David Bidussa
Francia: un’angoscia comune
Linkiesta, 31 marzo 2014
Le reazioni al voto delle municipali francesi avvenute domenica scorsa non si sono fatte attendere.
Sostanzialmente le opinioni a confronto sono due: da una parte chi
ritiene che quello di domenica scorsa sia un voto di protesta, e dunque
un’uscita temporanea dalla casa madre; dall’altra chi ritiene, invece,
che esso rappresenti l’ultima, per ora, tappa di un processo di lenta
trasformazione e dunque abbia, o almeno alluda a, un aspetto più
profondo. Personalmente sono più vicino ai secondi.
Certo si può dire che oggi il campo degli euroscettici è in crescita, e di sicuro una delle ragioni del successo del Front National (d’ora in poi FN) va ricercata sotto questo aspetto. Ma poi quel risultato ha un riscontro anche con la storia della Francia in età contemporanea, con la memoria di una Provincia che ha sempre guardato da lontano e spesso con rancore a Parigi (intendendo con queste due figure da una parte l’immagine della Francia autentica e nella seconda quella di una realtà in cui il dato essenziale era la presenza degli stranieri, dei “non francesi”). È la Francia del popolo variegato che riempie i racconti di Simenon, delle inchieste di Maigret, una Francia che attraverso il delitto di cronaca, a saperla leggere, racconta di sé moltissimo. Per capire dunque lo stato d’animo profondo, inquieto, risentito, a mio parere dobbiamo abbandonare una lettura che nasce dal contingente, dalle difficoltà in corso e scavare più a fondo, andando a indagare il “ventre profondo” di Francia.
Hervé Le Bras, demografo attento ai comportamenti, ed Emmanuel Todd, un antropologo che studia la trasformazione dei sentimenti e la loro interpretazione, hanno pubblicato a metà del 2013 un libro ricco di dati e di riflessioni su quella che è una crisi di lungo periodo della Francia attuale, dal titolo Le mystère français (Seuil). Su quel libro ho già scritto sul "Sole 24 ore" (quel testo è stato ospitato da Doppiozero con il titolo La Francia senza identità e non vi ritorno qui. Se non per riepilogare alcuni dati.
In sintesi: la Francia degli ultimi venti anni registra un abbassamento verticale del PNL; aumenta la quota degli scolarizzati ma senza che questo indichi un avanzamento sociale; arretra il tasso di integrazione nelle grandi aree urbane; si mantiene uno spirito di villaggio nella “provincia”.
Un dato che esprime la rivincita del villaggio sulla città; dello spirito comunitarista su quello liberale e individualista. Diversamente si potrebbe dire: la famiglia-ceppo torna a prevalere su quella mononucleare.
La crisi sociale della Francia è prima di tutto crisi dei percorsi emancipativi individuali, fondati sul rifiuto della tradizione, propri delle rivolte giovanili degli ultimi cinquant’anni. Sentimenti che significano ricerca della “Vecchia Francia”.
Il FN vince perché è avvertito come espressione autentica della storia di Francia. Un aspetto che richiama il mito della Francia di Vichy, anch’esso fondato sul riscatto della tradizione e sul primato della provincia contro la città industriale. Una realtà in cui l’insediamento agrario e la divisione del campo per appezzamenti come ha rilevato Marc Bloch in uno studio classico (I caratteri originari della storia rurale francese, Einaudi 1973, ed. or. 1931), esigono una “grande coesione sociale, una mentalità comunitaria”.
Ma questa coesione è messa in discussione da almeno trent’anni.
Era il 3 dicembre 1983 quando a Parigi 100.000 figli d’immigrati (in gran parte algerini) partecipano alla “marcia per l’eguaglianza e contro il razzismo”. Quella marcia era la richiesta di esserci, di esistere e di integrarsi in una società che ancora stentava a riconoscerli.
La risposta di una parte della società francese di fronte alla possibilità dell’integrazione, alle politiche integrative avviate con la prima esperienza Mitterrand, fu la nascita del Front national di Jean-Marie Le Pen. La controreplica nel corso degli anni ’90 è stata la progressiva rivendicazione di un orgoglio delle origini che ha trasformato profondamente le periferie francesi e ne ha innalzato le conflittualità: quella degli integrati sociali, contro i marginalizzati; quella dell'occupazione a bassa professionalità contro la disoccupazione; quella della selezione scolastica per ceti; quella del maggior successo nella scuola delle ragazze nei confronti dei ragazzi. Soprattutto la fine del desiderio di integrarsi. Oggi la loro condizione è di essere al massimo francesi sulla carta (“Français de papier”) mentre cresce la nostalgia dell’origine. L’identità non è al futuro, è al passato. È il capostipite a tornare protagonista nell’identità di una società sempre più divisa e soprattutto distante. “Francesi di ceppo”, “Français de souche”, secondo il linguaggio di Le Pen. Fine del sogno di essere “Français comme les autres”, da parte dei nipoti degli immigrati.
I margini per un recupero del sogno del 1983 sono oggi molto stretti. Non solo perché l’opinione pubblica dei francesi di ceppo non sembra orientata in quella direzione, ma forse anche perché quegli altri l'integrazione non la chiedono più. E non la chiedono non solo, o non tanto, perché è una richiesta inutile, ma perché esiste un orgoglio di comunità, di origine, che è forte anche dentro e comunque fa ritenere che impegnarsi per integrarsi sia tempo perso.
Ma quest’aspetto ne implica un altro, anch’esso di natura strutturale, su cui non è improprio riflettere.
Venti anni fa, nel 1995, un rapporto sulla condizione minorile nelle periferie francesi evidenziava molti malesseri della società nel suo complesso.
In quel rapporto si metteva in guardia anche da un doppio fenomeno conseguente alla condizione d’incertezza: insorgenza dell’islamizzazione delle periferie; crescita del fenomeno lepenista. Nelle periferie del terzo anello contigue a quei quartieri cresceva la solitudine dei “beurs”, cioè dei nipoti della grande ondata maghrebina degli anni ’50 che non vedevano un futuro davanti a loro. Nei quartieri operai, un tempo roccaforti tradizionali della sinistra, il voto operaio già allora iniziava a rivolgersi verso Jean-Marie Le Pen. È la silhouette del malessere europeo postindustriale.
È significativo cosa risponde un operaio sindacalizzato a proposito della sua scelta di vita (siamo nel 2011, ovvero prima delle elezioni presidenziali che nel 2012 portano François Hollande all’Eliseo, questo per dire che chi oggi crede che la causa di tutto sia il grigio presidente attuale dice una cosa vera, ma non dice tutto, e soprattutto scarica su una sola persona un sintomo molto più profondo): “Votare FN è votare per il posto di lavoro. Votare socialista o UMP è votare per i padroni. Votare all’estrema sinistra significa difendere il lavoro degli immigrati. Io voto l’estrema destra” (Citato in Michel Wieviorka, Le Front National, Emsh, Paris 2013, p. 40).
Dagli anni ’80 e, soprattutto, nel corso degli anni ’90, la risposta messa in atto nella realtà francese è stata da una parte l’apertura di una campagna volta genericamente a una riaffermazione della lotta al razzismo e alle intolleranze, dall’altra la presentazione di un modello di crescita sociale e di emancipazione, comunque di benessere, che si prometteva “per tutti”, ma poi non aveva le coperture per garantirlo. Fine dello sviluppo e crisi del sistema di protezione sociale, dello Stato-provvidenza, sono i due segni di questa crisi.
Per poter rispondere a quella crisi si trattava di andare oltre la campagna sulle condizioni generali e affrontare le questioni specifiche, scomporre i dati generali del malessere, mettere in atto una politica concreta in grado di affrontare i percorsi specifici e personali del disagio. Più precisamente: da una parte constatare e considerare il dato che il razzismo oggi sia un fenomeno multifattoriale, ovvero plurale, basato su motivazioni locali, sociali, nazionali e globali; dall’altro considerare proprio in relazione a questa pluralità le risposte da attivare.
Ciò che era già evidente allora e che ora credo sia manifesto platealmente è la delusione di un sogno emancipativo che molti pensano che non sia per loro. Con quella delusione, ciò che si mette a nudo è anche la crisi di una repubblica inquieta e tormentata intorno ai suoi fondamenti. Tra questi particolarmente rilevante è la dimensione della laicità. Anche se difficilmente da questa crisi si uscirà riscoprendo l’esaltazione del vincolo sociale del religioso, ovvero delle strutture di tutela e di “carità” o di assistenza, è certo che oggi la Repubblica laica deve ripensare il suo stesso modello ideale, a partire da quella legge che circa nel 1905 sanciva la separazione tra sfera del religioso e sfera pubblica.
Da tempo lo “stato di salute” della laicità costituisce il tema all’ordine del giorno. La questione è, preliminarmente, se la strada intrapresa due anni fa con i lavori della Commissione Stasi – il cui primo effetto è stato la legge che interdice l’ostentazione dei simboli di appartenenza di fede nei luoghi pubblici e soprattutto nella scuola – rappresenti un percorso condiviso e se quell’agenda debba essere ripensata.
Qui si misura la domanda all’Europa come ipotesi politica, ma anche la crisi evidenziata dalle risposte arrivate da un ventennio su questo versante. Per questo se all’inizio l’Europa era una scommessa oggi a molti appare un incubo, comunque una realtà da cui fuggire a gambe levate.
Dunque per riepilogare.
Il voto al FN esprime sia un sentimento locale sia una condizione collettiva.
Quel voto denuncia l’angoscia delle periferie terrorizzate dall’eventualità che il legame sociale della comunità si spezzi, attraversate dalle paure di ciò che può arrivare da “fuori”. La sua geografia è collocata nell’estremo Est della Francia e nella zona mediterranea sud; ha una barriera di contenimento nella Francia occidentale, che il FN conquista solo al primo turno delle presidenziali del 2012. Nella stessa occasione il FN conquista il voto operaio nelle roccaforti comuniste di un tempo – Alta Normandia, Pas de Calais, Picardia – con percentuali intorno al 40% (27% su tutto il territorio nazionale).
Non solo. Quel voto esprime anche: preoccupazione per la perdita di competitività internazionale; percezione del crollo della propria “potenza”; timore del “declassamento”. Sentimenti che agiscono sulle convinzioni, più che sulla realtà. Infatti: lo stato sociale ancora funziona e la capacità d’innovazione culturale è tuttora rilevante. Ma non basta: ciò che manca è un’idea di futuro. Una condizione che, peraltro, si rispecchia nella crisi di progetto dell’UE, un dato che non è solo francese.
Per questo la crisi odierna della Francia parla alle altre democrazie europee e le interroga riguardo al deficit di progetto di cui anch’esse soffrono. In questo senso non è un voto di protesta, ma un segnalatore d’incendio che agisce nel profondo e parla anche a noi, alle nostre incertezze e, soprattutto al nostro malessere.
Certo si può dire che oggi il campo degli euroscettici è in crescita, e di sicuro una delle ragioni del successo del Front National (d’ora in poi FN) va ricercata sotto questo aspetto. Ma poi quel risultato ha un riscontro anche con la storia della Francia in età contemporanea, con la memoria di una Provincia che ha sempre guardato da lontano e spesso con rancore a Parigi (intendendo con queste due figure da una parte l’immagine della Francia autentica e nella seconda quella di una realtà in cui il dato essenziale era la presenza degli stranieri, dei “non francesi”). È la Francia del popolo variegato che riempie i racconti di Simenon, delle inchieste di Maigret, una Francia che attraverso il delitto di cronaca, a saperla leggere, racconta di sé moltissimo. Per capire dunque lo stato d’animo profondo, inquieto, risentito, a mio parere dobbiamo abbandonare una lettura che nasce dal contingente, dalle difficoltà in corso e scavare più a fondo, andando a indagare il “ventre profondo” di Francia.
Hervé Le Bras, demografo attento ai comportamenti, ed Emmanuel Todd, un antropologo che studia la trasformazione dei sentimenti e la loro interpretazione, hanno pubblicato a metà del 2013 un libro ricco di dati e di riflessioni su quella che è una crisi di lungo periodo della Francia attuale, dal titolo Le mystère français (Seuil). Su quel libro ho già scritto sul "Sole 24 ore" (quel testo è stato ospitato da Doppiozero con il titolo La Francia senza identità e non vi ritorno qui. Se non per riepilogare alcuni dati.
In sintesi: la Francia degli ultimi venti anni registra un abbassamento verticale del PNL; aumenta la quota degli scolarizzati ma senza che questo indichi un avanzamento sociale; arretra il tasso di integrazione nelle grandi aree urbane; si mantiene uno spirito di villaggio nella “provincia”.
Un dato che esprime la rivincita del villaggio sulla città; dello spirito comunitarista su quello liberale e individualista. Diversamente si potrebbe dire: la famiglia-ceppo torna a prevalere su quella mononucleare.
La crisi sociale della Francia è prima di tutto crisi dei percorsi emancipativi individuali, fondati sul rifiuto della tradizione, propri delle rivolte giovanili degli ultimi cinquant’anni. Sentimenti che significano ricerca della “Vecchia Francia”.
Il FN vince perché è avvertito come espressione autentica della storia di Francia. Un aspetto che richiama il mito della Francia di Vichy, anch’esso fondato sul riscatto della tradizione e sul primato della provincia contro la città industriale. Una realtà in cui l’insediamento agrario e la divisione del campo per appezzamenti come ha rilevato Marc Bloch in uno studio classico (I caratteri originari della storia rurale francese, Einaudi 1973, ed. or. 1931), esigono una “grande coesione sociale, una mentalità comunitaria”.
Ma questa coesione è messa in discussione da almeno trent’anni.
Era il 3 dicembre 1983 quando a Parigi 100.000 figli d’immigrati (in gran parte algerini) partecipano alla “marcia per l’eguaglianza e contro il razzismo”. Quella marcia era la richiesta di esserci, di esistere e di integrarsi in una società che ancora stentava a riconoscerli.
La risposta di una parte della società francese di fronte alla possibilità dell’integrazione, alle politiche integrative avviate con la prima esperienza Mitterrand, fu la nascita del Front national di Jean-Marie Le Pen. La controreplica nel corso degli anni ’90 è stata la progressiva rivendicazione di un orgoglio delle origini che ha trasformato profondamente le periferie francesi e ne ha innalzato le conflittualità: quella degli integrati sociali, contro i marginalizzati; quella dell'occupazione a bassa professionalità contro la disoccupazione; quella della selezione scolastica per ceti; quella del maggior successo nella scuola delle ragazze nei confronti dei ragazzi. Soprattutto la fine del desiderio di integrarsi. Oggi la loro condizione è di essere al massimo francesi sulla carta (“Français de papier”) mentre cresce la nostalgia dell’origine. L’identità non è al futuro, è al passato. È il capostipite a tornare protagonista nell’identità di una società sempre più divisa e soprattutto distante. “Francesi di ceppo”, “Français de souche”, secondo il linguaggio di Le Pen. Fine del sogno di essere “Français comme les autres”, da parte dei nipoti degli immigrati.
I margini per un recupero del sogno del 1983 sono oggi molto stretti. Non solo perché l’opinione pubblica dei francesi di ceppo non sembra orientata in quella direzione, ma forse anche perché quegli altri l'integrazione non la chiedono più. E non la chiedono non solo, o non tanto, perché è una richiesta inutile, ma perché esiste un orgoglio di comunità, di origine, che è forte anche dentro e comunque fa ritenere che impegnarsi per integrarsi sia tempo perso.
Ma quest’aspetto ne implica un altro, anch’esso di natura strutturale, su cui non è improprio riflettere.
Venti anni fa, nel 1995, un rapporto sulla condizione minorile nelle periferie francesi evidenziava molti malesseri della società nel suo complesso.
In quel rapporto si metteva in guardia anche da un doppio fenomeno conseguente alla condizione d’incertezza: insorgenza dell’islamizzazione delle periferie; crescita del fenomeno lepenista. Nelle periferie del terzo anello contigue a quei quartieri cresceva la solitudine dei “beurs”, cioè dei nipoti della grande ondata maghrebina degli anni ’50 che non vedevano un futuro davanti a loro. Nei quartieri operai, un tempo roccaforti tradizionali della sinistra, il voto operaio già allora iniziava a rivolgersi verso Jean-Marie Le Pen. È la silhouette del malessere europeo postindustriale.
È significativo cosa risponde un operaio sindacalizzato a proposito della sua scelta di vita (siamo nel 2011, ovvero prima delle elezioni presidenziali che nel 2012 portano François Hollande all’Eliseo, questo per dire che chi oggi crede che la causa di tutto sia il grigio presidente attuale dice una cosa vera, ma non dice tutto, e soprattutto scarica su una sola persona un sintomo molto più profondo): “Votare FN è votare per il posto di lavoro. Votare socialista o UMP è votare per i padroni. Votare all’estrema sinistra significa difendere il lavoro degli immigrati. Io voto l’estrema destra” (Citato in Michel Wieviorka, Le Front National, Emsh, Paris 2013, p. 40).
Dagli anni ’80 e, soprattutto, nel corso degli anni ’90, la risposta messa in atto nella realtà francese è stata da una parte l’apertura di una campagna volta genericamente a una riaffermazione della lotta al razzismo e alle intolleranze, dall’altra la presentazione di un modello di crescita sociale e di emancipazione, comunque di benessere, che si prometteva “per tutti”, ma poi non aveva le coperture per garantirlo. Fine dello sviluppo e crisi del sistema di protezione sociale, dello Stato-provvidenza, sono i due segni di questa crisi.
Per poter rispondere a quella crisi si trattava di andare oltre la campagna sulle condizioni generali e affrontare le questioni specifiche, scomporre i dati generali del malessere, mettere in atto una politica concreta in grado di affrontare i percorsi specifici e personali del disagio. Più precisamente: da una parte constatare e considerare il dato che il razzismo oggi sia un fenomeno multifattoriale, ovvero plurale, basato su motivazioni locali, sociali, nazionali e globali; dall’altro considerare proprio in relazione a questa pluralità le risposte da attivare.
Ciò che era già evidente allora e che ora credo sia manifesto platealmente è la delusione di un sogno emancipativo che molti pensano che non sia per loro. Con quella delusione, ciò che si mette a nudo è anche la crisi di una repubblica inquieta e tormentata intorno ai suoi fondamenti. Tra questi particolarmente rilevante è la dimensione della laicità. Anche se difficilmente da questa crisi si uscirà riscoprendo l’esaltazione del vincolo sociale del religioso, ovvero delle strutture di tutela e di “carità” o di assistenza, è certo che oggi la Repubblica laica deve ripensare il suo stesso modello ideale, a partire da quella legge che circa nel 1905 sanciva la separazione tra sfera del religioso e sfera pubblica.
Da tempo lo “stato di salute” della laicità costituisce il tema all’ordine del giorno. La questione è, preliminarmente, se la strada intrapresa due anni fa con i lavori della Commissione Stasi – il cui primo effetto è stato la legge che interdice l’ostentazione dei simboli di appartenenza di fede nei luoghi pubblici e soprattutto nella scuola – rappresenti un percorso condiviso e se quell’agenda debba essere ripensata.
Qui si misura la domanda all’Europa come ipotesi politica, ma anche la crisi evidenziata dalle risposte arrivate da un ventennio su questo versante. Per questo se all’inizio l’Europa era una scommessa oggi a molti appare un incubo, comunque una realtà da cui fuggire a gambe levate.
Dunque per riepilogare.
Il voto al FN esprime sia un sentimento locale sia una condizione collettiva.
Quel voto denuncia l’angoscia delle periferie terrorizzate dall’eventualità che il legame sociale della comunità si spezzi, attraversate dalle paure di ciò che può arrivare da “fuori”. La sua geografia è collocata nell’estremo Est della Francia e nella zona mediterranea sud; ha una barriera di contenimento nella Francia occidentale, che il FN conquista solo al primo turno delle presidenziali del 2012. Nella stessa occasione il FN conquista il voto operaio nelle roccaforti comuniste di un tempo – Alta Normandia, Pas de Calais, Picardia – con percentuali intorno al 40% (27% su tutto il territorio nazionale).
Non solo. Quel voto esprime anche: preoccupazione per la perdita di competitività internazionale; percezione del crollo della propria “potenza”; timore del “declassamento”. Sentimenti che agiscono sulle convinzioni, più che sulla realtà. Infatti: lo stato sociale ancora funziona e la capacità d’innovazione culturale è tuttora rilevante. Ma non basta: ciò che manca è un’idea di futuro. Una condizione che, peraltro, si rispecchia nella crisi di progetto dell’UE, un dato che non è solo francese.
Per questo la crisi odierna della Francia parla alle altre democrazie europee e le interroga riguardo al deficit di progetto di cui anch’esse soffrono. In questo senso non è un voto di protesta, ma un segnalatore d’incendio che agisce nel profondo e parla anche a noi, alle nostre incertezze e, soprattutto al nostro malessere.