Bruno Pischedda
Terrorismo senza romanzo
Il Sole 24 ore, 17 marzo 2014
È un giovane studioso proveniente dall'università di Trento, Gabriele
Vitello; e non si può dire che il suo Album di famiglia: gli anni di
piombo nella narrativa italiana scansi taluni fraseggi acerbi e
riduzionismi parapolitici. Tuttavia l'indagine che egli conduce ha un
sicuro valore storiografico; si esercita su un corpo di testi
singolarmente vasto, compone riflessioni psicosociali con una serrata
analisi tematica e figurale. Soprattutto dispone la materia su un doppio
versante cronologico: da un lato i precursori del romanzo a sfondo
terroristico (la Ginzburg di Caro Michele, Sciascia del Contesto,
Moravia con La vita interiore, Parise per L'odore del sangue).
Dall'altro, facendo data agli anni Novanta, una profluvie di opere che
rendono la violenza settaria un pimento quasi obbligato nel quadro delle
patrie lettere: Consolo, Tabucchi, Ortese, Carlotto, Genna, e ancora
Givone, Sartori, fino a Culicchia, Lidia Ravera, Walter Veltroni e altri
molti.
Validamente introdotto da Raffaele Donnarumma, il volume insiste
invero su un particolare e frequentatissimo sottotipo, il romanzo
terroristico di angolatura familiare. Nonostante l'argomento trascelto,
esso sarebbe caratterizzato da un moto a ritroso, che procede dagli
istituti di convivenza collettiva verso un'angusta intimità borghese e
piccolo borghese. Un rinculo valido senz'altro a occultare le
inquietudini seminate dai gruppi combattenti tra il popolo e settori non
infimi di classe operaia. Ma che in ogni caso favorisce alcune costanti
compositive: il primato drammaturgico accordato ai terroristi anziché
alle vittime; l'ellissi o la trasfigurazione nel ricordo delle loro
gesta cruente, ovviando agli estremi di un "realismo traumatico" più
consono al noir; l'aggirarsi in queste storie di tanti
intellettuali-scrittori, costantemente alle prese con difficoltà
cognitive e crisi di ruolo; la sovrabbondanza delle figure femminili,
infine, latrici di un perturbante che ha nel sesso la sua metafora
maggiore (un sesso concepito dapprima come liberazione, Marcuse, Reich, e
ora veicolo di fantasie mortuarie, autodistruttive, in sintonia con il
rapido declinare dei movimenti di protesta).
Sono molte le questioni sollevate da Vitello, inteso a vagliare il
ricco immaginario che in questi romanzi si esprime. Tra di esse, una ha
però valore strategico, e riguarda l'obsolescenza dello schema edipico
che per lungo tempo ha sovrinteso alla chiarificazione di simili
fenomeni. Le scelte dei terroristi, se esaminate in prospettiva
parentale, non valgono più come rivolta contro un padre autoritario e
castratore; si presentano anzi come reagente alla sua "evaporazione",
alla sua assenza o fondamentale inettitudine. È insomma su una pista
lacaniana, ravvivata dalle ricerche di Luigi Zoja e Massimo Recalcati,
che il giovane autore s'incammina con maggior convinzione. Edipo –
spiega – poteva ben fungere da grimaldello per autori modernisti come
Kafka, Pirandello, Tozzi o Svevo; la cui aggressione nei confronti
dell'imago paterna consentiva un'efficace sintesi di "contenuto" e
"forma del contenuto".
Ora una simile opportunità espressiva sembra perduta, e ci restano
dozzine di testi impegnati a ricucire con una buona dose di nostalgia i
legami infranti. Eccettuando i lavori di Parise* o di Sartori**, per i
quali è spesa qui qualche parola di apprezzamento, ne viene una visione
di tipo consolatorio, quando non decisamente regressivo.
D'accordo, nessuno dei romanzi in esame, familista o noir, si è poi
affermato come il romanzo del terrorismo. E mancando un capostipite
prestigioso, la galassia dei testi affini non ha poi dato luogo a un
vero e riconosciuto genere. Andrebbe tuttavia segnalato un più ricco
plesso di problemi: affinché si stabilisca un genere, non basta la
presenza di un tema potentemente sentito, di grande importo simbolico; e
neppure è prefigurabile in alcun modo l'insorgere di un capolavoro che
funga da elemento catalizzatore. Necessita allo scopo un talento
d'eccezione, quindi l'apporto non secondario del pubblico leggente,
della critica; occorre che sia fausto il contesto in cui esso si
inscrive. Nel secondo Ottocento mancò a questo obiettivo il romanzo
cosiddetto parlamentare; lo stesso si può osservare negli anni Settanta
del Novecento per il romanzo apocalittico, pure di lì in poi prediletto
dai nostri scrittori. Vitello porta ad esempio positivo il tema della
lotta antifascista, che certamente parve suscitare la costituzione di un
genere, perché implicava collettività, epos. Tuttavia i manuali
preposti prendono in considerazione la letteratura resistenziale, non il
romanzo resistenziale.
I moti che nell'universo del romanzo conducono a sottospecie ben
identificabili e dotate di prestigio restano in realtà per buona parte
oscuri: conosciamo le leggi generali della gravitazione letteraria, non
le dinamiche minute da cui emergono o non emergono singoli agglomerati
planetari. Ci manca, per così dire, una teoria unificata, e nemmeno
sembra che oggi siano in molti a cercarla.
D'altronde – ultima questione degna di nota –, Vitello chiede molto
al romanzo terrorista. Vuole che abbia un significato analitico,
conoscitivo, così da «influire sulla nostra percezione del passato». A
indisporlo non è soltanto il tragicismo degradato, o la «figuralità
nebulosa e narcisisticamente autoreferenziale» a cui tanto spesso si
concede. Il punto è il travisamento sistematico di ciò che il terrorismo
è stato in termini storici. Vuole insomma il romanzo realista, nella
fattispecie del romanzo sociale: ahimè, uno tra i sottotipi più
misconosciuti della nostra tradizione recente; ma unico, a suo avviso,
in grado di preservare il retaggio letterario dall'invadenza mediatica,
filmica, televisiva. È un'ipotesi diffusa, e gravata di alquanto
massimalismo deprecatorio. Occorreva in ogni caso articolarla più
nitidamente, per discuterne meglio, se non altro.
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(*) Qui il riferimento è a L'odore del sangue, su cui si può vedere http://www.italialibri.net/opere/odoredelsangue.html
(**)
La “guerra” è la protagonista del romanzo di Giacomo Sartori (Anatomia della battaglia),
incarnata dalla figura di un nonno forse colpevole di deportazioni di
prigionieri e forse anche di ebrei, un padre fascista, “soldato” in
battaglia contro gli altri e contro se stesso per tutta la sua vita, e
un figlio che all’età di quindici anni entra a far parte di un gruppo di
estrema sinistra e partecipa alla lotta armata.
Il figlio ormai quarantenne racconta la storia della sua famiglia,
racconta la sua esperienza di terrorista che si inserisce tra le tante
esperienze vissute nel corso della vita nel tentativo di costruire la
sua identità, di formarsi come individuo che vuole sradicare l’odio
tramandatogli dal padre e dal nonno.
Solo il desiderio di scrivere, vivo in lui fin da bambino, e la sua
realizzazione in età adulta riesce, in parte, a farlo uscire da quella
sorta di torpore e di passività che lo hanno caratterizzato nelle sue
scelte di vita anche quella di partecipare alla lotta armata. Il
racconto si costruisce su una continua alternanza di passato e presente,
spiazzando a volte il lettore che non capisce bene dove si trova. (Sabina Gola)
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l’Unità 4.4.14
Che cosa è successo veramente durante gli «anni di piombo»?
risponde Luigi Cancrini
Ripropongo alcune domande sugli «anni di piombo». Com’è possibile
che, in un mondo dominato da Gladio, Cia, P2 etc, si siano potuto
costituire organizzazioni tipo Brigate rosse e Prima linea? I pentiti
muoiono in carcere. E gli irriducibili dove sono sistemati? MICHELE
SCHIAVINO
Un romanzo di Alberto Garlini, La legge dell’odio,
ricostruisce in modo a mio avviso molto efficace quello che accadde in
quel periodo. Brigate Rosse e Prima Linea erano organizzazioni di
estrema sinistra infiltrate e manovrate, come i loro avversari
dell’estrema destra, dai servizi segreti. Che usavano le loro follie per
organizzare attentati e rapimenti utili ad alimentare un clima di
tensione e a eliminare o intimidire i protagonisti di un cambiamento
politico in atto nel tempo in cui i successi elettorali del Pci facevano
paura all’ortodossia della guerra fredda e dei blocchi contrapposti. Il
caso Moro in cui il fanatismo di un gruppo di pazzi venne utilizzato
per evitare che i comunisti partecipassero al governo del Paese è
esemplare da questo punto di vista. I gruppi eversivi erano tutti
infiltrati da agenti dei servizi segreti, d’altra parte, come confessò a
me l’ufficiale della Digos che mi avvertiva di un possibile attentato
contro la mia persona nel ’79. Senza spiegarmi perché i componenti del
gruppo che mi aveva «messo in lista» insieme ad altri (giudici ed
esponenti politici) non venivano semplicemente arrestati e solo
«sorvegliati». Come accadeva allora in modo sistematico con tutti gli
utili idioti dell’estremismo. Viene da qui il «perdonismo» del dopo?
Probabilmente sì. A non capirlo o a non volerlo capire sono stati solo
gli «irriducibili» che stanno ancora in carcere o che non hanno comunque
mai patteggiato con chi li aveva usati e condannati.
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