Politica e romanzo
traduzione di Giulio De Angelis
Lerici, Milano 1962 [Politics and the Novel, 1957]
Stendhal (1783-1842), pochi mesi prima della sua morte a Civitavecchia, luglio 1841. Disegno di Henri Lehmann, Grenoble, Museo Stendhal |
La Certosa di Parma esprime il distacco più completo di Stendhal dal mondo contemporaneo e il suo trionfo più completo su di esso; il romanzo è l’espressione più completa della sua alienazione rispetto alla sua epoca e del suo rifiuto di lasciarsi bloccare da quella alienazione. La Parma di Stendhal non appartiene né al XIX° secolo né, come hanno sostenuto alcuni critici, all’epoca di Machiavelli; è indipendente dal tempo e dallo spazio, un modello in formato ridotto di governo autocratico; qui la politica, per un paradosso che è la molla segreta della grandezza di Stendhal, si presenta ai nostri occhi con l’evidenza rappresentativa di una parabola e con la stilizzata illogicità di un’opera lirica. La maggior parte dei romanzieri che volgono la loro attenzione alla politica - penso soprattutto a Conrad - tendono a considerarla un ostacolo che il mondo interpone sulla strada che porta alla felicità. Anche Stendhal vede la politica sotto questa luce, ma il suo modo di considerarla e di accostarsi ad essa è molto più complesso. La politica impedisce al conte Mosca e alla duchessa Sanseverina di godersi quella felicità che sarebbe alla loro portata, impedisce a Fabrice di fuggire con la sua cara, piccola Clelia; la politica è quella forza dei mondo esterno che impedisce agli uomini di seguire i loro più sani istinti ma è anche qualcos’altro e di ciò si tendono conto pienamente solo Stendhal e Dostoevskij tra i romanzieri dell’Ottocento: è un modo di sfogare quelle stesse passioni che essa soffoca; essa non è solo un ostacolo per la volontà ma anche uno stimolo e una sfida; essa non è semplicemente un invito alla pusillanimità ma, a volte, un invito all’eroismo.
Le
possibilità di azione politica sono assai limitate nella Parma
stendhaliana: non ci sono partiti veri e propri, si diffida delle idee,
la gente è stupida e il monarca, pur non essendo un sovrano assoluto, ha
abbastanza forza da influenzare a suo piacimento la vita quotidiana dei
suoi ministri e della sua corte. La delusione crescente per il mondo
della politica da parte di Stendhal (La Certosa occupa nella sua carriera letteraria un posto analogo a quello de La tempesta
nell’opera di Shakespeare) fa sì che in tutto il romanzo egli studi il
potere nel suo aspetto meno favorevole, come una vile assurdità da parte
di coloro che lo esercitano, una continua minaccia per gli uomini
intelligenti e una sicura fonte di corruzione per i deboli. Il potere è
qualcosa che bisogna imparare a sfuggire o a blandire, o ci si sottrae
ad esso o ci si viene ai patti. I protagonisti del romanzo si
preoccupano ripetutamente del problema che avrebbe affascinato Stendhal
nei suoi ultimi anni: come gabbare chi ci governa. L’atteggiamento di
Stendhal nei confronti del potere non è quello di chi è in cima alla
scala sociale o in fondo ad essa, ma piuttosto di chi vi si trova al
margine.
Le
tre figure centrali rappresentano tre atteggiamenti possibili nei
riguardi del potere e tre diversi modi di distanziarsi da esso. Mosca lo
domina e lo manovra, pur considerandolo, in privato, una farsa; la
Sanseverina lo tollera ma è sempre pronta a contrastarlo con tutta la
forza dei suoi appetiti; Fabrice si piega davanti ad esso con l’inchino
del cortigiano e del chierico ma rimane fondamentalmente indifferente
alle sue istanze. Stendhal partecipa di tutt’e tre questi atteggiamenti
ma di nessuno dei tre esclusivamente.
Mosca
è un uomo che crede nella stabilità, se non nella saggezza, del mondo
sociale. In gioventù ha combattuto negli eserciti di Napoleone, ora « i
traveste come l’attore che recita una farsa per conquistarsi un’elevata
posizione sociale e qualche migliaio di franchi all’anno». La parola
chiave è «farsa», che Mosca usa ripetutamente nel parlare delle cose
di Parma, ed è una chiave che Stendhal
offre ai suoi lettori i quali però di rado ne fanno l’uso dovuto. Mosca
ha dovuto adattarsi all’ambiente ma non ne accetta l’ipocrisia. Egli sa
che quando si occupa della ricerca notturna degli assassini sotto il
letto di Ernesto IV, tanto lui quanto il monarca si rendono ridicoli.
Egli mal sopporta il peso del potere; per lui è già un tormento
atteggiare il viso all’espressione solenne richiesta dalle circostanze;
ed egli sa che la prudenza continua impostagli dalla sua posizione
politica finirà per indebolirlo sia come uomo pubblico che come privato.
Egli è coraggioso ma non eroico, intelligente ma non produttivo. Non si
illude affatto di coprirsi di gloria o di ammantarsi di bontà e come
molti uomini che non sono troppo cinici ma si sentono obbligati ad
accettare compiti estremamente sgradevoli, egli posa a cinico e cosi
riesce a prevedere, accentuare e quindi disarmare le critiche che
possono esser mosse contro di lui. Poiché egli conosce il viver del
mondo: quando Fabrice suggerisce di esser inviato davanti a « dei
magistrati che giudichino secondo coscienza », Mosca replica con
disarmata dolcezza: « Lei mi farebbe cosa gratissima... se mi desse gli
indirizzi di quei magistrati; scriverò loro stasera, prima di andare a
letto».
Mosca
ha un concetto altissimo dell’onore personale e sa che nel suo
mestiere, come nel suo ambiente, esso non può non ricevere gravi colpi;
ma la grande difficoltà - che per poco non lo manda in rovina - consiste
nel fatto che, avendo perso lo slancio liberale della sua giovinezza,
egli ora si preoccupa dei meccanismi più che degli scopi del governo.
Egli non è ubriaco di potere, non desidera offendere né umiliare
nessuno, si sforza d’impedire a Ernesto IV di far disonore al posto che
occupa ma agisce più per impulsi disordinati che per una convinzione
morale. Mosca è una brava persona, ma gli manca una fede. Egli non sa
mai resistere alla tentazione - quella del professionista - di indicare
al monarca da lui disprezzato come meglio svolgere la sua spregevole
politica; ad esempio, egli dice ad Ernesto IV che il problema dei
Carbonari può esser risolto in due modi: facendo uccidere diecimila
ribelli o facendo concessioni liberali al popolo. Il consiglio è
intelligente; noi sappiamo con certezza quale di queste due alternative
preferisca Mosca ed è probabile che egli abbia esagerato il numero delle
vittime necessarie per indurre alla mitezza Ernesto IV; ma il guaio è
che Mosca pensa in termini di pura « arte del governare », escludendo
dal suo orizzonte quegli essenziali problemi di valore che gli
imporrebbero di formulare anzitutto un vero e proprio giudizio sui
Carbonari. [...]
Numerosi
critici hanno detto che nella figura di Mosca Stendhal impersonava una
sua visione machiavellica della politica; Arnold Hauser, uno dei
migliori critici di tendenza sociologica della nostra epoca, afferma che
i romanzi di Stendhal sono « corsi di lezioni di amoralismo politico » e
cita sottoscrivendola l’osservazione di Balzac, secondo cui La Certosa
è il romanzo che avrebbe scritto il Machiavelli se fosse vissuto
nell’Italia del XIX secolo e ne fosse stato messo al bando. [...]
La
Sanseverina, superba figura femminile per la quale i critici letterari
hanno veramente perso la testa, s’intrufola anch’essa negli intrighi
politici parmensi, ma né lei né nessun altro si chiede mai quale valore
essa annetta alla politica. Essa si interessa alla politica non come un
mezzo per indagare i conflitti sociali o per placare desideri sfrenati
di potere, ma come ad una forma d’azione che dà il massimo rilievo al
profilo del carattere umano. Essa giudica Ernesto IV più come uomo che
come monarca (e non giova molto), essa sfrutta il timore reverenziale
del plebeo Arcivescovo Landriani di fronte ai titoli nobiliari, essa è
affascinata dal liberalismo da Robin Hood di Ferrante Palla, essa valuta
con ammirevole esattezza quanto Fabrice sia distaccato dal mondo. In
tutte le sue reazioni essa è sempre molto immediata e naturale: è una
delle figure meno snob di tutta la letteratura mondiale.
La Sanseverina è una romantica che incarna nei rapporti personali l’ideale
napoleonico o, per lo meno, quel principio come viene inteso e
sublimato da Stendhal. La grande passione della sua vita è il suo
sentimento per Fabrice, che è più di un amore incestuoso, pur essendo
certamente anche questo, in quanto implica il desiderio di trovare un
sostegno spirituale in un’altra persona e in tal modo ricostruirsi
un’esistenza. In virtù della forza di un altro essere essa vorrebbe
tornare alla condizione della sua giovinezza, non per dominare Fabrice
ma per entrare in comunità spirituale con lui. Essa ammira la
generosità, l’impetuosità, la gaiezza, la passione - e una certa
mancanza di scrupoli e di pietà nel conquistarsele. Alla fine del libro,
essa accetta il suo destino che è quello di sposare Mosca e abbandonare
Fabrice. Come si esprime mirabilmente Stendhal « la contessa, a farla
breve, appariva esteriormente felice in tutti i sensi ».
Egli
è, in parte, ciò che avrebbe voluto essere Stendhal (l’uomo che resta
all’opposizione per principio, senza preoccuparsi dell’assurdità della
sua figura) se non ci fossero state a distrarlo la realtà di una bocca
da sfamare e le tentazioni del teatro d’opera e del salotto. Per quanto
comico possa sembrare Palla è anche una figura esaltante, un incitamento
alla resistenza; egli è l’unico uomo la cui temerarietà fa il paio con
quella della Sanseverina, ed è sintomatico di Stendhal il fatto che sia
il primo ministro e non il fuorilegge a conquistare la Duchessa. Per
mantenere la sua intransigenza liberale, Palla deve diventare una figura
ridicola, perfino farsesca, tuttavia è proprio la sua prontezza
nell’indossare il costume della farsa a dargli una dignità tale da
redimerlo. Nel mondo di Parma, l’eroismo si presenta con la maschera
della parodia di se stesso.
Il
predominio della Sanseverina su Mosca rappresenta la vittoria
dell’espagnolisme sull’astuzia calcolata, la forza con cui il desiderio
si fa beffa dei freni della cautela. Nel disegnare il personaggio con
un’affettuosità di cui è difficile trovare l’uguale in letteratura,
Stendhal ci lascia capire che dovunque la passione sia piena e vitale,
la moralità ne soffre un po’. La Sanseverina sembra oltrepassare spesso i
confini della morale; ma abbiamo l’impressione che nel suo caso si
tratti più di una impenetrabilità alle esigenze morali, come se fosse
una qualche maestosa forza di natura, che d’un nietzschiano mutamento di
segni di valore.
Fabrice
si tiene lontano, e parecchio, dal mondo della politica. Non che manchi
di opinioni politiche: Stendhal si preoccupa che ne sia debitamente
fornito. Ma Fabrice non si interessa seriamente di politica; il mondo
gli impone le sue esigenze molto meno che a Julien Sorel. A differenza
di Julien egli è in genere una figura passiva, e lo è nonostante la sua
partecipazione a Waterloo e la sua fuga dalla torre. Egli comincia a far
uso della sua volontà solo quando si tratta di conquistare Clelia -
cioè, di abbandonare il mondo di Mosca e della Sanseverina, il mondo
della politica e della cosa pubblica. Come Il rosso e il nero, La Certosa di Parma
termina con una strana cerimonia sacrilega nella quale vi è nondimeno
una vena notevole, anche se soffocata, di sentimento religioso. I
sermoni di Fabrice sono violentemente falsi, sono sermoni neri, poiché
egli non è un uomo religioso; ma essi esprimono una genuina esigenza
sentimentale, un autentico bisogno di purezza e di esaltazione, un
desiderio di predicare, sebbene in realtà egli non abbia alcun
messaggio, né per sé né per i suoi ascoltatori, esclusa l’espressione
pura e semplice di quel desiderio.
Psicologicamente
Fabrice soffre di una auto-alienazione acutissima: egli sembra spesso
disimpegnato rispetto a ciò che fa, come se stesse assumendo una serie
di ruoli dai quali il suo io interiore è nettamente staccato. Dal punto
di vista sociale egli è un reietto ancor più di Julien Sorel, poiché
mentre Julien è afflitto dall’incapacità di conquistarsi un posto nel
mondo, Fabrice dubita che valga la pena di occuparne uno. Fabrice è un
giovane in cui si cela, sopito, un germe di aspirazione morale che
un’epoca diversa potrebbe far crescere e fruttificare; egli si fa prete,
trasformando la sua vita in una parodia della fede, e non a caso,
poiché ha la vocazione religiosa, sia pure in una forma distorta.
Sebbene non sia un sognatore, Fabrice è dedito ai sogni - ha l’abitudine
di sprofondarsi dentro se stesso fino a raggiungere il bozzolo della
fanciullezza e dell’innocenza. Forse la scena in cui più la sua figura
si impone, (certo una delle più belle del romanzo) è quella in cui egli
torna all’albero di noce sotto il quale giocava da bambino ed ora compie
un rito per riacquistare le forze vitali, esprimendo cosf il suo
bisogno non solo di affermare la propria virilità della quale, come del
resto lo stesso Stendhal, egli non è mai certissimo, ma anche il
profondo senso religioso che prova nei confronti della sua fanciullezza e
di quel poco che gliene resta.
Mosca,
la Sanseverina e Fabrice, incarnano tutti e tre un notevole gioco
reciproco di valori: mondanità, passione personale e una specie di folle
innocenza. Sono tre persone disperse in un mondo ostile, persone
consapevoli del fatto che è rimasto loro poco in cui credere eccettuato
un desiderio di afferrare a volo qualche frammento di felicità per se
stessi e per gli altri. Come osserva con finezza Martin Turnell, essi
costituiscono «una élite estremamente civile e aristocratica e puntano
tutto su una sola carta... la felicità attraverso i rapporti
personali... Sono figure tragiche proprio perché non credono a nulla.
Infatti, non possiamo dire che credono” nei rapporti personali; vi sono
appassionatamente attaccati, ma sono anche profondamente consapevoli
dell’assenza di una mistica e della precarietà del loro tipo di vita
qualora si scontri col dispotismo ».
[...]
A
me sembra che Stendhal fosse assolutamente consapevole della dimensione
politica nella sua opera. Solo un uomo della più alta intelligenza
politica avrebbe potuto concepire l’idea di far diventare governatore
della Cittadella il capo ufficiale del Partito Liberale e fargli
riferire settimanalmente a Ernesto IV le misure prese per tener chiusi i
liberali nelle loro gabbie. Nessuna denunzia di quella viltà morale che
ha caratterizzato cosi spesso il liberalismo moderno ha mai avuto
l’efficacia definitiva dell’immagine inventata da Stendhal, per così
dire, en passant: il generale Fabio Conti, capo dell’opposizione, lacché
del re, guardiano della sua prigione.
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