René Magritte, 1961
Il quadro si trova all’Israel Museum di Gerusalemme.
Il dipinto, ispirato ad un racconto di Edgar Allan Poe, appartiene ai soggetti, frequenti in Magritte, delle “pietrificazioni”. Magritte si basa, come in molti dei suoi dipinti, su un paradosso visivo. Si riconoscono diversi elementi reali: un castello su un’inospitale sommità rocciosa, questa sospesa sul mare, un cielo chiaro abitato da bianche nuvole. Il mare, in basso, è agitato, come lo voleva il pittore: “Un mare tempestoso – egli scriveva – cupo come il Mare del Nord della mia gioventù”.
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Tutto appare bloccato in una condizione di immobile irrealtà. Realtà e assurdo sono resi compatibili nello spazio virtuale del dipinto, grazie all’estremo realismo delle immagini, alla loro precisione quasi fotografica. Magritte ha sacrificato qualsiasi riferimento alla vita; egli però apre l’opera ad un’interpretazione positiva, giacché “dal cupo oceano sorge la roccia-speranza”.
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Si provi ad utilizzare questa immagine come metafora della filosofia postmoderna: il pensiero (castello) fondato (roccia) nell’infondatezza (cielo) allude a un senso dell’essere che è domanda aperta, mai esaurita da alcuna risposta (mare), vale a dire: la filosofia è creatrice di valori divenuti finalmente solo “prospettive”, orizzonti di senso in cui muoversi, costruzioni umane e solo umane; la filosofia non rinuncia ad avere un orizzonte, ma rinuncia a gestirlo come proprio, come unico ben determinato e fissato parametro su cui misurare il mondo.
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