Daniela Preziosi
Berlinguer spiegato alla generazione della Leopolda
il manifesto, 19 marzo 2014
C’è il
Berlinguer bambino sulla spiaggia, quello incalzante in tv, quello
«non musone», quello raccontato da Aldo Tortorella e Emanuele
Macaluso, cui confida che l’incidente di Sofia (1973) forse è un
attentato dei bulgari, e che anche Pajetta ne ha subìto uno simile in
Polonia; c’è il buffo Berlinguer-Red Skelton di A southern yankeee,
sulla linea di confine fra nordisti e sudisti, impallinato dagli
uni e dagli altri. Ma il passaggio-chiave del documentario Quando
c’era Berlinguer, opera prima di Walter Veltroni (autore regista
e voce narrante, prodotto da Sky e Palomar, nelle sale dal 27 marzo)
lo pronuncia, e come poteva essere diversamente, Jovanotti. Con la
morte di Berlinguer, dice, «finisce la parola ‘comunista’, perché
in Italia la parola ‘comunista’ è Berlinguer. È una parola che non
mi ha mai fatto paura, perché la associo con quella correttezza, con
quella faccia, con quelle parole, con quella onestà e quindi
continua ad essere nei miei ricordi una parola bella che muore con chi
in qualche modo l’ha inventata».
È veltronismo in purezza. Di tutta l’intensa ricostruzione di
quell’Italia, è il passaggio che traduce la riflessione che
Veltroni ha aperto anni fa («Non sono mai stato comunista»;
«Facevamo schifo», titolò il manifesto). Veltroni ci torna
su come un luogo del delitto. E il suo Berlinguer, spiega, è un
comunista «diverso» da tutti gli altri comunisti di ogni ordine
grado e latitudine, anche della propria, conquista — ma non
converte — l’autore a 15 anni «perché parlava un linguaggio diverso
dagli altri, quasi poetico». Verrebbe da dire un Berlinguer
segretario del Pci ma «salvato» dal comunismo.
Veltroni fa anche di meglio, o di peggio a seconda dei gusti,
comunque fa se stesso fino in fondo, come in un eterno Lingotto: monta
le parole di Jovanotti in sequenza con Pietro Ingrao (fra pochi
giorni, 99 anni) e con un commosso Giorgio Napolitano. Non è un
caso: per parlare ai 18enni di oggi, «alla loro energia e voglia di
sognare e cambiare», Jovanotti ben più di Pasolini può interpretare
quell’impasto (pasticcio per antipatizzanti) che tiene insieme la
mitizzazione dell’ultimo Pci ma anche la sua coeva definitiva rottamazione.
Primo, però, raccontare Berlinguer alla generazione Renzi, il
segretario del Pd che si vanta di non aver mai letto Marx e che coi
libri di politica ha iniziato dai discorsi di Kennedy: bene, ma
insomma non proprio dai fondamentali. Non è un caso che il
documentario si apra con le desolanti risposte dei ragazzi dei
licei. Chiedi chi era Berlinguer: «La mafia? Un commissario?», «Un
francese?», «Dovrebbe essere un senatore a vita», «Un capo dell’Unione
europea della Corea», qualsiasi mostruoso mondo voglia significare.
Il suo Berlinguer, ricostruito nel trentennale della morte con
immagini spesso inedite e testimonianze di pregio (fra gli altri la
figlia Bianca, monsignor Bettazzi, l’operaio di Padova Silvio
Finesso che lo accompagna sull’ultimo palco, Forlani, Gorbaciov, il
caposcorta Alberto Menichelli, Eugenio Scalfari, Sergio Segre,
Claudio Signorile, oltre ai citati Macaluso e Tortorella), è un
innovatore (vengono ripercorse tutte le tappe, lo strappo,
l’eurocomunismo, l’ombrello della Nato, il compromesso storico e la
successiva e opposta alternativa, l’austerità e la questione
morale). Che alla fine resta tragicamente solo e senza
possibilità. Soprattutto ci sono gli anni dalla sua elezione alla
segreteria, 1972, fino alle elezioni politiche del 1975, quando il
Pci arriva al 34 per cento. Anni in cui, dice Veltroni, «tutto
sembrava possibile, vincere un referendum contro la Dc e la
Chiesa» (1974, contro la cancellazione del divorzio, bel
montaggio della campagna degli artisti per il «no», Gianni Morandi,
Nino Manfredi, e uno strepitoso Gigi Proietti che si esibisce in
un assolo sul «no»), «governare tante regioni e città, avvertire che
tanti italiani non comunisti davano fiducia a quel partito per
l’onestà e la competenza che Berlinguer comunicava».
Ma in quel 1975 il Pci vince ma la Dc non perde, il sorpasso non
arriva, e Berlinguer si trova di fronte a un’alternativa fra quelli
che vede come due ineluttabili e speculari disastri: non far
nascere il governo democristiano e riportare l’Italia al voto; oppure
farlo nascere e tradire quell’ondata di speranza e di fiducia che un
terzo degli italiani gli ha riversato addosso. La scelta è nelle
cose, il «compromesso storico» è riflessione già consolidata dai
fatti del Cile e scritta su Rinascita, c’è una relazione —
filmica ma non solo — fra le immagini di Salvador Allende
bombardato alla Moneda che offre la vita al suo popolo e alla sua
rivoluzione democratica; e quell’ultimo comizio di Padova, portato
a termine senza risparmio, mentre il malore lo bombarda,
i compagni sotto il palco — e Tonino Tatò dietro di lui — che lo
implorano di fermarsi. Il compromesso storico è il vero obiettivo
delle Br che rapiscono e uccidono Aldo Moro, operazione riuscita,
ammette Enrico Franceschini, uno dei fondatori. Quel Berlinguer
sul palco di Padova ormai è solo, solo con il suo popolo come ai
cancelli della Fiat e al referendum contro la scala mobile. L’ultima
direzione del partito — anche qui immagini inedite — si era
conclusa senza conclusioni, con un segretario di fatto ormai in
minoranza. Altre immagini: un leader ormai magro e trasfigurato al
congresso del Psi a pochi giorni dalla morte, un implacabile
Bettino Craxi che plaude ai fischi dei suoi («Non mi unisco solo
perché non so fischiare», dice dal palco, «Fu un errore», commenta
amaro Signorile). Siamo agli sgoccioli del «terribile inverno, fatto
di disperazione sociale e violenza politica», quella che
Berlinguer avrebbe voluto — e dovuto — evitare.
C’è un altro comunismo possibile, in Italia alcuni — radiati dal
Pci, ma anche nel Pci stesso — lo dicono da anni, ma per il
Berlinguer di Veltroni non c’è. Con la fine di Berlinguer finisce
irrimediabilmente una storia, spiega l’autore, e le musiche di
Danilo Rea e la bella «Un addio» di Gino Paoli, fanno capitolare alla
lacrima anche lo spettatore più scettico, da sinistra e da destra.
L’autore torna nei luoghi di quella storia trovandoli — così lui li
vede — irrimediabilmente vuoti: piazza San Giovanni, che
traboccava il giorno del funerale, la barca al largo di Stintino, il
carcere dove un Enrico giovanissimo passa 100 giorni, la sala del
Cremlino dove nel ’77 pronuncia con coraggio la professione nel
«valore universale della democrazia» al 60esimo dell’Ottobre.
Coraggio tardivo, si potrebbe obiettare, ma sarebbe un’altra storia
o un altro documentario.
Ma è quantomeno difficile che l’io narrante non si specchi nel
narrato, fatte le differenze, nell’innovatore solo e sconfitto.
Saltando un paio di partiti, c’era un altro Pd possibile? Anche
questa sarebbe un’altra storia. Ieri la giornata di Veltroni,
considerato padre spirituale di Renzi ma oggi «terrorizzato
dalla fretta bulimica», si chiude alla presentazione del libro
dell’arcirivale D’Alema. Dove Renzi ammette di ispirarsi invece
a D’Alema, versione 1997.
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