.
Ecco perché il passo biblico citato in apertura è molto bello. Perché assegna a Dio una voce che è quasi impercettibile. Qualcosa di simile esiste nella musica moderna. Anche nella forma del silenzio, a volte, come in John Cage, per esempio.
Un suono emerge a quel punto e la sua è una presenza discreta. Anche nel momento della massima solitudine qualcosa sussiste in noi e fuori di noi. Dio è il nome che possiamo dare a questa inconsistenza, a questa presenza impalpabile. Non siamo soli al mondo: è questo il messaggio ultimo della religione intesa come culto di ciò che sfugge all'opera distruttiva del tempo.

https://palomarblog.wordpress.com/2017/01/24/il-silenzio-di-dio/
https://palomarblog.wordpress.com/2016/03/02/dio-abita-in-noi/

venerdì 29 dicembre 2017

La canzone di Gavroche

 
 [Gavroche]  È il piccolo, grande personaggio che rende il romanzo de I miserabili (1862) di Victor Hugo (1802-1885) davvero struggente. In questo ragazzino allegro e spensierato, generoso e mai intimorito dalla storia che sembra evolvere troppo rapidamente, Hugo ha fissato un’impronta di indimenticabile «eroismo di strada». Figlio dei malvagi Thénardier, Gavroche cresce nei vicoli di Parigi, privo di un affetto che la burbera madre ha riservato esclusivamente alla prole femminile: il narratore dice di lui che «non aveva né casa, né pane, né famiglia, né amore: ma era felice perché era libero» (III, 1, 13). In questa descrizione si racchiude l’essenza vitale del gamin de Paris che Gavroche rappresenta; in quanto figlio di nessuno egli è dunque il perfetto emblema di una libertà pagata, col sorriso sulle labbra, al prezzo della vita e invocata in soccorso dei misérables che, come lui, mal riescono ad affrancarsi dalla tribolazione ma che, tuttavia, continuano a lottare per un ideale. Figura epica del romanzo di Hugo, Gavroche incarna dunque, pur nella brevità della sua apparizione nel corso dell’opera, gli ideali rivoluzionari di Libertà, Uguaglianza e Fraternità: eroe delle barricate del 1832, egli combatte per il popolo asservito da un potere ancora elitario a fianco dei suoi fratelli veri o presunti, i quali riconoscono l’innata generosità di questo cuore nobile e fiero che a dodici anni è già un uomo, e per giunta un «filosofo» (Maurice Allem). Gavroche è, insomma, la prefigurazione del popolo in cammino verso la propria libertà, e il linguaggio che lo caratterizza (l’argot) è sintomatico della volontà di Hugo di accordare una voce concreta alla plebe sfruttata e sofferente, da troppo tempo in cerca di un riscatto morale e del recupero di una primordiale dignità. Gavroche muore, così, cantando durante un eroico tentativo di raccogliere dalle giubbe dei soldati morti le pallottole necessarie ai compagni di barricata in rue Saint Denis: sprezzante di una morte che già lo rincorre, questo étrange gamin fée si libra dunque in volo, lasciando in eredità ai suoi fratelli parigini un’indimenticabile lezione di coraggio. Ancora una volta, il piccolo Davide ha combattuto e vinto contro Golia, e il popolo che egli ha rappresentato e difeso non dovrà attendere a lungo per scorgere la propria libertà sventolare nella bandiera tricolore. (Utet, Letteratura europea on line)

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Victor Hugo
I miserabili
il ritratto di Gavroche
Tomo III, Libro 1, capitolo 13

Circa otto o nove anni prima degli avvenimenti che abbiamo raccontato nella seconda parte di questa storia, sul boulevard del Tempio oppure nei dintorni di Château-d’Eau si notava un ragazzo di undici o dodici anni, il quale avrebbe incarnato con sufficiente esattezza il tipo del monello abbozzato precedentemente, se al riso proprio della sua età non avesse unito un cuore assolutamente triste e vuoto. Quel ragazzo indossava bensì un paio di pantaloni da uomo, ma non erano di suo padre, e aveva una camicetta donnesca che non apparteneva a sua madre.
Persone estranee l’avevano vestito di cenci per carità. Eppure aveva un padre e una madre; ma suo padre non pensava a lui e sua madre non lo amava. Era uno di quei ragazzi che meritano più pietà di tutti quelli che, pur avendo padre e madre, sono tuttavia degli orfanelli.
Il ragazzo non si sentiva mai tanto bene come quando stava nella strada. Il selciato gli era meno duro del cuore di sua madre.
I suoi genitori l’avevano gettato sulla strada con una pedata. Ed egli aveva preso subito il volo. Era un ragazzo chiassoso, pallido, svelto, sveglio, beffardo, dall’aria vivace e malaticcia.
Andava, veniva, cantava, giocava, frugava nei rigagnoli, rubava un poco ma allegramente come i gatti e i passeri, rideva quando lo si chiamava galoppino, e andava in collera se lo chiamavano mascalzone. Non aveva né casa, né pane, né fuoco, né amore; ma era allegro perché libero.
Quando questi poveri esseri diventano uomini, quasi sempre il rullo dell’ordine sociale li incontra e li schiaccia; ma finché restano fanciulli sfuggono perché piccini, e il minimo buco li salva.
Eppure, per quanto abbandonato, quel ragazzo poteva dire talvolta, ogni due o tre mesi: – Toh, vado a trovare la mamma! E allora abbandonava il boulevard, il Circo e la Porta Saint-Martin, scendeva verso il fiume, passava i ponti, raggiungeva i sobborghi, arrivava alla Salpêtrière e si fermava. Dove? Precisamente a quel doppio numero 50-52 che il lettore già sa, alla topaia Gorbeau.
A quell’epoca la catapecchia 50-52, abitualmente deserta e sempre col cartello “Affittasi”, era, cosa rara, abitata da molti individui che del resto, come sempre accade a Parigi, non avevano alcun rapporto tra loro. Appartenevano tutti alla classe indigente, che comincia dall’ultimo piccolo borghese in strettezze e si prolunga di miseria in miseria nei bassifondi della società fino a quei due esseri ai quali vanno a finire tutte le cose materiali della civiltà: lo spazzino e il stracciarolo.
La “principale inquilina” ai tempi di Jean Valjean era morta ed era stata sostituita da un’altra simile. Non so quale filosofo ha detto che le vecchie non mancano mai.
Questa nuova vecchia si chiamava Burgon e non aveva altro di notevole nella sua vita che una dinastia di tre pappagalli che avevano regnato sul suo cuore.
I più miserabili tra gli inquilini di quella topaia erano quattro componenti di una famiglia: padre, madre, e due figlie già abbastanza grandi, tutti e quattro in una sola stamberga.
A prima vista, quella famiglia non offriva nulla di particolare al di fuori della sua estrema miseria. Il padre, prendendo a pigione la casa, aveva detto di chiamarsi Jondrette, e appena messo piede in quella casa aveva detto alla donna che, come la precedente, faceva da portinaia e spazzava le scale: – Buona donna, se per caso qualcuno chiedesse di un polacco, di un italiano o anche di uno spagnolo, sono io.
Questa era la famiglia dell’allegro monello. Egli arrivava e trovava la povertà, la miseria, e, ciò che è più triste, nessun sorriso; il freddo nel focolare e nei cuori. Quando entrava, gli chiedevano: – Da dove vieni? – Rispondeva: – Dalla strada! – Sua madre gli chiedeva: – Che vieni a fare qui?
Questo ragazzo viveva senza affetti come certe pallide erbe che nascono nelle cantine. Non ne soffriva e non se la prendeva con nessuno perché non sapeva che cosa dovessero essere un padre o una madre. D’altronde la madre amava le sue sorelle.
Abbiamo dimenticato di dire che quel piccolo ragazzo veniva chiamato Gavroche. Perché si chiamava Gavroche? Probabilmente perché suo padre si chiamava Jondrette [altro nome di Thénardier].

XIR158621
XIR158621 Gavroche Leading a Demonstration, illustration from ‘Les Miserables’ by Victor Hugo (oil on canvas) (b/w photo) by Jeanniot, Pierre Georges (1848-1934) oil on canvas Bibliotheque Nationale, Paris, France Lauros / Giraudon French, out of copyright
la canzone di Gavroche
tomo V, libro I, capitolo 15
        Se siam brutti a Nanterre,
        La colpa è di Voltaire,
        Se siam sciocchi a Palaiseau,
        La colpa è di Rousseau.
        Se non sono un banchiere, 
        La colpa è di Voltaire, 
        Se casa più non ho, 
        La colpa è di Rousseau. 
        Se balzano è il mio carattere, 
        La colpa è di Voltaire, 
        Se quattrini non ho, 
        La colpa è di Rousseau. 
        Se son finito in terra, 
        La colpa è di Voltaire, 
        Col naso nel canale finirò,
        La colpa è di Rousseau.

giovedì 28 dicembre 2017

Il discorso che non c'è




Il discorso che c'è


E ora quale dovrebbe essere una nuova agenda di riforme per il prossimo governo?  
«Non ci sono ricette magiche, ma c’è solo da continuare migliorando ciò che è stato impostato. Secondo Istat i lavoratori italiani erano 22 milioni nel 2014, sono 23 milioni oggi. Bene, un milione in più. Dobbiamo creare le condizioni per arrivare a 24 milioni, certo. Ma dobbiamo anche porci il problema di come migliorare la qualità di quel lavoro, non solo la quantità. E per farlo servono gli incentivi e gli sgravi certo, ma anche la certezza della giustizia o la semplicità della burocrazia. Una visione di insieme per i prossimi anni. Possiamo permetterci di parlare di futuro perché abbiamo fatto uscire l’Italia dalle sabbie mobili. Ma dire futuro non significa sparare promesse in libertà: oggi ho fatto i calcoli delle ultime tre proposte elettorali di Berlusconi. Siamo già oltre 150 miliardi e la cosa folle è che non si scandalizzi nessun editorialista. Come le paga? Spunta un miliardario cinese all’improvviso come è successo per il Milan o alza le tasse? Noi del Pd non proporremo riforme mega-galattiche, non scriveremo un libro dei sogni: siamo coerenti e concreti». (intervista di Carlo Bertini a Matteo Renzi, La Stampa, 28 dicembre 2017)

Il discorso che non c'è

Non ci sono ricette magiche, ma molto si può fare per dare un nuovo corso alla vita del Paese. Il 18 per cento circa dei giovani tra i 25 e i 34 anni non trova lavoro. Il prossimo governo lancerà un piano per l'espansione del lavoro e dell'economia. Sarà accresciuta la spesa per la ricerca, sarà apprestata una agenzia per il sostegno alla piccola e media impresa. I fondi saranno ricavati da una decisa riduzione della spesa pubblica improduttiva. Una visione di insieme per i prossimi anni comporta il passaggio a un nuovo modello di sviluppo. Si ha un bel dire che il turismo è una risorsa. L'Italia costa troppo cara rispetto ai paesi vicini dell'Europa meridionale. Bisogna rinnovare le attrezzature e trovare modi di gestione più moderni e efficienti. Nel campo della scuola, ci saranno interventi diretti a ristabilire un rapporto di fiducia con gli insegnanti e le famiglie. Per gli immigrati è indispensabile arrivare a uno sveltimento delle procedure decisionali, mentre non sarà male rimettere sul tappeto la legge sullo ius soli, in vista di un più ampio consenso.

Natura e regola in musica



Il titolo non riflette il contenuto dell'articolo. Chi avrebbe tolto all'Occidente il primato musicale, al tempo di Weber o dopo? Invece è interessante ragionare sulle idee di Weber alla luce degli sviluppi successivi nel campo della musica moderna. C'è stato un riavvicinamento ai suoni naturali grazie a un deciso e chiaro mutamento delle regole.

Sandro Cappelletto, Max Weber: così l'Occidente ha perso il primato musicale, La Stampa, 27 dicembre 2017


L’intera storia musicale dell’Occidente si può leggere come il progressivo tentativo di stabilire delle regole: da Pitagora fino al Clavicembalo ben temperato di Bach abbiamo cercato e siamo riusciti a mettere a punto un’ “armonia ben temperata”. Ogni nota, ogni accordo, ogni scala: l’intero universo sonoro doveva essere misurabile. E’ del 1712 la folgorante definizione del filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che riassume in nove parole l’orgoglio per avere saputo dominare con la ragione anche la sfuggente natura del suono : «Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi» («La musica è una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non sa di calcolare». Aritmetica e anima per creare un ordine, quasi il compositore potesse diventare simile a un Dio che accorda il moto dell’universo. La musica degli uomini specchio della musica celeste. Ma in questa ricerca, che cosa abbiamo perduto? Se lo chiede Max Weber in I fondamenti razionali e sociologici della musica, uno scritto ampio e incompiuto, pubblicato nel 1921, un anno dopo la morte del grande intellettuale e scrittore tedesco, uscito in Italia a cura di Enrico Fubini nel 1961 e ora ripubblicato da Il Saggiatore con il titolo Sociologia della musica (pp.183, euro 19). Weber, che qui fonda una disciplina portata nel Novecento da Theodor Adorno a esiti altissimi e oggi considerata imprescindibile, rivendica la nostra appartenenza e discendenza: «Soltanto l’innalzamento della musica polivocale alla dignità di arte scritta ha creato il vero e proprio «compositore» e ha assicurato alle creazioni polifoniche dell’occidente, a differenza di tutti gli altri popoli, durata, risonanza e un costante sviluppo». Questo primato ha portato con sé alcune rinunce. I greci della classicità, gli arabi, gli indiani e gli asiatici sono stati e rimangno più sensibili di noi alle tante sfumature possibili del suono, perché meno preoccupati di sistematizzare la musica, di scriverla. Di dividere i suoni tra «razionali» e «irrazionali»: dove per «razionali» si intendono i suoni compresi all’interno della nostra scala e per «irrazionali» quelli che abbiamo deciso di non comprendere; tra due note - ad esempio tra il do e il re - noi europei abbiamo stabilito che può trovare spazio soltanto un’altra nota - il do diesis o il re bemolle - mentre la verità naturale del suono ci dice che tante altre sono le differenze che possiamo percepire. E se i cantanti italiani sono in genere più intonati dei colleghi tedeschi, scrive Weber, è perché nei territori del Sud dell’Europa e mediterranei si può ancora percepire, ad esempio nelle tradizioni popolari, la presenza delle più antiche eredità greche e mediorientali, quando il moderno sistema armonico non era ancora codificato. Weber, sottolinea la curatrice e traduttrice Candida Felici, «mette in guardia dal ritenere che la presenza di intervalli irrazionali sia propria delle musiche primitive», alle quali va riconosciuta piena dignità e con il suo caratteristico disincanto insiste sull’importanza, per formare il nostro giudizio di valore, dell’abitudine all’ascolto di determinate musiche a discapito di altre. Il primo a riconoscere il ruolo decisivo della consuetudine, cioè della pratica culturale, nel determinare il gusto, le predilezioni come le esclusioni, era stato Giacomo Leopardi in un Pensiero (il n. 3230), allora stupefacente, dello Zibaldone: «Io di me posso accertare che nel mio primo udir musiche (il che molto tardi incominciai) trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche». I dubbi che, un secolo fa, si affacciavano nell’argomentare di Weber appaiono oggi risolti in una esplicita rinuncia da parte di antropologi e etnomusicologi a qualsiasi ipotesi di primato riconoscibile alla musica europea, compresa la sua tradizione colta: «La lettura della presente opera dimostrerà come siano oggi superate quelle dicotomie che più o meno coscientemente, ci confortavano in un certo senso di superiorità l’orale e lo scritto, il sacro e il profano, lo statico e lo storico, la natura e la cultura, il rurale e l’urbano, il semplice e il complesso, l’autentico e l’inautentico», scriveva all’inizio del presente millennio Jean-Jacques Nattiez, presentando l’Enciclopedia della Musica pubblicata da Einaudi. Una pietra tombale, probabilmente incauta, in ogni caso oggi globalmente condivisa dalla maggioranza degli studiosi. E nel 1977 Arvo Pärt invitava a ricominciare facendo del nostro passato Tabula rasa, fortunatissima opera creata nel 1977 dal compositore estone che ha segnato la stagione, tutt’altro che conclusa, del neo-spiritualismo musicale e del recupero di pratiche compositive tipiche dell’antica modalità. Weber dedica riflessioni acute alla storia dello strumento principe dell’Occidente, il pianoforte, messo a punto a inizio Settecento dall’italiano Bartolomeo Cristofori e passato nell’Ottocento da una produzione artigianale a industriale per soddisfare la crescente domanda della borghesia, soprattutto del centro e del nord Europa: «Tutta la nostra educazione alla moderna musica armonica si basa sostanzialmente sul pianoforte, e ciò anche nel suo aspetto negativo, poiché l’abitudine al temperamento ha certamente tolto al nostro orecchio – l’orecchio del pubblico che ascolta – dal punto di vista melodico una parte di quella finezza che dava l’impronta decisiva alla raffinatezza melodica della cultura musicale dell’antichità». Ancora una volta, regola versus natura, nella concretezza del divenire della storia e delle scelte che in essa operiamo.

 https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg5nnwQrzhjDUr9nh8bJfBTsEhU_EMhv50Y_x-dM_tEFD5Eujy2ZPQtjo4hFdmJ8jnxrhFT5tIosXOXG1EpNHWxa-MiiDE1foqdnuH1TucQ_H5-ki6gWumWhxkDJ46hbd9LSjUzEJsJVh4/s1600/we.png
 http://www.treccani.it/enciclopedia/musica-e-societa_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/

lunedì 25 dicembre 2017

Il sole e la luna nell'arte di Paul Klee

 https://palomarblog.files.wordpress.com/2016/06/59457-paul-klee-ad-parnassum-1932-l450.jpg



Giuliana Polenta
Per Klee e per i suoi studiosi, come ad esempio per Maurice Merleau-Ponty, l’occhio brucante dello spettatore non può fermarsi alla visione retinica dell’opera d’arte ma [deve] aprirsi “alla visione e non al veduto, alla genesi, a quell’evento della visione che precede la logica della verità e della falsità.
Klee procede per sottrazione: l’oggetto rappresentato mira all’essenza e così “nel mosaico l’artista pone un triangolo a coronamento di un rettangolo, e ne nasce una casa; sovrappone a un quadrato un semicerchio e l’insieme si rivela e appare una moschea; (…) il cerchio si rivela come il sole, il semicerchio come la luna, una macchia di tratti rapidi e leggeri come fiori e cespugli”. In Klee la scomposizione non è distruzione della forma ma considerazione di segmenti dell’oggetto per meglio comprendere il rapporto tra livelli di figure rappresentate.
 https://palomarblog.files.wordpress.com/2016/06/1a46e-klee7.jpeg

domenica 24 dicembre 2017

Il castello dei Pirenei


 


René Magritte, 1961

Il quadro si trova all’Israel Museum di Gerusalemme.

Il dipinto, ispirato ad un racconto di Edgar Allan Poe, appartiene ai soggetti, frequenti in Magritte, delle “pietrificazioni”.  Magritte si basa, come in molti dei suoi dipinti, su un paradosso visivo. Si riconoscono diversi elementi reali: un castello su un’inospitale sommità rocciosa, questa sospesa sul mare, un cielo chiaro abitato da bianche nuvole. Il mare, in basso, è agitato, come lo voleva il pittore: “Un mare tempestoso – egli scriveva – cupo come il Mare del Nord della mia gioventù”.

Tutto appare bloccato in una condizione di immobile irrealtà. Realtà e assurdo sono resi compatibili nello spazio virtuale del dipinto, grazie all’estremo realismo delle immagini, alla loro precisione quasi fotografica. Magritte ha sacrificato qualsiasi riferimento alla vita; egli però apre l’opera ad un’interpretazione positiva, giacché “dal cupo oceano sorge la roccia-speranza”.

Si provi ad utilizzare questa immagine come metafora della filosofia postmoderna: il pensiero (castello) fondato (roccia) nell’infondatezza (cielo) allude a un senso dell’essere che è domanda aperta, mai esaurita da alcuna risposta (mare), vale a dire: la filosofia è creatrice di valori divenuti finalmente solo “prospettive”, orizzonti di senso in cui muoversi, costruzioni umane e solo umane; la filosofia non rinuncia ad avere un orizzonte, ma rinuncia a gestirlo come proprio, come unico ben determinato e fissato parametro su cui misurare il mondo.


http://www.lagiostra.biz/node/423

venerdì 22 dicembre 2017

Il destino di Maria Antonietta






Stefan Zweig, Maria Antonietta. Una vita involontariamente eroica, traduzione di Lavinia Mazzucchetti, Castelvecchi, Roma 2013

... Se la Rivoluzione non fosse scoppiata nel suo mondo sereno e spensierato, questa figlia d’Asburgo avrebbe tranquillamente continuato a vivere come cento milioni di donne di tutti i tempi: avrebbe ballato, chiacchierato, amato, riso, fatto del lusso, delle visite, elargito elemosine, avrebbe messo al mondo dei figli, e si sarebbe alla fine distesa
tranquillamente nel suo letto per morire prima di avere partecipato comunque allo spirito del suo tempo. Le avrebbero, perché regina,eretto un solenne catafalco, dedicato il lutto di corte, ma poi sarebbesvanita dalla memoria dell’umanità, al pari di tutte le innumerevoli altre principesse, le Marie Adelaide e Adelaide Marie, le Anne Caterine e Caterine Anne, i cui epitaffi dormono, non letti, nelle fredde pagine dell’almanacco di Gotha. Mai uomo alcuno avrebbe sentito il desiderio d’interrogare la sua anima spenta, nessuno avrebbe saputo chi fosse in realtà; non solo, ma – e questo è l’essenziale – lei medesima, Maria
Antonietta, regina di Francia, senza le prove della sorte, mai avrebbe appreso e saputo la sua vera grandezza. Poiché fa parte della felicità o infelicità dell’uomo mediocre il non sentire bisogno alcuno di misurare sé stesso, il non provare la curiosità del proprio io prima che giunga il destino a interrogarlo. L’uomo mediocre lascia dormire inutilizzate le
sue possibilità, lascia atrofizzarsi le sue doti, allentarsi le forze, come muscoli che non vengano adoperati finché la necessità non li tende a difesa. Un carattere mediocre vuole la costrizione a uscire da sé stesso per divenire tutto ciò che potrebbe e, forse, al di là di quanto egli stesso presagiva: il destino non ha perciò altra sferza che la sventura. Come
talvolta un artista, per dar prova delle proprie energie creative, cerca di  proposito un soggetto esteriormente modesto invece di uno patetico e universale, così di tanto in tanto il destino cerca un eroe insignificante per dimostrare come anche da una materia scadente possa svilupparsi la più alta tensione, da un’anima debole e mal disposta una grandiosa
tragedia. E una simile tragedia, una tra le più belle di questo eroismo involontario, ha nome Maria Antonietta.
Con quale arte, infatti, con quale varietà fantastica di episodi, con che inaudite dimensioni la storia sa qui inserire una creatura mediocre entro il suo dramma; con quanta abilità armonizza i contrasti attorno alla poco interessante figura centrale! Dapprima, con astuzia diabolica, la vizia indulgente; assegna alla bambina come dimora una corte imperiale, impone all’adolescente una corona, concede prodigalmente alla giovane sposa i doni della grazia e della ricchezza; per di più le fa dono d’un cuore leggero, che non chiede il prezzo e il valore di questi regali.
Per anni va viziando, accarezzando un cuore irriflessivo e imprudente, finché perde l’equilibrio e si fa sempre più spensierato. Ma quanto più è rapido e facile il destino di questa donna nella sua ascesa fino alle vette estreme della felicità, tanto più raffinatamente crudele nella sua lentezza sarà la caduta. È un dramma che ci offre faccia a faccia i
contrasti estremi con brutalità da melodramma: da una dinastia secolare a un orrido carcere, dal trono al patibolo, dalla berlina tutta dorature e cristalli alla carretta dei condannati, dal lusso alle privazioni, dalle bsimpatie universali all’odio, dal trionfo alla calunnia; sempre più giù, sempre più inesorabilmente, sino all’estremo abisso. E questa piccola donna, colta all’improvviso fra gli agi della vita viziata, questo cuore inesperto, non arriva a comprendere ciò che la forza ignota chiede e impone: sente soltanto l’aspra mano che stringe, l’artiglio rovente che s’infigge nelle carni martoriate; la creatura ignara, non avvezza e non propensa al dolore, ne rifugge, non vuole, geme, cerca di fuggire... Ma con l’inesorabilità di un artista, che non desiste prima di aver strappato
alla sua materia la tensione estrema, l’ultima possibilità, la mano esperta della sventura non rinuncia a Maria Antonietta prima di averne martellata l’anima debole e molle sino a darle forza e saldezza, finché non ha tratto da lei, con plastica evidenza, tutta la grandezza dei genitori, degli avi e degli antenati che in essa dormiva sepolta. Finalmente, quasi
sussultando a un tratto nel suo tormento, la sventurata, che mai se n’era resa conto, avverte la propria trasfigurazione, mentre la sua potenza esteriore tramonta, comprende che in lei avviene qualcosa di nuovo e di grande che senza quelle sciagure mai sarebbe stato possibile. «C’est dans le malheur qu’on sent d’avantage ce qu’on est», queste parole
un po’ orgogliose e un po’ sgomente le sgorgano a un tratto dalla bocca stupita: la coglie il presagio che appunto, in nome di quel dolore, la sua mediocre esistenza vivrà quale esempio ai posteri e, in tale coscienza di una responsabilità più alta, si sublima il suo carattere. Poco prima che la spoglia mortale s’infranga, l’opera d’arte è perfetta e imperitura, perché appunto nell’ultima, nella suprema sua ora, Maria Antonietta raggiunge finalmente tragiche proporzioni e si fa grande al pari del suo destino.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/08/23/la-regina-maria-antonietta-donna-martire.html

giovedì 21 dicembre 2017

Così parlò Calabresi

 

 

Le argomentazioni di Calabresi ruotano intorno all'immagine della sottosegretaria. Non di questo soltanto si tratta. La vicenda di Banca Etruria ha procurato un danno a numerosi risparmiatori. La gestione è stata catastrofica, sono state compiute scelte dissennate per le sorti dell'istituto creditizio e dannose per la clientela. Non c'è stato un semplice incidente di percorso dovuto alla cattiva sorte. Qualcuno è stato responsabile della banca al tempo delle malversazioni. Sarà stato anche giusto tentare con aiuti esterni di salvare la baracca dal crack, ma al crack come si è arrivati? Il Pd renziano sembra deciso a trascurare la questione. 

Repubblica chiede al PD di non ricandidare Boschi, Il Post, 21 dicembre 2012



Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto oggi un editoriale molto critico sul caso Banca Etruria chiedendo alla sottosegretaria Maria Elena Boschi di «farsi da parte» dal Partito Democratico «e dalle sue candidature», perché «sta diventando un fardello troppo pesante».
Ieri la Commissione parlamentare bicamerale di indagine sulle banche ha raccolto la testimonianza di Federico Ghizzoni, ex presidente di Unicredit. Ghizzoni ha raccontato di alcuni contatti legati a Banca Etruria che ebbe con Boschi e con Marco Carrai, imprenditore e stretto collaboratore del segretario del PD Matteo Renzi, negando però che questi gli abbiano fatto delle «pressioni» perché intervenisse nella crisi di Banca Etruria. Qui è raccontata la storia per intero.
Calabresi inizia il suo editoriale spiegando che un anno fa Repubblica commentò la nascita del governo Gentiloni criticando la scelta di promuovere Maria Elena Boschi, principale autrice della riforma costituzionale bocciata al referendum, che avrebbe invece dovuto farsi da parte, secondo lui. «Riconfermarla, scrivemmo, era “una scelta evitabile che rafforza diffidenze, gonfia il qualunquismo e lascia un retrogusto di furbizia e immaturità”». A quel tempo la scelta «sarebbe stata dettata dalla sola opportunità politica» e «avrebbe evitato un finale come quello che è davanti ai nostri occhi». Un anno dopo, dice infatti Calabresi, «la situazione è ben più complicata e grave, le ombre sul cosiddetto Giglio magico si sono moltiplicate e l’affare Etruria è diventato la palla al piede di un partito che appare ostaggio del caso di una piccola banca meno rilevante di quelli avvenuti nel Nord-Est».
Calabresi scrive che «l’uscita di scena di Boschi, non dal governo ma dal Partito democratico e dalle sue candidature, è ora il passo necessario e indispensabile per provare a contenere i danni e per mostrare ai propri elettori di aver compreso la differenza tra interesse generale e interesse familiare». Calabresi cita Marco Carrai («che di Matteo Renzi è da sempre non solo l’uomo di fiducia ma anche una specie di gemello siamese») e spiega che a Maria Elena Boschi continua a sfuggire «il concetto dell’opportunità e contemporaneamente quello del conflitto d’interessi»:
«La vicenda Boschi va esaminata su due piani, diversi ma connessi. È comprensibile, perfino fisiologico, che un politico si occupi del territorio in cui viene eletto. Cura gli interessi dei suoi elettori, è deputato a fare questo. Del resto, le crisi bancarie in Italia sono sempre state risolte attraverso fusioni e acquisizioni. È stata la linea seguita da tutte le nostre Istituzioni.
Per la sottosegretaria, però, non è in discussione questo piano. Ma l’altro. Non è accettabile che un ministro della Repubblica si occupi di una questione che fa riferimento diretto al padre. Il rapporto di parentela con l’allora vicepresidente di Banca Etruria è il nucleo di un conflitto di interessi che sarebbe censurato in qualsiasi democrazia occidentale. Le regole morali e politiche del conflitto di interessi non possono funzionare a giorni alterni o a governi alterni. Questo è il cuore del problema, non se siano stati commessi illeciti. Di cui nessuno è a conoscenza. E questa ostinazione mostra quel grumo di potere locale da cui, evidentemente, la sottosegretaria non riesce a prendere le distanze».
Calabresi spiega che il PD «non può farsi carico di questa situazione», che Maria Elena Boschi «sta diventando un fardello troppo pesante per la principale forza riformista di questo Paese» e che lei stessa «dovrebbe con responsabilità liberare da questo peso il partito che le ha consentito di approdare in Parlamento e al governo».
Il direttore di Repubblica conclude l’editoriale parlando di Renzi e del PD. E dice:
«(…) Il segretario [dovrebbe] accettare l’idea che il bene del Paese e del Pd vengono prima della difesa di un componente del suo gruppo dirigente. A meno di non voler avallare l’idea che il vertice del Partito democratico possa liberamente essere sovrapposto al fantomatico Giglio magico.
Perché in discussione non c’è solo l’esito delle imminenti elezioni, già piuttosto incerte. Il Pd deve porre ora le premesse per assicurarsi la possibilità di rimanere competitivo nei prossimi anni. Il centrosinistra affronta stavolta la partita più difficile. La posta in gioco non è la vittoria o la sconfitta — questo appartiene alla fisiologia di una democrazia — ma che rimanga in vita la prospettiva di un moderno centrosinistra capace di governare i processi e le sfide di questo millennio. E per provare a invertire la rotta e risalire la china ci vogliono gesti netti e chiari, non sterili rivendicazioni che ipotecano il futuro».
Questa mattina, intervistato su TGcom24, Matteo Renzi ha risposto indirettamente all’editoriale di Calabresi dicendo che «un politico si fa giudicare dai cittadini: quindi saranno le elezioni a giudicare se qualsiasi politico, non soltanto Maria Elena Boschi debba essere riportato in Parlamento oppure no. Quindi per noi questa è una discussione che non esiste». E ancora: «Vorrei che la campagna elettorale fosse sui contenuti. Condivido le parole che il ministro Boschi ha detto oggi sulla Stampa, dove ha parlato di “caccia alla donna” e ha confermato di volersi candidare».

martedì 19 dicembre 2017

Sabino Cassese su Grasso



Claudio Cerasa, Grasso, l'improvvisazione di un leader, Il Foglio, 19 dicembre 2017


Professor Cassese, che ne pensa delle foglioline nel simbolo di Liberi e uguali?
Anche lei prigioniero degli epifenomeni, perduto nei dettagli, invece di andare all’essenziale.

Che sarebbe?
Chi ha scelto il nuovo leader della sinistra, come è stato scelto, quali sono stati i primi atti nel nuovo ruolo.

Cominciamo con il primo punto: chi l’ha scelto e perché.
La vicenda è un bell’esempio di come si fa politica oggi in Italia e di come si costruisce, improvvisando, un leader. La sinistra-sinistra ha buttato alle ortiche tutta la sua tradizione: non ha scelto un operaio, o un dirigente sindacale, o una persona sperimentata in battaglie civili, o uno dei suoi molti dirigenti politici, ma una persona in vista, in ragione della sua carica. La sinistra-sinistra sarebbe quella che sostiene la giustizia sociale, quella grande. Ha optato per la giustizia dei tribunali (o, meglio, delle procure), quella piccola. In questo prendere a prestito, in questo ricorrere all’esterno, noto una perdita di identità, una dichiarazione di impotenza, o – se vuole – di incapacità.

Ma non è la prima volta che le forze politiche si rivolgono all’esterno, non riuscendo a trovare al proprio interno personale adatto.
Giusto. Ma ci sono molte differenze. Il Pci aveva creato la Sinistra indipendente, ma i parlamentari che vi militavano non erano i leader, erano piuttosto i consiglieri disinteressati, i compagni di strada, spesso gli esperti che aprivano la strada. Berlusconi, quando a sua volta dovette scegliere compagni di strada, optò per Giuliano Urbani, un professore socialista e per Antonio Martino, un professore liberale. Erano scelte significative degli orientamenti politici ai quali dichiarava di ispirarsi Berlusconi, erano in un certo senso simboli. E non erano certamente i leader, quanto piuttosto i “consiglieri del principe”.

Questo è chiaro. Passiamo al secondo aspetto: chi l’ha scelto?
Qui entriamo in un campo meno noto. Sappiamo che la scelta è frutto di una tipica decisione oligarchica, di una decisione dall’alto. Per quel che sappiamo, tre persone, Speranza, Fratoianni e Civati, si sono recati dal presidente del Senato per offrirgli questa leadership. Per quel che sappiamo – ed è già significativo che le debba dire questo con tante cautele – alla “convention” dell’Atlantico c’erano 1.500 delegati (ma non sappiamo delegati di chi e da chi; sappiamo che erano stati eletti da qualcuno “lo scorso fine settimana”). Non risulta che vi fossero competitori. Insomma, il nuovo leader è stato eletto, scelto, nominato? Non sappiamo perché lui e non altri, ad esempio un generale distintosi in battaglia. Non sappiamo a nome di chi parlerà. Non sappiamo come potrà arricchire il dibattito pubblico, quali nuove esperienze potrà portarvi, che parlino al cuore e alla mente delle “masse di sinistra”, spieghino quali idee abbia per la necessaria rinascita della scuola, per il futuro dei giovani costretti a emigrare, per la riduzione del fardello costituito dal debito, insomma, per tutti i temi di cui la sinistra si riempie la bocca, restando incapace di fare proposte.

Insomma, lei è molto critico, non tanto della persona scelta quanto di chi l’ha prescelto.
Passeremo tra un momento alla persona. Per ora mi lasci concludere che trovo criteri e procedura criticabili sia per quel che rappresentano, sia per quel che rivelano e che l’improvvisazione del leader ricorda Napoleone che si incoronò re d’Italia nel 1805 imponendosi da solo la corona sul capo. Chi gli ha procurato la corona non era uscito dal Pd (o si era rifiutato di entrarvi) perché non amava l’“uomo solo al comando”? Perché ora mette un “uomo solo al comando”, invece di scegliere una direzione collegiale, per di più “personalizzando” il partito con il nome del leader nel simbolo?

Ma lei dimentica i meriti del prescelto.
Non li dimentico. Anzi, voglio passarli in rassegna, per chiedermi quali meriti vi siano, oltre alla “visibilità” procuratagli di recente dall’essere titolare di quella che si chiama seconda più alta carica dello Stato. Voglio cercare di spiegare che uno può avere grandissimi meriti (essere ad esempio un premio Nobel della chimica), ma non quelli che sono adatti a guidare un movimento politico, e per di più non di notabili, ma di “masse popolari”.

Capisco: lei è alla ricerca dei “titoli” del prescelto, delle prove che ha dato nella sua vita per dimostrare di poter essere un capo di partito di sinistra.
Esatto. Dal curriculum che si può leggere nel sito del Senato risulta che nei più di 40 anni di magistratura è stato giudice per circa 7 anni. La restante parte della sua vita è stata trascorsa nelle procure e nel ministero della Giustizia. Il nuovo leader ha dichiarato, più o meno testualmente, “posso guidare una formazione politica. Se ne accorgeranno tutti”, assumendo che chi ha governato procure può anche assicurare il buon governo del partito e del paese (si è proposto infatti la ricostruzione della sinistra e quindi del paese). Come procuratore, in sede locale e poi nella procura nazionale, si è interessato della repressione dei reati, ha guidato la polizia giudiziaria, ha disposto misure cautelari, ha coordinato investigazioni, ha acquisito informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata. Tutto questo in funzione della “lotta alla mafia” e alla criminalità organizzata.

Mi sembra di sentire nelle sue parole l’eco di quanto scrisse Sciascia nel gennaio 1987, per cui nulla vale più, in Sicilia, per fare carriera nella magistratura del prendere parte a processi di mafia. 
Si sbaglia, come forse sbagliava Sciascia nel parlare dei “professionisti dell’antimafia”. Voglio riflettere su qualcosa di diverso. Su che cosa può simboleggiare per la sinistra e per il paese identificare in un “accusatore-investigatore” la guida politica.

Ma il presidente del Senato ha esposto le linee per la costruzione di “una nuova casa per un’Italia di liberi e uguali”.
Ma proprio qui si rivelano le debolezze maggiori della candidatura. Liberi e uguali: ma chi è contro la libertà e l’uguaglianza, oggi, in Italia? E dove è il programma? Nel discorso “di investitura”, il candidato ha solennemente dichiarato “avremo un programma scritto e ideato attraverso un percorso partecipato”. E’ forse la prima volta nella storia che un movimento politico si presenta senza una “offerta politica”, senza quella che i britannici chiamano “platform”. Insomma, il vuoto della politica, il vuoto programmatico.

Lei tralascia il fatto che il candidato da cinque anni è in Parlamento, avendo lasciato i ruoli della magistratura.
Apprezzo molto che abbia abbandonato i ranghi di quello che dovrebbe essere un potere indipendente, a differenza di molti altri. Apprezzo meno che abbia anche lui “cambiato casacca”, abbandonando il partito nelle cui file si era candidato ed era stato eletto e iscrivendosi a un altro gruppo parlamentare. Apprezzo meno che non si sia dimesso dalla carica prima di candidarsi leader o di accettare la leadership che gli veniva offerta. Nelle assemblee parlamentari c’è una tradizione che risale all’800 per la quale i presidenti non votano. Saragat, Fanfani, Merzagora, in circostanze comparabili, si dimisero. Apprezzo meno il cattivo esempio che la scalata alla politica dà a tanti giovani magistrati, tentati da quella che ho definito in passato politicizzazione endogena dell’ordine giudiziario.

Non è troppo critico del nuovo leader, non dimentica che altri fanno lo stesso?
Vero: anche Berlusconi cerca “volti nuovi”. Ma lui è come Crono, che secondo la teogonia esiodea divorava i propri figli temendo che lo privassero del potere. E non le pare che le forze politiche, quel che resta del mondo politico in Italia, dovrebbero preoccuparsi di questa “ricerca dell’altro”, che non si sa mai se sia un modo di presentare meglio la vetrina, oppure una maniera di cambiare la merce del negozio. Povero il paese che ha bisogno di eroi, povero il paese che deve ricorrere ai procuratori, povera la sinistra che incorona un proprio leader senza neppure sapere se è di sinistra.

domenica 17 dicembre 2017

La moglie di Cesare




La moglie di Cesare, si sa, dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto. Nota bene: la moglie di Cesare era colpevole di adulterio. Fu suo marito a usare quella formula, volendo evitare ogni ulteriore accertamento.
Maria Elena Boschi non è la moglie di Cesare. E' solo una sua amica e stretta collaboratrice, il che è quasi lo stesso. Avrebbe dovuto dimettersi già un anno fa. Non tanto tempo prima, nel 2015, Maurizio Lupi ha dovuto lasciare il governo per via di un orologio regalato al figlio. All'onorevole Boschi si rimprovera la parentela con persone che hanno mantenuto le loro posizioni nella Banca Etruria in un tempo di grave crisi. Una prova chiara della sua colpevolezza non è ancora emersa. Tuttavia il rumore intorno al suo caso viene alimentato da notizie che si rincorrono giorno dopo giorno nei notiziari televisivi e nei giornali. Il suo partito, il Pd, di questo passo è sceso nei sondaggi al livello più basso mai toccato negli ultimi cinque anni. Sotto il 25 per cento. Si parla ormai di voto utile a favore della Destra o dei Cinque stelle, i veri contendenti alle elezioni previste per marzo.
Il fatto è che Cesare nell'Italia del 2017 non è più Cesare. Lui stesso parla apertamente di un incarico che dopo le elezioni andrebbe ad altri nel caso (sempre più improbabile) di una vittoria o di una affermazione significativa. Si spara su Boschi per colpire lui, Renzi. E l'obiettivo è stato ampiamente raggiunto. 
Nel 2001 l'Ulivo non osò presentare come candidato alla presidenza del Consiglio Amato che stava ricoprendo quel ruolo. Fu scelto Rutelli e si sa come andò. Ora il Pd insiste nel presentare come figura di punta Renzi che non ricopre alcun ruolo di governo. Ecco perché la moglie di Cesare affronta il  martirio. Quanto deve durare ancora questa commedia? Bisogna proprio che la popolarità di Renzi scenda sotto il 20 per cento perché qualcuno si decida a reagire e si faccia avanti? Sfortunato il paese che ha bisogno di eroi, diceva il poeta. A mali estremi, estremi rimedi, diciamo noi. Uno o due eroi a questo punto sarebbero proprio necessari.