Maria Grosso
La signora e i suoi cinque elefanti
il manifesto, 22 marzo 2014
Come
dirvi di Svetlana Geier? Per certi versi la sua vita
è irraccontabile. Troppo vasta, innervata, complessa, crocevia
della storia ucraina, russa e tedesca del ‘900 e insieme dei segreti
abissali della grande letteratura … Come provare a restituire una
tale stupefacente architettura di destino? Come coglierne le mille
avventurose corrispondenze, i dissidi laceranti, le infinite
tangenze e rifrazioni?
Per
fortuna c’è chi ha sentito il bisogno di mettere la propria arte
e la propria cura al servizio di questa storia, per custodirne il
valore e per diffonderla. Quando Vadim Jendreyko, regista
svizzero-tedesco, la incontra per la prima volta nel 2005, Svetlana
Geier è una donna che ha già vissuto tanto e che porta con sé il frutto
di 50 anni di lavoro come traduttrice letteraria dal russo al
tedesco. Puškin, Gogol’, Tolstoj, Solženicyn, Bulgakov, tra gli
altri, sono stati “ospiti” della sua mente, del suo cuore e dei suoi
sensi, fino a quando all’inizio degli anni ‘90 le è stato proposto di affrontare gran parte dell’opera di Dostoevskij. Basterebbe solo questo a renderla affascinantissima. Ma c’è molto altro.
Nata
Ivanova a Kiev nel 1923, figlia unica di genitori legati alla cultura
russa, appena adolescente conosce sulla propria pelle gli esiti
delle purghe staliniane: nel ‘38 il padre è arrestato, incarcerato
e torturato e, sebbene venga rilasciato — caso raro — dopo un anno
e mezzo, riporta tali ferite fisiche e morali da non sopravvivere che
sei mesi. Un arco di tempo in cui, mentre la madre lavora per
mantenerli facendo le pulizie, è lei a curarlo e a condividere con
lui il peso di una memoria insostenibile.
Dopo la
morte del padre, Svetlana, che non ha mai smesso di tenere accesa la
sua passione per lo studio, è spinta dalla madre a coltivare
l’apprendimento delle lingue, francese e tedesco, intrapreso
privatamente da bambina. Potrà essere questa la sua vera “dote”
e forse un giorno la sua salvezza. Intanto la storia incalza.
Il 22
giugno ‘41 è il giorno del suo diploma ma è anche quello in cui
i nazisti invadono l’Ucraina, mentre parte della popolazione,
provata dalla carestia del ‘32-‘33 (da 5 a 11 milioni di morti),
e dalle azioni del regime sovietico che, volendo annientare le
correnti nazionaliste, strangola gli snodi ferroviari, li
accoglie come liberatori. Nel frattempo un’altra perdita enorme sta
per scavare l’anima di Svetlana. Tra i 30000 ebrei deportati
e trucidati dai nazisti nel campo di Babij Jar, c’è la sua amica più
cara, Neta Tkatsch.
Qualche
tempo dopo, sua madre, prostrata dalla fame e dalle privazioni,
affitta una stanza a un ufficiale tedesco di nome Kerssenbrock,
mentre il suo compito è quello di mediare linguisticamente tra gli
occupanti e le persone del luogo, cosa che finisce per procurarle
anche un lavoro come traduttrice presso l’Istituto Geologico di Kiev
e in seguito presso un ufficio a Dortmund.
Dopo
la sconfitta di Stalingrado, i nazisti si avviano a ritirarsi
dalla città. Gran parte della popolazione è esiliata, chi rimane
è soggetto alle purghe di Stalin. Svetlana e la madre sono
internate in un campo di lavoro per deportati dell’Est a Dortmund.
Qui la ragazza è interrogata diverse volte dalla Gestapo. In seguito,
grazie agli interventi di Kerssenbrock e di un funzionario
conosciuto all’Istituto Geologico è rilasciata e parte per Berlino
dove, dopo aver affrontato un test, le viene conferita (cosa
incredibile per una cittadina sovietica), una borsa di studio
della Fondazione Humboldt, mentre un funzionario nazista, che
pagherà il gesto con l’epurazione, le procura due passaporti per
stranieri per recarsi a Friburgo con la madre. Lì cominciano una
nuova vita. Svetlana si sposa acquisendo il nome Geier, diviene madre
di due figli, quindi divorzia, nel frattempo ha imboccato un
lunghissimo percorso di insegnamento universitario, nonché di
fine traghettatrice linguistica della letteratura russa e delle
sue infinite sottigliezze etiche e verbali …
Ecco:
da questa storia amplissima, dalla sensibilità registica di
Vadim Jendreyko e da un apporto emozionante di materiali
fotografici e filmici di repertorio, nel 2009 ha origine, dopo una
intensa gestazione, il documentario Die Frau mit den 5 Elefanten (The woman with the 5 elephants),
dove i pachidermi del titolo, nell’affettuosa denominazione coniata
per loro dalla signora Geier, a sorpresa sono i 5 grandi romanzi di
Dostoevskij, la cui traduzione porta a termine nell’arco di
20 anni.
Si tratta
di un film profondissimo, plurisensoriale, impalpabile
e ruvido allo stesso tempo, attraversato, come le luci di un treno
nella notte, da una struttura temporale raffinata e complessa, che
pure scaturisce dal naturale evolversi degli eventi: a due mesi
dall’inizio delle riprese, un incidente grave subito dal figlio di
Svetlana (che smette di tradurre per occuparsi di lui), dischiude uno
spiraglio nella memoria della donna, generando un flusso di
emozioni legate al passato, al padre e all’amica tanto amata, fino
a un incredibile viaggio che la riporta, insieme alla nipote,
complice un invito per tenere delle lezioni, ancora una volta — dopo 64
anni — in Ucraina. Un tragitto che la camera segue passo passo, con
tutto il suo precipitato emotivo gigantesco, mentre il
paesaggio dal treno si fa sempre più bianco e rarefatto.
Con una
capacità meravigliosa di essere sempre vicinissimo a lei, ma mai
invasivo, Jendreyko, in causa anche come narratore storico fuori
campo, coglie dunque Svetlana Geier ora nell’intimità dei suoi riti
domestici e conviviali (ha tante nipoti), ora intenta al
tempio-scrivania dove fioriscono le sue traduzioni: tra i suoi
collaboratori uno è un musicista-lettore, a testimonianza della
dimensione profondamente auditiva e insieme sensuale della
letteratura. E se nell’assoluta continuità tra creazione manuale
(cucinare stirare ricamare) e intellettuale, per lei “traduzione”
è desiderio, ricerca di qualcosa che emerge dal tutto e che alle
successive riletture continua a stillare doni, che cosa
è l’esistenza? Col suo corpo agile e curvo, lo sguardo liquido
incredibilmente intelligente e arguto, la pelle sottilissima
e istoriata, guardando in macchina, Svetlana risponde : “Caro amico,
non senti che il rumore della vita altro non è se non un’eco di
armonie trascendenti? Che niente esiste se non un cuore che parla
a un altro cuore senza parole?”.
Quello
che segue è il mio incontro con Vadim Yendreyko al Festival del Film
di Locarno 2009, in quell’occasione è avvenuta la prima parte
dell’intervista, che ho scelto di lasciare al presente di allora. Nel
colloquio datato 2014 lo ritroveremo oggi e sapremo quale treno ha
preso nel frattempo la storia di Svetlana Geier.
Come l’hai conosciuta?
4 anni fa
stavo lavorando a un progetto cinematografico ispirato all’opera
di Dostoevskij e un amico me l’ha segnalata come la massima
conoscitrice in materia. Così le ho chiesto di incontrarci.
La nostra
prima conversazione è stata infinitamente interessante e ci
siamo rivisti ancora. A quel punto quello che stavo cercando è stato
gradualmente messo da parte e ho sentito l’impulso di fare un film
con lei, un film che raccontasse la sua storia. I nostri incontri mi
avevano creato una curiosità assoluta di sapere di più della sua
vita, di indagare dove questa donna prendesse l’energia per
affrontare le fatiche di Ercole della traduzione. Così dopo quattro
mesi le ho proposto il progetto.
Come ha reagito?
Ha detto
subito sì, con facilità. Ma poi quando ho iniziato a spiegarle le
varie fasi di realizzazione, si è messa a ridere: non riusciva
a capire il perché del mio interesse. Comprendeva l’attenzione per
il suo lavoro come traduttrice ma non quella verso la sua persona.
Che rapporto ha col cinema? Lo segue?
Va
a teatro, ma rarissimamente al cinema. Ciò nonostante, quando le ho
mostrato il film ha fatto osservazioni da critica raffinata. Fare
un film ha molto in comune con il tradurre. Lei non comprende le
questioni tecniche, ma percepisce l’essenza. Quando un film
è finito è come un testo, non lo leggi da sinistra a destra in modo
consequenziale, lineare, ma secondo un movimento che parte dalla
fine. La fine è come una finestra attraverso cui è possibile
abbracciarlo tutto e ripercorrerlo a ritroso. Da tempo avevo
maturato dentro di me questo pensiero ma non l’avevo mai condiviso
con nessuno.
Come siete arrivati alla prima immagine?
Nelle
fasi iniziali del progetto avevo bisogno di una sua foto per
completare il dossier da sottoporre ai produttori. Ma dopo ogni
incontro tornavo a mani vuote. Non ero capace di chiederla veramente
e lei, dal canto suo, mi liquidava con un “la prossima volta”.
Intanto il tempo passava e i miei colleghi non riuscivano a capire
il perché delle mie difficoltà: “Quest’uomo è pazzo, non riesce
a fare una foto”. Finché un giorno finalmente sono riuscito
a proporle di farne una insieme, tenendo io stesso la macchina (per
fortuna ancora non si diceva “selfie” …, ndr). Da quel momento in poi
il film è partito. E non le è importato più che la riprendessimo
mentre lavorava ai testi o in cucina. Tutto ha cominciato a fluire.
Dal
film emerge una grandissima capacità di attesa e di ascolto, di
ricezione dei silenzi, delle pause, dei bisbigli, delle minime
variazioni del suo stato emotivo. Avevi avuto qualche esperienza di
relazione ravvicinata con una persona così anziana, una parente
o altro?
Sì, ma
non così vicina, e poi ogni rapporto è differente. Quando faccio un
film, non è su qualcuno, ma con qualcuno. Allora devo rispettarne il
ritmo. Capire quando è possibile bussare alla porta, senza però
aprire e aspettando che mi si apra dall’interno. Per fare un film su di
te potrei ricoprirti di domande. Ma non è detto che tu mi dica nulla.
Forse tra un mese forse tra un anno tu mi aprirai la tua porta. O forse
mai. Certo io posso bussare un po’ più forte, ma se sfondo la porta
come un ladro non troverò mai i tuoi veri gioielli. I veri gioielli
mi arriveranno soltanto attraverso un dono volontario. Nel caso di
Svetlana Geier ci sono voluti 8 mesi per approdare a quella prima
foto. Solo allora i fiori si sono aperti.
Adesso
lei sembra non accettare nulla che non voglia interamente, ma c’è
stato un tempo in cui ha dovuto accettare cose orribili che non
voleva.
Sì, ha
vissuto circostanze storiche in cui non c’era scelta. O solo una
scelta minima. Quando gli eventi più duri sono accaduti era davvero
molto giovane. Così la sua conoscenza di quanto stesse realmente
avvenendo si è sviluppata solo in un secondo tempo. Allora, come lei
stessa si è definita, era soltanto “una ragazzina appassionata di
lingue”, lontana dalle questioni politiche. Eppure è stato a quel
tempo che è stata gettata nel mezzo di circostanze storiche enormi.
Stalin, Hitler, la Storia più folle a cui lei ritiene d’essere
sopravvissuta proprio grazie alla sua natura naïf. Svetlana non ha
avuto paura di nessuno. Nei soldati tedeschi o russi vedeva gli
esseri umani, i vecchi e i ragazzi e non le uniformi, con tutto il
loro carico simbolico atroce. E non ha mai avuto timore nemmeno delle
situazioni più pericolose (come le volte in cui è stata convocata
dalla Gestapo). Come accade coi cani, sentiva che se solo avesse
mostrato di avere paura, sapeva sarebbe stata perduta.
Infatti, malgrado tutte le cose insostenibili che ha dovuto attraversare è come se avesse una stella che la protegge.
Credo sia
così. Le persone che amava sono morte o hanno subito cose orribili.
In questa scena mortifera lei pensa a sé come a una sonnambula: si
aggira intorno ai corpi di chi non c’è più, e nonostante il dolore
immane sopravvive a tutto questo. Ciò che sente è di avere dei debiti,
di dover ripagare il fatto di avere avuto una vita così lunga e densa.
Per questo, come si dice all’inizio del film, traduce, per
restituire alla vita ciò che le ha regalato. La traduzione è stata
davvero la sua chiave per sopravvivere all’inimmaginabile.
Il lavoro di traduzione in Italia è spesso in ombra e mal pagato.
È
incredibile, se pensiamo che la maggior parte dei libri che
leggiamo è opera dei traduttori. In realtà è un lavoro
faticosissimo, ma per lo più si crede che si tratti di “copiare” da
una lingua all’altra, cosa che è un totale misunderstanding, come lo
è il credere che fare un documentario sia “copiare” la realtà.
Invece ci sono molte similitudini tra il lavoro documentaristico
e quello della traduzione. Novalis diceva che tutta la poesia
è traduzione. E a quel tempo il termine “poesia” si usava per
intendere l’arte in senso lato. Alla fine credo che tutta l’arte sia
traduzione. Penso che questo sia il punto.
Tornando al passato di Svetlana: lei aveva capito perché suo padre era stato arrestato?
Il padre
di Svetlana era un ingegnere agrario di un certo successo tanto che
il ministero gli aveva regalato una macchina che lui aveva scambiato
con una dacia, dal momento che allora a Kiev non esistevano strade
dove poter guidare. Non si conoscono le cause del suo arresto: se
l’accusa fosse di partecipazione ad attività rivoluzionarie
o possesso di armi, comunque nulla che avesse alcun aggancio con la
realtà. Credo che Svetlana percepisse l’estraneità di suo padre
a quanto gli stava accadendo senza però comprendere il contesto
politico che stava dietro il suo arresto.
Parlando del padre, lei si sofferma sul pezzo di carta che ne attesta il rilascio.
Fu un
fatto abbastanza straordinario. Chi veniva arrestato non tornava
più a casa. Milioni sono stati uccisi e solo un migliaio rilasciati.
Infatti non esisteva nemmeno un vero e proprio modulo che
certificasse il rilascio e il foglio che lei mostra sembra più un
verbale per una multa. Quanto alle cause del rilascio nemmeno quelle
sono note. Svetlana mi ha però parlato di un sogno fatto dal padre
quando era in prigione, che poi le aveva raccontato nell’ultimo
periodo della sua vita.
Si
trovava in una stanzetta con un finestra. E nella stanza c’era un
uccellino. L’uccellino voleva fuggire via dalla finestra ma non
poteva perché in mezzo alla stanza c’era uno steccato fitto e alto che
gli impediva di raggiungerla. Così gli si lanciava contro, senza
però riuscire a forarlo: insisteva fino a ferirsi, ma non per questo
rinunciava. Alla fine, con un ultimo sforzo, si staccava da terra
e tutto sanguinante riusciva finalmente ad attraversarlo e a
volare via.
Il padre
era molto razionale, aveva studiato matematica ed era un grande
giocatore di scacchi. Fece questo sogno in carcere una notte in
cui, dopo essere stato torturato, aveva deciso di uccidersi. In una
cella c’erano fino a 30 40 uomini e molti si uccidevano senza che gli
altri facessero nulla per fermarli, anzi rispettandoli nella loro
scelta. Così quella notte il padre di Svetlana voleva fare lo stesso,
ma poi sfinito si era addormentato e aveva fatto questo sogno così
visionario. Qualche giorno dopo era stato rilasciato. Anche la
storia dell’orologio è incredibile. Lo aveva dovuto consegnare al
momento dell’arresto, ma al rilascio gli era stato restituito
perfettamente funzionante. E tutto questo è assurdo per un sistema
così feroce. Quell’orologio Svetlana lo porta ancora oggi ed è lo
stesso che si vede nel film.
Giungendo al nodo
più acuminato di questa storia, sia per chi vede il film, sia,
immagino, in primis per chi l’ha fatto: il momento in cui il
tracciato di Svetlana Geier incrocia non solo l’occupazione nazista
del suo paese, ma anche la conoscenza diretta di alcuni ufficiali
nazisti. Allora è inevitabile chiedersi come ciascuno di noi
avrebbe agito. Nell’intreccio terribile e filosofico della sua vita,
sarà il suo lavoro di traduttrice e di mediazione con alcuni
ufficiali nazisti, che le salverà vita, dandole poi la
possibilità di espatriare in Germania. C’è un punto
incandescente del film, in cui le poni difficilissime ma
indispensabili domande circa la sua consapevolezza del tempo,
anche innanzi all’eccidio di Babij Iar, dove viene trucidata la sua
amica più cara. Sono momenti di sospensione assoluta, in cui come esseri umani siamo attraversati da domande insostenibili, da correnti algide che ci prostrano lasciandoci con infiniti interrogativi. Dal mio contatto con Svetlana Geier ho potuto capire che la sua relazione con la Germania trascende l’associazione tra la nazione e il nazismo. Lei concepisce la terra tedesca come una grande barca custode di incredibili tesori di cultura, come Schiller, come Goethe, come Thomas Mann. Nel corso della sua storia la barca fu occupata da Hitler e dai nazisti. I suoi tesori caddero nelle mani sbagliate, ma questo non ne muta il valore, né cambia la vera natura della barca che non coincide con l’ideologia nazista.
E nello specifico del rapporto tra Svetlana e Kerssenbrock?
C’è un grandissimo straniamento: con lui, come con altri tedeschi, ha intrattenuto buoni rapporti; alcuni, inspiegabilmente, anche a rischio di gravi conseguenze personali, l’hanno aiutata. Quindi a quel tempo, come dice espressamente, non è avvenuta per lei l’identificazione tra quelle persone e i nazisti, qualcosa che è sopraggiunto dopo. Quanto a Kerssenbrock, una delle prime decisioni prese da Hitler quando salì al potere fu di far sì che i più alti gradi dell’esercito, anziché giurare sulla nazione tedesca, giurassero sulla sua persona. Questo poneva gli ufficiali nella condizione di non poter rompere il giuramento. Romperlo era la fine di tutto e non restava che uccidersi. Svetlana non giustifica Kerssenbrock, ma riflette sui meccanismi psicologici che lo tenevano vincolato, qualcosa di incomprensibile per noi oggi se pensiamo che i politici non fanno che smentire continuamente quanto hanno promesso. Per opporsi Kerssenbrock avrebbe dovuto distruggere tutto il sistema mentale in cui era immerso, cosa che non accadde.
La struttura del film segue un arco di tempo molto ampio, ad abbracciare non solo il passato di Svetlana Geier ma anche la malattia e la morte del figlio. È avvenuta durante la lavorazione del film? Deve essere stato qualcosa di indicibile.
Sì, è stato così. C’è stato un enorme momento di crisi quando suo figlio ha avuto l’incidente. Svetlana andava a trovarlo in ospedale e ha smesso di lavorare. Così non sapevamo più niente, cosa sarebbe accaduto al figlio e se lei sarebbe stata in grado di continuare ancora. Tutto era sospeso, senza più direzione. Allora mi sono detto, basta, questa è la realtà, non resistere, arrenditi a quanto sta accadendo. Suo figlio se ne sta andando, sii parte della cosa e attendi. A quel punto è stata lei a venirci incontro. L’incidente avvenuto al figlio aveva aperto le porte del suo passato e reso possibile una nuova parte del viaggio.
Il figlio somiglia moltissimo al padre di Svetlana.
È qualcosa di sorprendente che abbiamo scoperto insieme. Ci stava raccontando dell’orologio del padre ed è andata al piano di sopra per prendere una sua foto. Allora ci ha detto che se a quindici anni si era trovata nelle condizioni di dover aiutare suo padre senza sapere bene come farlo, adesso a 85 sapeva come aiutare suo figlio. A distanza di settanta anni, la vita l’aveva messa di nuovo nella condizione di fare l’infermiera nei confronti di chi più amava.
In questa storia drammatica c’è un filo di ironia, un brillio che di tanto in tanto fa capolino dagli occhi della signora Geier, specie nei momenti in cui traduce; il suo spirito è più che mai sofisticato e sempre spiazzante.
Fa parte del suo modo di essere, della sua intelligenza, ma anche del suo modo di vivere il lavoro di traduttrice. Lavora per anni a un unico testo, fino a memorizzarlo interamente, fino a che diventa parte della sua stessa vita. Traducendo si scoprono le infinite possibilità delle lingue, come dell’esistenza. Ed è molto affascinante scegliere, scoccare la freccia con la maggiore precisione possibile. C’è spazio per tutto, per la serietà più assoluta e per l’umorismo. È per questo che la cultura rende così ricca la vita.
Alla fine di questo lunga storia di vita e cinema, cosa ti unisce a Dostoevskij.
È stata l’origine della mia ricerca e il motivo per cui ho voluto incontrare Svetlana Geier. In tutti i suoi romanzi Dostoevskijsi pone questa domanda: chi sono? Come è fatta la mia anima? Perché, come dice Svetlana, quando Raskòl’nikov sta per uccidere l’anziana usuraia noi tremiamo con lui, con l’assassino, sperando che riesca nel suo intento? Ricorda anche che la domanda che attraversa tutta l’opera di Dostoevskij è: il fine può giustificare i mezzi e dunque rendere conto di una vita? Qualcosa che riguarda sia la politica mondiale, chi detiene il potere, sia le singole vite di ognuno. Credo che oggi questa sia una delle domande fondamentali e condivido la risposta di Dostoevskij, che mai, in nessun caso il fine può giustificare i mezzi. Cosa possono fare istituzioni come L’Onu o la Croce Rossa se i primi a non mantenere le promesse, a non rispettare i principi condivisi sono i grandi stessi? E se loro non rispettano queste regole basilari come possono aspettarsi che lo facciano gli altri? È il cattivo esempio, come per i bambini, è la catastrofe di Guantanamo, la credibilità della politica occidentale distrutta. Praticare le pagine di Dostoevskij, le infinite sottigliezze della sua scrittura illuminata, come fa Svetlana Geier, può creare anticorpi, particelle impalpabili di resistenza a tutto questo.
Marzo 2014. Quali vie ha seguito il brillio di Svetlana Geier.
Abbiamo
continuato a sentirci anche dopo la fine del film. Ha partecipato
a una prima al festival Visions du Réel di Nyon e ad altre
proiezioni. Poi pian piano, nel 2010, è diventata sempre più debole
e ha trascorso gli ultimi due mesi a letto. Se ne è andata la notte tra
il 7 e l’8 di novembre. È stata una fine senza sofferenze acute.
Come era suo desiderio, è morta nella sua casa, con sua figlia
accanto, tra le sue cose, la sua tazza di tè, i suoi libri.
Pacificamente.
Cosa credi che avrebbe pensato di quanto sta accadendo in Ucraina?
Non
è semplice da dire. Non ho mai parlato specificamente con lei
della situazione politica nel suo paese d’origine, anche se so che
aveva simpatia per la rivoluzione avvenuta dieci anni fa. Bisogna
tener presente che era nata e cresciuta in Ucraina ma che la sua
cultura, i suoi genitori erano legati alla Russia, che a casa
parlavano russo. D’altra parte, aveva vissuto sulla propria pelle
snodi cruciali della storia ucraina del 900, lo stalinismo prima
e poi il nazismo e il filo della sua vita era stato profondamente
legato ai destini di quel paese. Successivamente gli eventi
l’avevano condotta a lasciare l’Ucraina per la Germania, senza
tornare se non dopo moltissimi anni. Ecco, quel viaggio, che ho
raccontato nel film, dà forse il senso di quanto forte e dolorosa
insieme fosse per lei la memoria delle sue radici (sulla tomba del
padre chiede alla nipote di portare con sé un rametto della sua terra,
per la nonna, ossia per se stessa, quando a sua volta morirà, ndr). Se
cerco allora di immaginare cosa avrebbe pensato, credo che
probabilmente si sarebbe sentita molto amareggiata del fatto che
l’Ucraina sia diventata materia di giochi politici tra Putin e gli
interessi Occidentali. Dunque credo che sarebbe molto sospettosa
e critica su quanto accade.
E tu cosa ne pensi?
Al
momento credo che sia molto difficile giudicare. Mi sembra una
situazione eterogenea che vede coinvolti interessi differenti.
A quanto so, anche da fonti dirette, in Ucraina al momento ci sono
persone molto impegnate, che lottano davvero per la democrazia, ma
è vero che ce ne sono anche altre estremamente nazionaliste.
Quindi è difficile capire quale direzione possa prendere il paese
adesso. Anche l’Ue poi non riesce a interfacciasi con una sola voce,
la sua debolezza è data dalle troppe motivazioni
particolaristiche al suo interno e in questo stato di cose
caotico, Putin ha buon gioco.
La
storia di Svetlana Geier lambisce la storia ucraina, quella russa
e quella tedesca e la difficoltà a conciliare le diverse componenti
…
La
situazione degli ex paesi sovietici si può paragonare a quelli
della ex Jugoslavia, al covare di conflitti e di contraddizioni
storiche antiche che poi a un certo punto sono esplose. È per questo
che quello dell’Ucraina, che riflette la complessità dell’Europa,
è un lungo processo che non può trovare soluzioni immediate.
Svetlana Geier cercava di creare connessioni, di costruire ponti tra
culture diverse e questo era grandioso perché lei capiva che le
differenze sono un vantaggio, la ricchezza che si genera dallo
scambio. Capirsi è una questione di cultura, di pazienza, di
attenzione alle sfumature.
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