Giancarlo Bocchi
Le molte vite di Tina Modotti
il manifesto / Alias, 8 marzo 2014
Delle molte vite
di Tina Modotti, operaia nelle filande, attrice a Hollywood, musa di
artisti e fotografi come Diego Rivera ed Edward Weston, fotografa di
fama internazionale, scrittrice di pamphlet, agitatrice
politica, si sa molto. Ma c’è un’ultima vita, per molti aspetti ancora
sconosciuta e gravida di segreti, che è tuttora avvolta nelle
nebbie della Storia.
Ebbe inizio nell’ottobre del 1930 in Unione Sovietica, quando la
Modotti dopo l’espulsione per motivi politici dal Messico giunse
a Mosca dopo un breve e infelice soggiorno a Berlino. Anche se Tina
mascherava i suoi sentimenti citando spesso una frase di Nietzche —
«Ciò che non mi uccide mi dà forza» — nell’animo era turbata
e smarrita. L’anno prima il suo compagno, il rivoluzionario
cubano Antonio Mella, era morto tra le sue braccia in una strada di
Mexico City vittima di un agguato politico dai contorni rimasti
oscuri. Giunta a Mosca, l’affascinante fotografa dai capelli corvini
e dagli occhi di carbone, elegante, con le calze di seta e profumata
con costose essenze francesi, scoprì che il suo amico
e accompagnatore nel viaggio sul piroscafo Edam dal Messico in
Europa, l’agente stalinista Vittorio Vidali, uomo dai mille volti,
il 2 ottobre si era sposato usando il nome di copertura di Jorge
Contreras con Paulina Hafkina, una giovanissima russa, che
aspettava un figlio da lui.
A Mosca Tina era alla ricerca di una nuova vita e di nuovi
interessi. Era conosciuta come un’artista della fotografia, ma non
era d’accordo se «le parole arte e artistico vengono applicate al mio
lavoro… Mi considero una fotografa e niente di più». Invece di
fotografare la complessa realtà della prima nazione del comunismo,
Tina iniziò a lavorare per il Mopr (Soccorso rosso
internazionale). In un documento autografo del 23 novembre 1930
dichiarò che Jorge Contreras (alias Vittorio Vidali) gli aveva
consegnato i documenti dei Dipartimenti latino-americano,
italiano, portoghese e spagnolo in ordine e aggiornati. Insieme
all’ambizioso e spietato, Tina scrisse anche diverse lettere e risolse
alcuni problemi delle sezioni canadesi, statunitensi, irlandesi
del Soccorso rosso.
A Mosca Tina però non riuscì a fotografare. Perché non fu più
capace di ritrovare nelle immagini quella originale sintesi tra
forma e ideologia per quale era famosa? La luce slavata e tetra di
Mosca, le difficoltà nel trovare i materiali fotografici per la
sua Granflex e nell’ottenere i permessi per gli scatti non sono motivi
sufficienti a giustificare una crisi artistica così profonda.
«Vivo una vita completamente nuova, tanto che mi sento diversa»
scrisse a Edward Weston, il grande fotografo americano suo
confidente che l’aveva avviata alla fotografia.
Fino a qualche mese prima Tina aveva pensato che le immagini
potessero produrre un cambiamento del mondo. Da quando era partita
dal Messico con Vidali questo convincimento era stato rimpiazzato
dall’idea dell’azione diretta, dell’agire come una vera
rivoluzionaria. L’Ufficio speciale della Ogpu (la polizia segreta
sovietica antesignana dell’Nkvd) il 12 marzo 1931 ricevette una
richiesta da Elena Stassova, presidente di Soccorso Rosso, dove si
chiedeva di autorizzare Tina a prendere visione e occuparsi di
documenti segreti. La Quinta sezione speciale dell’Ogpu rispose il 24
aprile 1931, autorizzando la Modotti a svolgere quel lavoro segreto.
Da tempo le sezioni segrete di Soccorso rosso e del Comintern (la
sezione supersegreta denominata Oss) agivano all’estero in stretta
collaborazione e in supporto con i Servizi segreti sovietici,
l’Ogpu (che diventerà poi Nkvd) e il Gru dell’Armata Rossa. Anche se
Tina era riuscita a vendere l’ingombrante Granflex e a sostituirla
con una modernissima (e introvabile in Urss) Leica mod. 1932 con
esposimetro incorporato; anche se poteva diventare la fotografa
ufficiale di qualche importante istituzione dello Stato sovietico,
rifiutò ripetutamente le offerte di scattare foto.
In quei mesi aveva anche chiarito il rapporto con Vidali. In
passato non si era preoccupata di avere avventure multiple, ma
giunta a Mosca pensava solo ai suoi doveri e alla sua integrità di
rivoluzionaria. Per questo scrisse in una autobiografia per
presentarsi al Comintern: «Il nome di mio marito è Vittorio Vidali
(Jorge Contrera). È di origine italiana. È membro del Partito
Comunista ed è da anni rivoluzionario professionista». La sua
autobiografia è un documento interessante. Tralasciando il fatto
che Vidali avesse sposato qualche tempo prima una giovane russa, nel
documento compaiono significative omissioni sul passato lavoro di
attrice nel cinema di Hollywood o sulla sua storia d’amore con il
rivoluzionario Antonio Mella, amico di Andreu Nin, e in odore di
trotskismo. Ma questa inconsueta autobiografia dattiloscritta
offre anche un interessante spaccato psicologico di Tina. «Quando
avevo nove anni mio padre emigrò negli Stati Uniti in cerca di lavoro.
Per lunghi intervalli di molti mesi non ricevemmo da lui nessuna
notizia né spedì soldi a casa per mancanza di lavoro. Ciò significa
che dovevamo vivere praticamente di carità. All’età di 13 anni
cominciai a lavorare e da quel momento in poi mi sono sempre
guadagnata da vivere lavorando».
Nell’autobiografia del 1932 Tina si sentiva ancora una fotografa.
«Considero la fotografia la mia professione perché è quella in
cui ho lavorato più tempo e conosco tutte le fasi di questo lavoro».
C’è però una nota conclusiva che fa pensare ad altre aspirazioni:
«Conosco le seguenti lingue: italiano, spagnolo, inglese, nelle
quali so scrivere e leggere. Inoltre conosco il tedesco e il
francese, ma non correttamente e senza saperle scrivere».
Vittorio Vidali pensava da tempo che Tina fosse la persona ideale
per il «lavoro segreto». Con il suo viso dolce e pulito, la sua
eleganza naturale, la sua bella presenza poteva superare ogni
confine. E per un agente segreto la fotografia era sempre più un
lusso. «Questa rivoluzionaria italiana, artista straordinaria
con la sua macchina fotografica, andò in Urss per fotografare la
gente e i monumenti. Ma venne rapita dal ritmo incontenibile del
socialismo in pieno fer<CW-5>mento e gettò la macchina
fotografica nel fiume di Mosca, promettendo di consacrare la
propria vita al più umile lavoro del Partito comunista» scrisse nel
1974 Pablo Neruda, amico della Modotti. In realtà Tina, prima di entrare
definitivamente nella nuova vita delle ombre, degli specchi, dei
misteri e dei segreti non gettò «la macchina fotografica nel fiume
di Mosca».
Il 13 giugno 1932 nella stanza che occupava nello squallido
e polveroso Hotel Soyuznaya, dopo aver sistemato obiettivo ed
esposizione della sua Leica, la porse ad Angelo Masutti un ragazzo
sedicenne che aiutava Vidali a Soccorso Rosso dicendogli:
«Prendila… e fammi una foto». Il giovane scattò con la Leica una prima
foto in controluce e un’altra con Tina semigirata verso la
finestra. E poi una terza di Tina con Vidali dall’aria stranamente
protettiva. Angelo Masutti fece per restituirle la macchina
fotografica, ma Tina lo fermò dicendogli: «Tienila». Era ormai
convinta che «Il partito avesse sempre ragione». E come
disse il regista Sergej Eisenstein, «aveva sacrificato l’arte per
la politica».
Tina iniziò a svolgere missioni segrete in Spagna, Francia,
Germania, portando soldi, documenti, ordini, direttive.
L’affascinante ed elegante signora «bela y hermosa» arrivata dal
Messico qualche anno prima piena di forza, era diventata una donna
silenziosa, triste, spesso depressa. Allo scoppio della Guerra civile
spagnola i fotografi Robert Capa, David Seymour e Gerda Taro la
incitarono a tornare a fotografare. Ma Tina preferì il lavoro con
le autoambulanze e negli ospedali con il nome di battaglia di «Vera
Martini» e successivamente con lo pseudonimo di «Maria» tornò al
lavoro segreto sempre più triste e spenta.
Non si sa se partecipò ai complotti, alle trappole che
portarono alle uccisioni degli oppositori di Stalin, degli
anarchici e dei comunisti antistalinisti di Andreu Nin del Poum,
delle quali fu accusato più volte «il marito» Vittorio Vidali. Al
momento della sconfitta delle forze repubblicane di Spagna era una
donna esausta, sofferente, sconfitta. Era invecchiata
precocemente. Tornò in Messico e visse ancora qualche anno sempre
più stanca, sempre più triste, dilaniata dagli incubi del passato.
Morì all’alba del 6 gennaio. Sola, su un taxi nelle vie di Mexico city,
dopo una lite con Vidali. Era stata definitivamente fagocitata
dalle persone per le quali aveva abbandonato la sua arte.
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