Sergio Luzzatto
Dagli articoli di Calvino il mito dei fratelli Cervi
Il
sole 24ore, 18 aprile 2010
Domenica 17 gennaio 1954, un vecchio contadino emiliano entrò nel palazzo del Quirinale per incontrare un vecchio proprietario terriero piemontese che era anche il primo presidente eletto della Repubblica italiana. Il vecchio contadino, Alcide Cervi, portava al petto sette medaglie d’argento, una per ciascuno dei suoi figli caduti nella Resistenza. Il vecchio proprietario e presidente, Luigi Einaudi, teneva a onorare di persona chi aveva pagato un prezzo tanto alto alla liberazione del paese. Poche settimane prima (correva il decimo anniversario della fucilazione dei fratelli Cervi) Einaudi aveva scoperto la figura di Alcide grazie a un articolo pubblicato sulla rivista dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, «Patria indipendente». L’articolo – che sta all’origine di un mito – era stato scritto da Italo Calvino.
Calvino
era allora un tipico interprete del “lavoro culturale” svolto per conto del
Partito comunista: autore e funzionario della casa editrice Einaudi, fondata
vent’anni prima dal figlio del futuro presidente della Repubblica;
collaboratore fisso dell’«Unità». Sul giornale di partito Calvino aveva
pubblicato, negli ultimi giorni del 1953, un secondo articolo sui Cervi. Per
scrivere quei pezzi il trentenne ex partigiano si era recato di persona a
Gattatico, nella “bassa” emiliana fra Parma e Reggio. Aveva visitato la
fattoria dove i sette fratelli resistenti (e il padre stesso) erano stati
catturati dagli uomini di Salò il 25 novembre 1943, un mese prima di essere
messi al muro senza processo, per rappresaglia dopo un attentato. Aveva
incontrato papà Alcide, «basso e solido e nodoso come un ceppo d’albero»: «il
padre scampato al terrore e al dolore», rimasto vedovo subito dopo la morte dei
figli. Aveva parlato con almeno una delle vedove dei fratelli, e con la
maggiore degli undici orfani, «la ragazza coi capelli rossi che quando i
fascisti assediarono la casa aveva nove anni, e adesso ne ha diciannove».
Calvino
era rimasto folgorato dalla visita a casa Cervi. Lo si capisce dal tono insieme
complice e solenne, familiare e fiabesco, che impronta i suoi articoli del
dicembre ’53. Articoli così eloquenti da folgorare – di riflesso – un “padre
della patria” che si era imposto all’attenzione dell’opinione pubblica, dopo
gli anni della Costituente, come il massimo cantore della Resistenza: il
giurista fiorentino Piero Calamandrei. Sulle orme di Calvino, anche Calamandrei
aveva visitato casa Cervi. E sulla falsariga degli articoli di Calvino,
Calamandrei aveva preparato un discorso in onore di Alcide ch’egli tenne al
teatro Eliseo di Roma il 17 gennaio 1954: lo stesso giorno in cui, al
Quirinale, il contadino emiliano era stato ricevuto dal presidente piemontese.
Le
fondamenta del mito dei fratelli Cervi furono gettate allora, nel mese scarso
che separò la pubblicazione degli articoli di Calvino dall’orazione di
Calamandrei. Allora prese corpo una sorta di tacita intesa fra il giovane
narratore e il maturo giurista, per rappresentare i sette fratelli emiliani
come il simbolo uno e plurimo dell’epos resistenziale: eroi degni della voce di
Omero, o della penna di Ariosto. Il 12 gennaio 1954, su un cartoncino augurale
della casa editrice Einaudi, Calvino si rivolse a Calamandrei come un discepolo
al maestro, ma anche come un capostipite all’erede: «Caro professore, le cose
che mi scrive sui miei articoli sui Cervi mi fanno molto piacere, soprattutto
perché mi sta a cuore che la loro storia sia divulgata e sentita e intesa. Mi
dispiace non poterLa sentire, domenica, a Roma. Chissà che cose belle saprà
dirne, Lei, che sa ancora parlare di queste cose con parole non logore».
Quanto
magnificamente sapesse parlare di queste cose Calamandrei avrebbe dimostrato
l’anno successivo, quando celebrò il decimo anniversario della Liberazione
raccogliendo in volume i suoi maggiori discorsi e le sue migliori epigrafi di
argomento partigiano: Uomini e città della Resistenza valeva da cartaceo
monumento ai caduti, e portava al centro il testo dell’orazione romana di
Calamandrei. Ma più importanti ancora si rivelarono gli effetti del “lavoro
culturale” di Calvino. L’eloquenza dei suoi due articoli sui fratelli Cervi fu
infatti tale da spingere i dirigenti nazionali del Pci a lanciare una vera e
propria campagna di propaganda, per trasformare i sette figli del
cattolicissimo Alcide nella quintessenza del martirologio resistenziale
comunista.
Anche
il segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti, compì (non era la sua prima
volta) il pellegrinaggio a Gattatico: incontrò Alcide Cervi il 17 settembre
1954. E la Commissione stampa e propaganda del Pci – dove lavorava un giovane
cronista dell’«Unità» che sarebbe divenuto, decenni dopo, un celebre “volto”
televisivo: Sandro Curzi – decise di mobilitarsi per allestire un libro di
memorie firmato da “papà Cervi”. L’onore toccò a un altro giornalista del
quotidiano di partito, Renato Nicolai. Il quale, ricamando ad abundantiam sugli
articoli di Calvino, su conversazioni col vecchio Alcide, su interviste con
parenti o compaesani, e soprattutto sulle direttive della Commissione stampa e
La
storia dei fratelli Cervi – aveva detto Calamandrei nel discorso del teatro
Eliseo – era talmente meravigliosa da non richiedere alcuna toilette: «Non c’è
bisogno di abbellirla. I fatti parlano da sé». In realtà, da Italo Calvino in
giù, l’intellighenzia comunista fece di tutto per abbellire una storia certo
eroica, ma parecchio complicata. Perché nei due o tre mesi intercorsi fra
l’inizio della Resistenza e la loro morte, i sette fratelli Cervi erano stati
tutto fuorché altrettante incarnazioni del «rivoluzionario disciplinato»,
consapevole avanguardia di un «popolo alla macchia». Quando, all’indomani
dell’8 settembre 1943, il movimento partigiano si presentava ancora informe,
spontaneistico, velleitario, i Cervi si erano dati all’attività di renitenza e
di sabotaggio con una convinzione ai limiti dell’incoscienza. Né erano mancate
le frizioni fra loro e i dirigenti locali del Partito comunista clandestino, che
accusavano i fratelli Cervi di comportarsi da «anarcoidi».
Fu
per fare «leggenda» (com’ebbe a dire Calamandrei stesso) che i cantori
dell’epos resistenziale trasformarono i fratelli Cervi in icone, quasi in
santini. Riconoscendo un massimo di coerenza entro un percorso che era stato,
dal cattolicesimo all’antifascismo e dall’antifascismo alla Resistenza, più
appassionato che lucido, più coraggioso che accorto. E sottacendo le difficoltà
ambientali, gli inciampi militari, l’isolamento politico dei sette fratelli
durante la loro breve stagione da partigiani sull’Appennino. Fu per fare
leggenda, e fu inoltre per segnalare agli italiani del dopoguerra come la
storia della Resistenza nella “bassa” emiliana non fosse affatto riconducibile
alla caricatura infamante che andava veicolandone la propaganda anticomunista,
tutta impegnata a denunciare i crimini del cosiddetto «triangolo della morte».
Nei
dintorni di Reggio Emilia, durante la guerra civile del 1943-45, i partigiani
“rossi” erano stati vittime delle belve nazifasciste molto più che carnefici di
agnelli innocenti. Era questa la lezione che veniva (e che ancora viene) dalla
storia dei fratelli Cervi, fucilati senza processo senza che avessero, loro,
mai ucciso nessuno. Era questa la «storia familiare» che per diventare «storia
d’Italia» – teorizzò allora Calvino – aveva bisogno di farsi mito.
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