Francis Fukuyama: «La storia è ripartita (anche in Italia)
È la democrazia che ha perso velocità»
articolo di Massimo Gaggi
Corriere della Sera, 10 ottobre 2014
WASHINGTON Contrordine: la storia non è finita con la caduta del «muro
di Berlino» e il conseguente, inevitabile trionfo della democrazia
liberale, come aveva annunciato Francis Fukuyama nel suo saggio più
celebre, pubblicato 25 anni fa. Ce ne eravamo accorti, direte voi. Ma
ora ad ammetterlo è lo stesso politologo della Stanford University: «Lo
so, a molti l’ipotesi della fine della storia è sembrata sbagliata o,
quantomeno, bisognosa di una revisione. Io continuo a credere che l’idea
di fondo sia corretta: in tutti questi anni un sistema politico
alternativo alla democrazia liberale, capace di essere accettato e di
diffondersi nelle principali aree del mondo, non è emerso. Ma è anche
vero che il sistema liberaldemocratico non solo non ha trionfato
ovunque, ma dà segni di decadenza in molte parti dell’Occidente e in
modo particolare negli Stati Uniti: oggi registro limiti e involuzioni
dei processi politici che non avevo visto nella festosa eccitazione del
1989».
Incontro Fukuyama a Washington dove è ospite di vari «think
tank» nei quali si discute della revisione delle sue posizioni, così
come le ha esposte in «Political Order and Political Decay» (Ordine
politico e decadenza), il suo ultimo saggio.
Dal mondo arabo a
Vladimir Putin, dalla Cina all’Iran, sono in molti a sfidare il modello
basato sulla democrazia liberale, anche quando sembrano abbracciare le
regole dell’economia di mercato.
«La mia analisi dell’89, poi
tradotta in slogan, era una reazione alla profezia di Marx: la storia
finirà nel socialismo. Niente affatto, dissi allora, finirà in un
sistema fatto di economia liberale e istituzioni politiche democratiche.
L’affermazione definitiva di questo sistema obiettivamente non c’è
stata. Ma non sono emersi nemmeno modelli alternativi credibili: quelle
che vengono dall’Islam radicale sono resistenze e reazioni alla
modernizzazione. Quella di Putin è una battaglia antistorica che il
presidente russo può combattere — oggi e non so per quanto tempo ancora —
grazie alla posizione di preminenza che Mosca occupa nel mercato
energetico europeo. Quanto può durare? Quello governato dal Cremlino è
un sistema fragile, che non attira nessuno che non parli russo. Solo la
Cina, con la sua autocrazia efficiente, potrebbe proporsi come modello
alternativo. Ma anche lì ci sono grosse nubi: con l’automazione e il
rallentamento dell’economia, la disoccupazione di massa non risparmia
più nemmeno il gigante asiatico. Nel quale, intanto, si rafforza un ceto
medio sempre più vasto: si accontenterà di vivere in una dittatura
altamente produttiva o chiederà libertà e democrazia? Vedremo. Per me i
problemi principali sono all’interno delle democrazie occidentali.
Soprattutto quella Usa, profondamente malata».
Eppure abbiamo sempre
considerato quello americano — presidenzialismo più «checks and
balances» — un sistema capace di decidere ma anche di evitare gravi
abusi dell’esecutivo.
«Quell’equilibrio è andato in fumo con la
polarizzazione della politica americana. La democrazia si è trasformata
in “vetocrazia”. Non solo per il “muro contro muro” tra repubblicani e
democratici: le lobby hanno acquisito una capacità crescente di usare i
meccanismi di controllo che bilanciano il presidenzialismo per tenere in
ostaggio le istituzioni. A questo punto funzionano meglio i sistemi
parlamentari europei».
Nel suo libro, però, lei è severo anche con l’Europa. E dedica un capitolo molto amaro all’Italia.
«Le
difficoltà dell’Europa le vedono tutti: un progetto incompiuto,
economia asfittica, un sistema di tutele sociali che nell’immediato può
attutire la crisi occupazionale, ma è sempre più insostenibile. Poi c’è
l’Italia che è un caso a sé. Ricorda gli Stati Uniti del XIX secolo,
soprattutto per via del sistema clientelare creato alla fine della
Seconda Guerra mondiale dalla Democrazia Cristiana: allora un modo di
mantenere un controllo elettorale, soprattutto al Sud, ed arginare
l’avanzata del comunismo. Con tutte le degenerazioni successive che non
devo certo raccontare a lei. Anche gli Stati Uniti nell’Ottocento e
altri Paesi europei hanno vissuto vicende simili: un degrado del sistema
politico che Max Weber ha chiamato “patrimonialismo”. Solo che gli Usa,
dopo la Guerra civile, l’hanno corretto. Anche altri Paesi sono corsi
ai ripari. L’Italia no: ha avuto un’occasione storica dopo la fine della
Guerra fredda, vent’anni fa, ma Berlusconi l’ha gettata via. Non è
servito nemmeno Bossi che con la Lega avrebbe dovuto rappresentare in
modo ancor più forte le istanze di modernizzazione dei ceti medi, del
mondo produttivo. Invece si è smarrito nel suo sterile populismo. Ora ci
prova Renzi in condizioni ben più difficili: vedremo».
C’è chi
critica il premier italiano perché, stretto tra le emergenze del debito
pubblico e della disoccupazione, è partito dalle questioni
istituzionali: Senato e sistema elettorale.
«Non mi sembra
sbagliato, per quello che vedo da lontano. Per non finire nella spirale
della decadenza, i sistemi politici liberali hanno bisogno di tre cose:
uno Stato solido, governabile; istituzioni democratiche; il rispetto
della legalità. Affrontando la questione del Senato (che negli Usa è
all’origine della paralisi del Congresso, ma sono sistemi diversi) e la
riforma della giustizia civile, Renzi guarda lontano a differenza di
altri leader che investono il loro capitale politico cercando risultati
immediati. Comunque vedo che si sta occupando anche di riformare il
lavoro: un’agenda coraggiosa. Ma anche un’agenda obbligata dai vincoli
europei, credo».
Per diffondere il liberalismo, dice lei, servono
Stati forti, democrazia e legalità. Ma nel suo libro sembra che a volte
il rafforzamento dello Stato venga per primo: secondo lei ha sbagliato
Washington a puntare sulla democratizzazione anche dove, dalla Libia
allo stesso Egitto, le condizioni ambientali erano molto difficili?
«Il
caso libico ci dice che portare la democrazia dove non c’è uno Stato
serve a poco. Ma bisogna tenere conto in modo pragmatico di tutti i
fattori. Si può sostenere, ad esempio, che l’Iraq sia stato portato alle
urne troppo presto. Ma era necessario dare legittimità agli attori
politici. L’ayatollah Sistani, guida spirituale in Iraq, ebbe la
saggezza di capirlo. Oggi a Bagdad paghiamo non la costituzione
prematura di un governo autonomo, ma la sciagurata decisione del
plenipotenziario Usa in Iraq, Paul Bremer, che 11 anni fa smantellò
l’esercito iracheno».
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