Simone Martini |
Raffaello |
Il Foglio, 20 dicembre 2024
La storia dell’arte raccontata attraverso l’icona più popolare e rappresentata, quella della Madonna con il Bambino.
Vittorio Sgarbi ci guida attraverso il tempo seguendo le immagini della Natività dal Duecento a oggi, nella varietà degli stili dei grandi maestri. Natività Madre e Figlio nell’arte (La nave di Teseo, 372 pp., 24 euro) è un libro strenna dal profumo natalizio, riccamente illustrato, per mettere a fuoco il pensiero che guida la mano degli artisti. Si comincia con la Maestà medievale di Duccio di Buoninsegna, che intende solo consacrare la divina maternità nella forma perfetta, senza pathos né emozioni, si prosegue con Giotto, che per primo scioglie la rigidità iconografica bizantina inserendo nella realtà una Madre e un Bambino di fisica concretezza, e si finisce nella stalla ottocentesca dove Giovanni Segantini affianca la mamma con il suo piccolo a una vacca con il vitellino, in una “parificazione al limite del sacrilegio”. Nel mezzo una carrellata di capolavori: dall’annunciazione di Simone Martini, “una danza, un tango impresso nella nostra memoria come un motivo musicale”, a quella di Antonello da Messina, dove l’angelo non si vede perché, concezione modernissima, è nell’interiorità di Maria, dalla Madonna del Parto di Piero della Francesca, narrata con le parole di Alain Delon nel film di Valerio Zurlini “La prima notte di quiete”, al paradosso della Pietà di Michelangelo, dove la madre è più giovane del figlio (a confermare il verso di Dante “Vergine madre figlia del tuo figlio”), dall’ordinata classicità di Giovanni Bellini al surrealismo onirico di Marco Zoppo. Le lezioni si snocciolano veloci e brillanti tra confronti e parallelismi anche musicali e letterari: Simone Martini guarda a Giotto come Klimt a Picasso, se Giotto è Bach, Agnolo Gaddi è Haydn e Lorenzo Monaco è Mozart, Correggio è come Ariosto, la Natività secentesca di Carlo Maratta anticipa i versi novecenteschi di Rilke. Si tracciano i confini tra un’epoca e l’altra, rendendo omaggio sia agli innovatori che hanno rivoluzionato il linguaggio dell’arte sia agli ultimi resistenti rimasti fedeli alla tradizione, nello struggimento che il loro mondo finisse. Un occhio attento va alla natura nella quale sono immersi i personaggi sacri: realistica o ideale, sfondo panoramico o paesaggio dell’anima. Ma si dà importanza anche all’influenza del contesto culturale: Moretto, per la Pala di Orzinuovi, deve adattarsi al linguaggio di Mantegna, già superato a Venezia e Firenze, ma ancora dominante in quel villaggio lombardo, mentre la nobiltà elegante dell’annunciazione di Tintoretto documenta il “gusto dell’aristocrazia veneta del Cinquecento maturo”. E’ grazie a Raffaello se tra la Vergine e il Bambino, che mette una mano nel seno della madre, si “stabilisce un rapporto di tale intimità domestica da far scendere la Madonna dal cielo alla terra, da Madonna con il Bambino a semplice madre con il figlio”. Con sempre maggiore naturalezza, la relazione sacra si umanizza e, mentre nella pittura antica Dio si faceva uomo, quella moderna rende divino l’uomo. Così Michelangelo “sembra che non scolpisca corpi ma anime, non Gesù e Maria ma ognuno di noi di fronte al mistero della morte e dell’essere madri e figli”: e se il Tondo Doni è una “scultura dipinta”, la scultura terminale della Pietà Rondanini intende “rappresentare quello che non è rappresentabile: lo spirito, non la carne”, per dimostrare che l’arte vince la morte. Si passano in rassegna le varie Madonne: quella di Paolo Veneziano è caratterizzata dalla “compostezza e l’indifferenza sentimentale”, perché l’artista trecentesco “non dipinge l’uomo e non dipinge per l’uomo: dipinge per la maggior gloria di Dio”; tutto il contrario della Madonna cinquecentesca dell’originalissima Annunciazione di Lorenzo Lotto, spaventata da un “angelo prepotente ed esuberante che le piomba in casa” con un atteggiamento da supereroe della Marvel, facendo scappare anche il gatto. La Madonna di Antonio da Negroponte “vuole stupire”, seduta sul “trono più sontuoso e assurdo che si possa immaginare”. Quella di Correggio è “espressione del cuore, non della ragione”, al contrario di quella del Perugino. Varie anche le tipologie del Bambino: quello iperattivo di Jacopo da Bassano si diverte a giocare con il velo della Madre, quello di Carlo Crivelli presagisce il doloroso destino della Passione, quello di Rubens risplende di luce caravaggesca. Arrivando ai nostri tempi, il soggetto della Natività diventa difficile da trovare, “tanto è rarefatto e quasi inesistente nella pittura del Novecento, come se gli artisti si vergognassero di affrontarlo”: fanno eccezione le splendide opere di Piero Gaudenzi e Domenico Maria Durante che concludono il volume. Il quale può essere letto non seguendo l’ordine dei capitoli: se volete iniziare dal più bello, vi segnaliamo quello su Moretto da Brescia “La devota invadenza dell’uomo comune”, titolo riferito alla presenza stonata del committente, brutto e vecchio, inginocchiato tra la Madonna col Bambino e i santi.
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