Un suicida salvato, la scomparsa di un caro amico, la proposta belga sull’eutanasia. Un confronto tra diritti e doveri
Siamo liberi, ma non padroni della vita
C’è il dolore e c’è la responsabilità L’uomo si interroga davanti alla morte, facciamolo anche davanti all’esistenza
Corriere della Sera, La Lettura, 8 dicembre 2013
Qualche settimana fa, due carabinieri hanno salvato in extremis un uomo che stava per suicidarsi e si era gettato nel vuoto con una corda al collo. Il fulmineo intervento è un’ulteriore decorazione sul medagliere dell’Arma, perché non è cosa da poco salvare una vita. In questo caso estremo non viene certo in mente alcun dubbio su quell’intervento così pronto. Ma fino a quando, fino a dove è lecito o giusto salvare la vita di qualcuno che vuole rifiutarla, rinunciarvi, fuggirla perché non la regge più? Se i carabinieri avessero fermato qualcuno mentre si recava in Svizzera o in altro posto per porre fine ai suoi giorni con un suicidio assistito, ciò sarebbe stato verosimilmente contestato come una violazione della libertà, una dogmatica costrizione a vivere imposta a chi non se ne sente più in grado, schiacciato e tormentato da un peso o da un dolore insopportabile.
Ma è giustificata questa differenza — che certo in noi è istintiva e profonda — fra due modalità di impedire una morte o meglio fra due modalità di porre volutamente fine alla propria vita, una da rispettare e l’altra da impedire anche contro la volontà dell’interessato? Certo, in un caso si può presupporre una decisione meditata, una volontà razionalmente radicata nella persona, pienamente consapevole, mentre in altre circostanze si può pensare a una scelta dettata da un’esaltazione momentanea, priva di lucidità che non esprime una deliberata, cosciente e libera volontà, come il gesto di chi agisca alterato da una droga o da un violento choc. Ma, a parte casi particolarmente evidenti, chi si prende l’arbitrio di decidere sulla volontà di un altro, di stabilire che un altro vuole o non vuole veramente ciò che dice di volere, di desiderare, ciò che invoca? Saremmo felici se Monicelli o Lizzani — cui va il mio intenso e, nel caso di Lizzani, personalmente grato ricordo—fossero vivi, ma sarebbe stato lecito impedire loro ciò che hanno voluto? Siamo certi che i bambini sofferenti — cui in Belgio una proposta di legge vorrebbe dare la possibilità di richiedere l’eutanasia — abbiano una capacità di giudizio superiore a quella dell’uomo salvato dai carabinieri? E uno psicologo, esperto di una scienza non certo esatta e particolarmente esposta a interpretazione impressionistiche, è proprio certo che la sappia più lunga? E gli stessi genitori — non tutti necessariamente amorosi e specialmente non tutti necessariamente intelligenti e preparati, come dimostrano tante cronache—possono essere considerati «padroni» dei loro figli sino al punto di decidere della loro vita o della loro morte?
Ci può essere un’implicita violenza, un superbo senso di superiorità nel credere che si possano legare le mani di chi vuole impiccarsi e che non si debba invece legarle a chi vuol prendere le pillole prescritte. Non sto certo scoraggiando chi ha generosamente e talora rischiosamente trattenuto un fratello sull’orlo del baratro e non sto propugnando l’obbligo di accanirsi a prolungare la vita a ogni costo e in ogni condizione, pure contro la volontà o anche solo contro la possibilità di sopportazione della persona. C’è un momento, hanno scritto teologi come Thiede o Sölle, in cui proprio il senso cristiano della finitezza umana e della vita come viaggio — anche comico, visto da lassù — aiuta a dire di sì alla sua conclusione e le mani, non più nevroticamente contratte, lasciano la presa. Non è la vita che va idolatrata, perché è difficile dire se il Big Bang sia stato un bene o un male; sono i viventi che vanno rispettati in tutte le fasi della loro esistenza, da quelle deboli degli inizi nel grembo materno a quelle deboli della fine e a tutte quelle intermedie, felici o dolorose.
Altrimenti potrebbe diventare realtà la feroce, paradossale satira del grande Philip Dick — l’autore di tanti capolavori di fantascienza — quando in un racconto immagina che la liceità dell’aborto venga prolungata sino ai nove anni del figlio o della figlia. Inoltre c’è una fondamentale differenza tra chi invoca la morte, per sé o per gli altri, sotto la pressione di sofferenze insopportabili e chi vorrebbe stabilire un livello di «abilità» o di salute al di sotto del quale è lecito o magari socialmente ed economicamente auspicabile la soppressione del «disabile», come quella praticata dal nazismo con l’operazione «Aktion T4», volta, come ha ricordato di recente Marco Paolini, a eliminare migliaia di tedeschi «la cui vita non era degna di essere vissuta», senza chiedersi chi stabilisce quando una vita è degna o no di essere vissuta.
È difficile avere, in queste cose, certezze. Probabilmente abbiamo perso la familiarità con la morte che aveva la civiltà classica, il senso concreto di far parte del gran fiume delle cose, come dice l’espressione cinese, del ciclo di aurora e tramonto, fiorire e appassire, aggregazione e disgregazione degli elementi. Si è forse data troppa importanza alla morte, permettendole di fare troppo il gradasso e di presentarsi come il trionfo del nulla e dell’insensatezza di tutto.
Pochi giorni fa ha varcato la soglia finale un mio amico che ha contato e dunque conta moltissimo nella mia vita; Giovanni Gabrielli, grande studioso di diritto civile, grande avvocato e grande figura di quel mondo in cui il diritto è un timone della vita economica e civile di un Paese. Ma soprattutto, da sessantacinque anni — dalla prima media — mio compagno dei momenti anche dolorosi e difficili e di una continua invenzione festosa e ironica della vita, vissuta con impegno e serietà non seriosa, ma anche come gioco che spariglia le carte, come una risata felice. Tormentato da continui e sempre più estesi dolori e mai lamentoso, non ha permesso che la sua sofferenza e la sua morte, che sapeva imminente, incidessero sulla sua visione del mondo o lo inducessero a vaghe e ansiose filosofie del nulla. È stato sempre immune da quell’egocentrismo di chi sta male e pensa che questo suo male sia il centro del mondo e che tutti debbano pensare ad esso. La morte, diceva, non è il momento più importante né tantomeno decisivo dell’esistenza, conta ad esempio meno che non sposarsi, avere figli.
Non parlavamo certo della morte nelle ore passate insieme negli ultimi mesi; abbiamo anche riso, come abbiamo fatto molto spesso per sessantacinque anni, a cominciare dal liceo, dove lui primeggiava come credo nessun altro — traduceva ardui brani di Tucidide in pochi minuti — e, quando un professore commetteva l’errore, involontariamente umiliante per gli altri, di chiamarlo «cavallo di razza», si metteva immediatamente a ragliare, cosa in cui eccelleva come negli aoristi. Abbiamo imparato insieme a ridere delle persone e delle cose che allo stesso tempo amavamo e rispettavamo, sapendole ben più grandi di noi, e a ridere di noi stessi — consci di essere comiche comparse nel teatro del mondo — e a considerare più che giuste le frequenti sanzioni disciplinari che ci venivano inflitte per il continuo subbuglio che provocavamo. L’ultimo dialogo con Gianni, pochissimi giorni prima della sua morte, è nato dalla sua preghiera, dal letto in cui giaceva sofferente, di spegnergli la televisione. Dopo qualche minuto in cui mi arrabattavo senza risultato col telecomando, mi ha detto, con una voce in cui c’era tutta la sessantacinquennale consapevolezza della mia incorreggibile inettitudine: «Dame qua, dame qua, fazzo mi».
È un senso classico, della vita e dunque della morte, che occorrerebbe recuperare. Non a caso Gianni leggeva costantemente i classici, non solo greci ma anche e forse ancor più latini, meno accesi dal fuoco dell’assoluto metafisico e delle domande ultime e limpidamente radicati nella buona e dura terra con le sue fioriture e il loro appassire, la repubblica e le sue leggi, Plinio il giovane che chiede a Traiano come comportarsi con i cristiani e l’imperatoria brevitas della dura risposta del sovrano. La classicità è ironica, perché insegna la necessità e la precarietà della precisione. Il latino insegna il nominativo e l’accusativo e, se non li si conosce o, peggio, li si scambia, non si sa chi è che ruba e chi è che è derubato e si finisce, come nell’immortale Pinocchio, per mettere in galera il derubato e lasciare libero il ladro. La parola classica, parola di una lingua morta, sembrerebbe dunque non voler dir niente e invece dice tante cose, dice quell’indicibile che si addensa dietro, intorno a ogni parola e a ogni situazione. La parola classica trasmette il senso della propria sicurezza e della propria precarietà; insegna che non si riesce a dire tutto e insegna la familiarità con la ricerca della verità, lo scetticismo circa la possibilità di afferrarla e la fede nella capacità di afferrare comunque in questa ricerca qualcosa di essenziale e imperituro. Trasmette soprattutto, con la sua grandiosa inutilità, l’ironia per tutta questa avventura. Quando il preside ci dava la pagella e ad alcuni di noi, ad esempio a me, diceva: «Si ricordi, Magris, qui proficit litteris sed deficit moribus magis deficit quam proficit», quel latino confermava ma anche smontava la serietà di quell’elogio e di quella predica. Pure il diritto di cui Gabrielli è un maestro, ha un suo affascinante umorismo linguistico che nasce dal rigore della classificazione e dal tacito senso della sua vanità. L’ironia è la più grande avversaria della morte, perché l’assume su di sé, ma come ci si cambia un soprabito.
Forse bisognerebbe ritrovare concretamente, fisicamente il senso della morte quale sigillo della nostra appartenenza all’ordine naturale delle cose; viverla certo come mistero, ma senza la necessità di parlare troppo del mistero e delle cose nascoste e continuando, anche su quella soglia, a interessarsi delle cose relative ed effimere di cui ci si è interessati nella quotidianità, anche al corso di un titolo in Borsa. Un senso classico — romano più ancora che greco — invita a venerare l’imperscrutabile ma, proprio perché è imperscrutabile, a non angosciarsi nell’ossessivo tentativo di scrutarlo. Ciò non implica affatto necessariamente uno spirito irreligioso: le nostre contingenze — dice un bellissimo passo di una lettera di Biagio Marin al suo traduttore cinese — colorano l’eternità di Dio; sono il nostro modo di vivere quella «inafferrabilità di Dio» che, ricorda Alberto Melloni nel suo forte, incisivo libro Quel che resta di Dio, è proclamata con forza «martellante» nella Bibbia. Inafferrabilità dunque pure della nostra morte, che allora è meglio vivere come una parte prevista e normale nel teatro della nostra esistenza, i cui elementi ricevono l’ordine o decidono di rompere le righe.
Certamente vi sono sofferenze inaudite, fisiche e psichiche, inflitte dalla sorte o dagli uomini che rendono impossibile ogni dignità classica e ogni composta uscita di scena al termine previsto dello spettacolo. La grande forza del cristianesimo è il bruciante tentativo di confrontarsi con l’infimo e l’estremo della condizione umana, talora così insostenibile e insopportabile da indurre non ad attendere di cadere, bensì a precipitarsi di propria volontà in quel buio che, scrive il teologo Karl Rahner parlando del suicidio, è l’oscura mano di Dio che sorregge come una rete chi cade, perché è inciampato o non ce la fa più.
Morire è anche un diritto. Non perché si sia «padroni di sé stessi», come recita una rozza parola d’ordine; essere padroni è sempre un abuso, significa trattare gli altri come schiavi e anche trattare sé stessi da schiavi è un’umiliazione, un’alienazione che degrada e opprime il nostro Io.
L’uomo è libero, il che è altra cosa da essere padrone (il quale ad esempio può essere schiavo di sé stesso, delle proprie brame, delle proprie ansie). Libero anche di non voler continuare a vivere. Ma questa autentica libertà non è un’orgogliosa e benpensante rivendicazione di diritti sindacali, come accade troppo spesso quando si parla di eutanasia, di suicidio assistito, con una soddisfatta retorica politically correct, ossia ipocrita, ferocemente sferzata da un dramma dello scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark, La morte moderna.
Questa libertà confina e sconfina con la responsabilità, con i rapporti con gli altri; il grande scrittore argentino Ernesto Sábato ha scritto di aver pensato alcune volte al suicidio e di essersene astenuto per non recare dolore agli altri, convinto che non sia lecito far soffrire nessuno, nemmeno un cane. Ma se uno non ce la fa, se il mondo che come Atlante egli regge sulle sue spalle è per lui troppo pesante e lo schianta, lo maciulla? Chi può imporre a un altro di sopportare sofferenze per lui insostenibili? Sofferenze che possono essere anche solo psichiche, ma non perciò meno crudeli e intollerabili. Forse si ha più comprensione per i dolori fisici che per quelli psichici e spirituali. Ma perché un cancro dovrebbe commuovere più di un’ossessione che occupa la mente sino alla disperazione?
Il famoso giuramento di Ippocrate, che obbliga il medico a tutelare a ogni costo la vita e l’integrità del paziente, sembra cadere sempre più in discredito e si invoca che esso sia subordinato alla volontà del paziente, visto che si tratta della mente e del corpo del paziente e non del medico — né, beninteso, dei famigliari del paziente stesso, che non possono sovrapporre la loro volontà alla sua. Ma qual è, quale dovrebbe essere il confine di questa condiscendenza del medico al desiderio di chi gli chiede aiuto? Origene, grande teologo e interprete della Scrittura, si evirò, forse per aver offeso la continenza e per non offenderla più. Se un fanatico della purezza chiedesse al medico di evirarlo per evitargli tentazioni sessuali e pensieri impuri, il medico dovrebbe seguire la sua etica, che gli vieta di castrare il maniaco della castità, o rispettare la sua libera scelta?
Talora nell’aiuto a chi vuole uscire di scena può insinuarsi un’orribile falsa pappa del cuore, la sentimentalità inconsapevolmente cinica di tante benintenzionate persone convinte di essere sensibili; talmente sensibili da non poter vedere accanto a sé alcuna sofferenza e alcun sofferente e profondamente sollevate quando sofferenza e sofferenti vengono tolti o si tolgono di mezzo. Ci sono persone così sensibili, diceva Bernanos, che non possono veder soffrire alcun animaletto e lo schiacciano subito, non per non farlo più soffrire, ma per non vederlo più soffrire.
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