La caduta di Salvini era già cominciata parecchio tempo fa, ormai, con i fracassanti proclami emessi a partire da un bagno (sì, da un bagno), ossia da una spiaggia privata, della riviera romagnola. Al Papeete, nell'agosto 2019, tra un ballo e l'altro in costume (da bagno, naturalmente) il leader della Lega si giocò la sua carriera politica. Aveva raggiunto il 34 per cento alle europee di giugno, veleggiava verso il 38 per cento secondo i sondaggi e pensò di poter dare una spallata al governo di cui faceva parte. "". Se fosse stato colpito da una insolazione, sarebbe stato più prudente. Dopo di allora, non ne ha imbroccata una e il suo partito ha continuato a perdere quota nelle varie tornate elettorali e nei sondaggi. Come mai? Una risposta parziale, ma interessante, si può trovare nel mancato ricorso alla parola "storia" nei suoi discorsi. Una parola come un'altra e, tuttavia, una parola che invece ritorna con insistenza sulla bocca della sua alleata e concorrente Giorgia Meloni. Ecco, Salvini sembra interpretare a suo modo un certo spirito del tempo, mostra di essere razzista, sovranista, ferocemente identitario. Un piccolo Trump, che a differenza del modello americano appare perseguitato dalla sfortuna. Come mai? Il fatto è che, per andare nel senso della storia, non basta conoscere la musica, bisogna saperla interpretare. E qui Meloni si è mostrata mille volte più abile del suo sgangherato confratello. Tanto l'una è ammiccante, perfida, perfino sorniona, quanto l'altro è pacchiano, sguaiato, stonato al dunque.
Veniamo all'epitaffio. Parla un vecchio cronista parlamentare, Marcello Sorgi: "Le regole interne della Lega sono costruite in modo da lasciargli sempre l'ultima parola, ma si sa che in qualsiasi storia politica, anche quella di un leader carismatico quale Salvini è stato indubbiamente, il momento quando arriva, arriva. E la saggia assoluzione dei giudici di Palermo spinge chiaramente in quel senso".
Avete capito, compagni? Voi ve la prendete con i giudici che non hanno condannato Salvini. In realtà, i giudici hanno fatto la loro parte, andando nel senso della storia. Hanno dato a Salvini il calcio dell'asino spingendolo dolcemente verso il baratro al quale era da anni ormai destinato.
L'ultima parola su questa triste e ridicola vicenda spetta al grande Niccolò, che vorremmo lasciare ai margini di questa pantomima e che per questo viene qui tirato in ballo solo con il nome ("tanto nomini" - dice la sua epigrafe):
La notte che morì Pier Soderini,
l’anima andò de l’inferno a la bocca;
gridò Pluton: — Ch’ inferno? anima sciocca,
va su nel limbo fra gli altri bambini.
Marco Damilano, L'assoluzione non basta a Salvini per uscire dall'irrilevanza
Domani, 22 dicembre 2024
... Il leader della Lega oggi può esultare per l'assoluzione giudiziaria, ma deve fare i conti con l'irrilevanza politica. Chi ha fatto trapelare il suo sogno, tornare al Viminale, rivela la frustrazione di un leader che si è sentito in questi anni dimezzato e che non si considera rappresentato dall'attuale ministro dell'Interno (Piantedosi si è messo da tempo sotto le ali protettive di Meloni). Sulla questione immigrazione il suo rovescio nel 2019 ha fatto scuola. Dagli errori di Salvini, Meloni ha imparato che gli sbarchi non si fronteggiano con i blocchi navali italiani (come anche lei ha chiesto per anni), ma affidando il controllo delle frontiere a Libia e Tunisia e spostando la commissione europea dalla sua parte.
Salvini è assolto, ma notabilizzato, il Salvini del 2019 è stato interamente assorbito dal melonismo vincente, difficile che risorga. Quello che torna a unire Meloni e Salvini, semmai, è l'assenza di un progetto strategico: senza neppure l'avversario giudiziario il governo delle destre navigherà a vista, tirerà a campare, andreottianamente. Ma c'è una lezione da apprendere anche per l'opposizione. Non si affidano le battaglie politiche alle sentenze giudiziarie.
Le battaglie si fanno nella società, nella vita concreta del Paese, affrontando le paure, ascoltando le inquietudini, dimostrando che la risposta migliore all'angoscia del futuro non è la solitudine di ognuno con il proprio incubo, che poi prende la forma dell'orrore di Magdeburgo, ma tenersi uniti, come ci insegnò Antonio Megalizzi, vittima del terrorismo islamico nel cuore dell'Europa, nel dicembre di sei anni fa. È dal corpo a corpo con la società che nasce una politica nuova, non trasformandoci in un Paese in attesa di giudizio, come si è fatto da anni.
Dobbiamo ripetere, soprattutto alla vigilia del Natale cristiano, che la giustizia umana non coincide con la verità assoluta, come pensano le opposte tifoserie, i manettari a oltranza che affidano la politica alle carte giudiziarie e quelli che al contrario in queste ore esultano sui social per l'assoluzione di Salvini come se l'arbitro avesse fischiato un calcio di rigore inatteso.
Quando la verità venne nel mondo, duemila anni fa, fu condannata a morte e crocifissa, con un processo popolare e sommario: l'uomo di Nazareth non era infatti uno dei potenti che anche quando sono alla sbarra possono contare su risorse economiche e su sistemi mediatici raffinati. Era uno dei milioni di vulnerabili della Terra che nascono e muoiono, senza un volto e un nome, senza il tempo di un lamento.
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