Marianna Rizzini
Il signor Manette
Il Foglio, 26 aprile 2010
... Se non ci fossero gli aerei, la memoria di Travaglio, a
suo agio negli archivi, non troverebbe il pane che trova persino nel
tempo libero - obbligato tra una presentazione e l’altra, perché è in
aereo che Travaglio stuzzica vecchi colleghi e vecchi amici alla gara
dell’aneddoto - Alba Parietti, ex compagna di asilo ed elementari nella
natìa Torino, dice di aver riportato alla mente episodi dimenticati
grazie a Marco che un giorno in volo le ha “ricordato tutto” (sorge il
dubbio che Travaglio si sia ispirato al Nanni Moretti di “Bianca”,
munito di schedario su vicini e conoscenti). La piccola Alba e il
piccolo Marco erano entrambi allievi delle suore, entrambi “infatuati
della meravigliosa suor Nazarena”, dice Parietti, e frequentavano gli
stessi giardinetti. Marco, di qualche anno più giovane di Alba, appariva
a quell’epoca “uguale a ora, con qualche capello in più”, ed era molto
dispettoso. I due, passati dall’asilo alle elementari “Gaspare Gozzi”,
frequentavano “una zona elegante della città, nei pressi di Corso
Quintino Sella”, e il pomeriggio si ritrovavano “nel parco al centro
della grande piazza”. Appena passava Alba Parietti, già appariscente,
già un po’ ragazza, Marco Travaglio e i suoi amici – tutti più piccoli
di lei – tiravano pallonate. Marco era “magro e riservato”. Alba “se la
tirava un po’”. Alba oggi pensa che Marco “indossi la maschera da
cattivo, ma in realtà sia un caro amico e un vero torinese:
impenetrabile e aristocratico”. Di sicuro c’è che Marco, crescendo, non
ha abbandonato due tipiche abitudini da giardinetto: lo sfottò sui
difetti fisici (da Al Tappone-Berlusconi in giù) e la mania di
appioppare appellativi di non sempre sicuro effetto comico. E insomma
non si capisce come mai nel mondo di Marco Travaglio la gente, i luoghi e
i gruppi politici non compaiano quasi mai col proprio nome. Ecco allora
James Bondi, Anna La Garofana, Lucky Luciano (Luciano Moggi), Polito
Margherito, Zebra nel Pugno, Angelo Panegrigio, Viale Pizzini, “quello
con le méches” (il giornalista Filippo Facci).
Va detto che non ci si salva neppure quando Travaglio
fa i nomi per esteso – ne sanno qualcosa Walter Veltroni (uno che
secondo Travaglio era “in coma vigile” agli albori del Pd), Gianni
Cuperlo (definito “uno sfigato”), Giovanni Floris (a lungo chiamato
“Vespino”, con somma disapprovazione per Vespa) e Fausto Bertinotti (a
lungo additato per la partecipazione a feste nobiliari e per l’amicizia
della moglie con Valeria Marini). Lui, invece, Marco Travaglio, appare
pressoché intoccabile, sebbene non ancora intoccabile quanto Roberto
Saviano – persino i nemici di Travaglio, interpellati, premettono “sia
chiaro che nutro una grande stima professionale per lui” (un osservatore
burlone nota: "Ti credo, quelli magari pensano: ‘Chissà che cosa tira
fuori dall’archivio, con o senza montaggio creativo"). L’intoccabile
Travaglio arriva nello studio di Annozero con il quadernino degli
appunti in mano, serissimo, e il pubblico esplode in boati di puro amore
– a Michele Santoro arrivano caldi ma più contenuti applausi.
L’intoccabile Travaglio si rende spesso impermeabile all’ironia (non la
sua, profusa in ogni direzione con mannaia pignola, bensì quella
proveniente dai suoi detrattori, considerata il più delle volte vile
offesa o balla tra le balle). Pochi, ma degni di nota, i cedimenti di
umana vanità: Travaglio mette cravatte enormi, compra giacche spallute e
taglia i capelli che un giorno Maria Laura Rodotà definì con orrore
“lunghi dietro”. A volte Travaglio è colto da impeto hollywoodiano.
Dice: “Nel tempo libero se voglio cazzeggiare cazzeggio” e infatti
quando va nello studio di Victoria Cabello bacia tutti, si fa truccare
come un attore, si guarda nello specchio senza sorridere, controlla lo
stato del fondotinta, si traveste da Robespierre o da russo col colbacco
e balla con contorsioni rigide e piegamenti ingessati nel video-parodia
di “Cerco un centro di gravità permanente” – forse perché è amico di
Franco Battiato. Franco Battiato comunque ha ricambiato (pare infatti
che un giorno abbia detto: “Sono un Marco Travaglio un po’ più
bastardo”).
A monte dell’intoccabilità, Travaglio ha attraversato
un’infanzia studiosa e devota con papà ingegnere e mamma dell’Azione
cattolica che guardavano con disapprovazione i “ladroni”, anzi i
“latroni” (con accento torinese) che “cominciavano a vedersi in Italia”.
Questo almeno racconta un amico di famiglia (e dunque pare di famiglia
l’ossessione in scala industriale per i veri o presunti lestofanti che
popolano l’universo travagliesco). D’inverno si andava in parrocchia e
d’agosto, in cerca di frescura, si trascorreva qualche giorno nella
frazione di San Martino di Castiglione Torinese, in una casa non
appariscente e non distante dalla tenuta di un cognato degli Agnelli. Il
piccolo Marco e suo fratello Franco cantavano, leggevano e suonavano in
chiesa, “composti e gentilissimi”. Marco ha portato avanti l’impegno
parrocchiale facendo talvolta il catechista, Franco ha continuato a
suonare anche in età adulta, non per la chiesa ma per il teatro – sul
suo curriculum c’è scritto “compositore e creatore di liriche per
musical” (dal “Fantasma dell’Opera” a “Jesus Christ Superstar”),
“regista di pop-opere dedicate a Marilyn Monroe” e “assistente alla
regia” con Dario Fo. Tutto si tiene, ché pure Marco, come il fratello,
adora la coppia Dario Fo-Franca Rame e pure Franco, come il fratello, ha
collaborato a Repubblica.
Troppo grande per continuare a tirare pallonate ad Alba Parietti,
il Marco Travaglio dei giardinetti divenne, al liceo, il Marco
Travaglio ossessionato dai fatti (non sono bravo io, dice oggi, sono gli
altri che si fermano alle opinioni). All’istituto salesiano Valsalice,
infatti, il giovane Marco, ragazzo dinoccolato che vestiva senza troppe
concessioni alla moda, era noto per la memoria formidabile sulle date in
storia e sui dati in geografia, cosa che gli tornò utile nei primi anni
di carriera giornalistica al settimanale cattolico il Nostro Tempo,
quando al momento opportuno se ne usciva con tabelle aggiornatissime
paese per paese. Nel mastodontico edificio Valsalice, arroccato in cima a
una collina, in un’ala del palazzo a ferro di cavallo circondato dagli
alberi, Travaglio aveva studiato il latino e il greco e si era preparato
con sforzo matto e disperatissimo alla doppia laurea storico-letteraria
(ma a voler interpellare gli ex professori sui trascorsi scolastici
dell’ex alunno ci si imbatte in una sequela di amabili e prudenti
“niet”: “Il professore non c’è”, “ho lasciato detto ma il professore
forse non ha visto l’appunto”, “la farò richiamare se il professore
decide che è il caso di parlare”). Poi Marco incontrò (tramite ambienti
catechistici) la futura moglie Isabella, ragazza gentile e sobria –
anche il matrimonio fu gentile, sobrio e poco alcolico, su un colle ai
margini della città. Ai tempi in cui Marco cominciava a collaborare al
Nostro Tempo, sotto la direzione di Domenico Agasso e Maria Pia
Bonanate, la giovane Isabella era impiegata in un’agenzia viaggi nel
centro di Torino. Marco scendeva a rotta di collo con una Panda rossa
piena di carte e borsoni giù dalla collina di Chieri, andava a prendere
Isabella o si industriava per qualche articolo. A turno con altri
giovani redattori, faceva il ragazzo di bottega che assembla pagine,
scrive pezzi, mette titoli, compila didascalie. Nello stesso palazzo, in
Corso Matteotti 11, aveva sede Telesubalpina. Uno degli intervistati
abituali della piccola tv, Massimo Introvigne, si ritrovò un giorno in
studio un Marco Travaglio che faceva domande sulla musica satanica,
oggetto di una ricerca dello stesso Introvigne – il quale tempo dopo,
durante una tavola rotonda, fu colpito da quella che oggi chiama
“metamorfosi di Travaglio da ragazzo semplice a simil-aristocratico che
disprezza ‘er Pecora’”.
Negli anni degli esordi torinesi Travaglio, allora
amico di Mario Giordano, si occupava soprattutto di esteri. Poi, con il
passaggio al Giornale, di calcio – Giordano, che all’epoca era il
“secondo” di Travaglio, ricorda le domeniche di spogliatoio al seguito
della squadra minore, con Travaglio a tallonare la squadra maggiore. Fu
in quegli anni che Travaglio cominciò a collezionare le “fanfaluche dei
cronisti sportivi poi oggetto di due suoi libri”, ricorda l’ex collega
Beppe Fossati, allora corrispondente da Torino (con Travaglio
vicecorrispondente). In anni più recenti, lo juventino Travaglio è stato
visto allo stadio a “gufare” la Juve in segno di protesta contro la
triade Moggi-Bettega-Giraudo – ed è stato in chiave anti Moggi che, due
giorni fa, Travaglio ha scritto sulla sua personale lavagna dei cattivi i
nomi di Piero Ostellino, Beppe Severgnini e Pierluigi Battista, con il
giudizio seguente: “Come se un giornalista, solo perché parla di calcio,
potesse ridursi a trombetta della squadra del cuore, a prescindere dai
fatti”.
Travaglio e Giordano a Torino erano amici, Travaglio e Fossati pure –
poi Travaglio ha paragonato il Giornale diretto da Giordano a Topolino, e
ha descritto il Fossati d’antan come “un bravo e simpatico”
scansafatiche che lo faceva scrivere al posto suo dandogli cinquantamila
lire. C’è da dire che Fossati, interpellato in proposito, ci ride su:
“Nonostante quella battuta, io lo stimo molto. E’ un bravo inquisitore.
Me lo ricordo come un ragazzo sveglio, volenteroso, spiritoso. Per me
era come un fratello minore. L’ho perso di vista quando è diventato
professionista, e negli anni ci siamo incontrati poco. ‘Ciao Beppone’ mi
diceva ogni volta che ci si incrociava”.
Qualcuno a Torino ricorda un Travaglio che si occupa di
economia anche nel pieno della partita Berlusconi-De Benedetti, con
toni non teneri verso Carlo De Benedetti (Travaglio però su De Benedetti
ha pronta la frase: ha avuto i suoi guai con la giustizia ma ha ammesso
quel che doveva ammettere). La fissazione giudiziaria, per Travaglio,
si sedimentò dopo l’incontro con Marcello Maddalena e si nutrì delle
conversazioni tra colleghi alla redazione locale di Repubblica – si
mangiava alla stessa tavola, si faceva sport (“affittavamo un campo al
Circolo della stampa, e Marco arrivava trafelato, spesso in ritardo”,
racconta l’ex collega Davide Banfo) e si confrontavano dati sul processo
Fiat, oggetto di un libro di Marco Travaglio e Paolo Griseri.
Soltanto al Giornale di Indro Montanelli Travaglio si fece notare anche
come riepilogatore di fatti e recuperatore di citazioni. L’allora
vicedirettore Paolo Granzotto fornisce l’esempio pratico: “Crollava una
diga e Travaglio in men che non si dica scriveva un pezzo su tutte le
dighe crollate negli ultimi vent’anni. Saliva agli onori delle cronache
un politico e Travaglio aveva pronte tutte le frasi dette dal politico
nel decennio appena trascorso. Montanelli era molto soddisfatto”. Sia
Paolo Granzotto che Mario Cervi ricordano un Travaglio “talentuoso”,
“ambizioso” e già propenso ad autoeleggersi se non allievo di Montanelli
– guai a dirlo: Travaglio dice che nessuno può essere allievo di
Montanelli – quantomeno uno dei pochi e forse l’unico fedele esegeta e
seguace di Montanelli. Sul rapporto Montanelli-Berlusconi Travaglio ha
scritto un libro di quattrocento e passa pagine (“Montanelli e il
Cavaliere”) con citazioni iniziali di Leonardo Sciascia, Giorgio Gaber e
Alexis de Tocqueville e con introduzione autobiografica e nostalgica
sul primo incontro con Indro: lo scrittore Giovanni Arpino portò il
giovane Travaglio a Milano in treno a conoscere “il Vecchio”, mangiarono
al ristorante, il Vecchio quando si vide davanti Travaglio lo chiamò
immediatamente “mammòzio” e Travaglio, già grato di quell’attenzione
burbera e affettuosa, ammutolì e quasi ebbe un mancamento di fronte a un
simile esempio di giornalismo (fu sentendo parlare il Vecchio, dice un
amico di Travaglio, che Travaglio prese il vezzo di adoperare il termine
dimenticato “strologare”). Il resto, si legge nel volume, è grande
onore e ancora grande onore di collaborare con il Vecchio, è il Vecchio
nel suo ufficio con il merlo regalatogli da Angelo Rizzoli, è “mobbing”
dal Cavaliere, è lacrime e melodramma dei redattori di fronte al Vecchio
che lascia la direzione e gioia immensa quando il Vecchio porta con sé
il giovane Travaglio alla Voce. Esistono altre versioni, compresa quella
dell’allora vicedirettore Granzotto, sulla fine dell’esperienza
montanelliana al Giornale (una versione che diverge dalla tesi del
“mobbing”, con cronaca dell’assemblea dell’8 gennaio 1994, giorno in cui
Berlusconi intervenne davanti alla redazione). Esiste un filmato
santoriano in cui Montanelli telefona alla trasmissione “Il Raggio
Verde” e dà ragione a Travaglio. Esiste un’intervista fatta da Laura
Laurenzi a Montanelli nel 2001, in cui Montanelli si riferisce alla
versione di Granzotto e dice: “Paolo Granzotto scrisse un resoconto di
come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca,
coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io”. Esiste la
contestazione di Travaglio a Granzotto nella riedizione di “Montanelli e
il Cavaliere”: Granzotto non fu “testimone oculare esclusivo”, scrive
Travaglio; Montanelli quel giorno non voleva far salire in redazione il
Cavaliere, aggiunge Travaglio citando l’ex capo del comitato di
redazione Novarro Montanari.
Sia come sia, esiste soprattutto un Travaglio che dalla morte di
Montanelli in poi parla da erede spirituale dell’unico “vero liberale” –
a una commemorazione montanelliana a Perugia, ricorda Mario Cervi,
Travaglio prese la parola e raccontò di quando Montanelli, accompagnato
dal Berlusconi nel “mausoleo” di Arcore, si produsse “in scongiuri
piuttosto plateali di fronte al Cavaliere che proponeva di riservargli
una tomba accanto ai suoi cari”. “Travaglio non è da sottovalutare né
come talento né come spregiudicatezza”, dice Cervi. Quanto alle
prefazioni (due) che Montanelli scrisse per Travaglio, c’è chi dice, tra
i vecchi colleghi, che “Montanelli era troppo buono e non sapeva dire
no” e chi invece assicura che “Montanelli voleva un bene dell’anima a
Travaglio e lo stimava moltissimo”. A ogni modo, nella prefazione del
1995 al travagliesco “Il Pollaio delle Libertà”, ripubblicata dallo
stesso Travaglio, Montanelli prende in giro l’ex cronista tuttofare,
definito scherzosamente un “grande inquisitore da far
impallidireVishinsky”, e si diverte attorno al suo misterioso archivio:
sarà per non doverlo trasferire che Travaglio, “ragazzo allegro,
disposto a qualsiasi servizio di cronaca”, si è sempre rifiutato di
traslocare da Torino a Milano?
Federico Orlando, ora condirettore di Europa e allora
condirettore del Giornale e della Voce, ricorda un Travaglio “che da
Torino inviava ottime corrispondenze sulla Fiat, tanto che ricevemmo
sollecitazioni a calmarlo”. Travaglio dice sempre che Montanelli non si
piegò neppure alla Fiat e, con somma soddisfazione, si definisce un
giornalista che non ha avuto paura di parlare di Fininvest, di Fiat e di
Massimo D’Alema (sottinteso: l’unico o quasi l’unico). Ci fu un giorno
in cui Travaglio, collaboratore dell’Unità, salì su un palco girotondino
e, parlando di governo D’Alema, disse (con poco piemontese sfoggio di
parolaccia): “Sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo e ne
sono usciti ricchi”. Il Corriere della Sera corse a intervistare i
colleghi di Travaglio all’Unità (non il direttore Furio Colombo che
intanto aveva messo in pagina un’intervista di D’Alema), con il
risultato di riportare questo commento del caporedattore esperto Nuccio
Ciconte, ora caporedattore al travagliesco Fatto: “Se Travaglio dice che
D’Alema e i suoi furono dei disonesti deve spiegarci come e perché.
Deve fare il giornalista, se no…”.
Vecchie storie, comunque. Oggi Ciconte e Travaglio convivono senza
problemi al Fatto, dove Travaglio, fiero di stare nell’open space,
giunge il giovedì, prima di Annozero. Con la mente invece è presente
tutti i giorni e più che altro nottetempo, quando ingolfa la casella
mail dei redattori con note di commento ai pezzi o con suggerimenti
divisi per competenza (Travaglio di pomeriggio presenta libri, fino alle
cinque del mattino lavora e fino a mezzogiorno dorme). Chi frequenta il
Fatto descrive un Travaglio ansioso “di far lavorare i giovani” e
desideroso di parlare di cinema con i giovani – soprattutto di Woody
Allen.
Fatto salvo l’episodio delle “pezze al culo”, Travaglio all’Unità
di Colombo e Padellaro si trovò benissimo, talmente bene che alla
nomina di Concita De Gregorio scrisse un’invettiva contro Renato Soru:
“L’editore dovrebbe spiegare in maniera chiara e trasparente, ai lettori
e alla redazione dell’Unità, i motivi per i quali Antonio Padellaro
lascia la direzione del quotidiano… di solito i direttori vengono
mandati via se hanno fatto male, per la linea editoriale o per i conti.
Sui conti, nulla si può rimproverare a Padellaro, costretto a fare un
giornale con quattro soldi, le classiche nozze con i fichi secchi. Non
riesco a capire quali siano le ragioni per le quali Padellaro debba
andar via. La parola multimedialità non mi dice niente e, anzi, mi fa
venire l’orticaria”. Travaglio aggiunse anche la frase “il problema non
riguarda Concita De Gregorio, ottima giornalista”, fosse mai che
qualcuno potesse alambiccare su una sua riserva sulla medesima.
Nella vita di Marco Travaglio ci sono due costanti: il tennis e le
vacanze con il pm Antonino Ingroia. A volte può comparire, come
variante, una piscina; a volte Travaglio si adombra a sentir parlare
delle sue vacanze (anzi di “ferie”, come le chiama lui forse in omaggio
alla Torino delle fabbriche chiuse d’agosto). Passi per la vacanza di
Travaglio con moglie e figli e Ingroia nella località turca di Bodrum,
l’antica Alicarnasso, oggi meta di aspiranti passeggeri di caicchi,
tedeschi in cerca di sole e visitatori di caravanserragli in
pantaloncini corti. A quella vacanza fece accenno Filippo Facci su
Libero, in risposta a una lettrice che, avendo notato Ingroia e
Travaglio seduti allo stesso tavolo di un ristorante in corso D’Azeglio a
Torino, aveva pensato “che i due, alla faccia dell’imparzialità della
magistratura”, potessero, tra una portata e l’altra, discorrere degli
argomenti dei libri di Travaglio. Sulla vacanza in Sicilia, però, Marco
Travaglio non tollera. Il tutto ebbe origine non da un articolo di Facci
bensì da un articolo del 2008 di Giuseppe D’Avanzo, vicedirettore di
Repubblica (giornale con cui Travaglio allora collaborava). Travaglio
era stato in tv da Fabio Fazio e aveva parlato di Renato Schifani e di
presunte amicizie in odor di mafia. A quel punto D’Avanzo tirò fuori la
vacanza sicula per contestare a Travaglio un “metodo di lavoro” da
“agenzia del risentimento” (“Travaglio declina la conoscenza di Schifani
con un tizio, quattro anni dopo indagato per mafia, come prossimità
alla mafia”, scrisse). Il problema della vacanza non stava nelle
località scelte da Travaglio e Ingroia nel 2002 e nel 2003 – trattavasi
di due ridenti stazioni frequentate, dice un locale, “soprattutto dagli
impiegati di Bagherìa”: Altavilla Milicia, zona di agrumeti, spiagge
sabbiose e colline lussureggianti, e Trabìa, zona di produzione
intensiva di spaghetti. Il problema stava bensì nel terzo villeggiante,
il maresciallo della Finanza Pippo Ciuro, compagno di stanza di Ingroia
al palazzo di giustizia di Palermo, successivamente condannato per aver
favorito un prestanome di Bernardo Provenzano.
Ad Altavilla e Trabìa, nelle sere d’agosto, si andava a
cena insieme, si chiacchierava a bordo piscina e ci si scambiava,
all’occorrenza, macchinette del caffè e cuscini – merce rara in un
residence dove già erano passate orde di vacanzieri selvaggi. Travaglio
ignorava che Ciuro fosse già oggetto di indagine, Ingroia, si è poi
scritto, doveva far finta di nulla per non compromettere le indagini (e
Ciuro, in un recente colloquio palermitano riportato da Facci su Libero,
ha detto che a quei tempi neppure Ingroia sapeva). Travaglio, dopo la
pubblicazione dell’articolo di D’Avanzo, dimostrò online, con tanto di
numero di assegno e di transazione Diners, che, al contrario di quanto
era stato ventilato, il favoreggiatore di Provenzano non gli aveva mai
offerto il soggiorno siciliano (pagato da Travaglio fino all’ultimo
centesimo e persino, scrisse Travaglio, in una cifra superiore a quella
pattuita). D’Avanzo disse di aver tirato fuori la storia in omaggio al
principio del “tu quoque” (dopo aver appunto sentito Travaglio parlare
di Schifani): “Aver trascorso una vacanza con un tipo che poi si è
rivelato un criminale, e dunque in piena innocenza e senza alcuna
consapevolezza, vuol dire davvero essere per riflesso un criminale?”,
scrisse il vicedirettore di Repubblica.
Più di un lettore, nel frattempo, fu catturato da futili dettagli:
la vacanza in quel residence isolano costava pochissimo, circa mille
euro per quattro persone, roba da fiondarsi in massa, mentre l’albergo a
cinque stelle era veramente troppo esoso, come assicurava Travaglio.
Tutto pareva in teoria sistemato (persino Ciuro, nel suddetto colloquio
con Facci, oggi dice che la faccenda delle ferie pagate a Travaglio dal
favoreggiatore di Provenzano “è una minchiata di quelle grosse”). In
pratica, però, a Travaglio non piace sentire la frase “dai, sarà
capitato anche a te di frequentare persone che non si sarebbero dovute
frequentare”. Nicola Porro, del Giornale, l’ha detta durante una puntata
di Annozero in cui Travaglio contestava a Guido Bertolaso il non aver
vigilato su chi sedeva nella stanza a fianco. Senza rimedio,
l’arrabbiatura di Travaglio contro Porro e contro Maurizio Belpietro si è
estesa quasi quasi pure a Michele Santoro che, smussando e smitizzando,
non aveva difeso il suo opinionista a spada tratta (seguiva scambio di
lettere aperte Travaglio-Santoro sul Fatto).
Cose che non succedono, queste, a bordo campo (da tennis). Perché il
tennis per Travaglio è terreno idilliaco, fatto di rare pause al circolo
e partite in doppio con l’amico Claudio Sabelli Fioretti contro
Giancarlo Caselli e Salvatore Bragantini. Travaglio e Sabelli si
conoscono da quando Sabelli dirigeva Cuore, si presentano reciprocamente
i libri e restano in contatto a distanza (vivono in città diverse).
Sabelli dice che i libri di Travaglio “uscivano nel silenzio generale
delle sezioni politiche e culturali dei quotidiani. Scalavano le
classifiche senza che nessuno ne parlasse. Marco girava come una
trottola facendo anche tre o quattro presentazioni al giorno. Il suo
successo se l’è conquistato da solo e non deve ringraziare nessuno.
Avrebbe potuto montarsi la testa ma non l’ha fatto”. La prima intervista
di Sabelli a Travaglio (per il Magazine del Corriere) si svolse,
racconta Sabelli, “il giorno di Ferragosto, a casa mia in montagna sotto
una grande betulla”. La seconda intervista, per il libro “Il
rompiballe”, a casa di Travaglio “sulle colline di Superga”. Visto dal
lato Sabelli, Travaglio è “sempre stato amichevole, sereno, tranquillo,
sicuro di sé, forte di una memoria di ferro. Si vede che è felice del
lavoro che fa, contento del successo e anche della visibilità che
ottiene. Ha un grande senso del ritmo e dei tempi comici”.
Tra mille lodi, giunge a Travaglio da Sabelli un unico
mite appunto: “Ultimamente appare più opinionista che cronista. Io lo
preferisco quando riporta, registra, ricorda. Quando non consente alla
gente di raccontare bugie grazie alla sua incredibile memoria”.
Chi non ha la memoria di Travaglio ricorda a spanne che Travaglio, oggi
estimatore di Gianfranco Fini, anni fa parlò di una metamorfosi di Fini
da “camerata a cameriere” e che Travaglio, un tempo elettore della Lega,
ha più volte scelto nell’urna Antonio Di Pietro – adesso però
preferisce Beppe Grillo e Luigi De Magistris. Soprattutto, oggi
Travaglio si sente “ospite” della sinistra extra Pd. “E come fa?”, si
chiede un vecchio conoscente, sottolineando “la deliziosa tortura cui si
sottopone Travaglio trascorrendo le sue giornate in mezzo a schiere di
neo gruppettari post sessantottardi modello Sabina Guzzanti. Come fa a
reggere, lì, lui che è una specie di signor Veneranda, di destra in
senso piemontese, tutto legge, ordine, rigore, guardie, ladri e
frugalità?”.
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